Viviane
                 (Titolo originario: Gett    Le procès de Viviane Amsalem ; Israele/ Francia / Germania/ 2014; Genere: Drammatico)
“Il marito della mia assistita finora si è rifiutato di collaborare”
“Le sta dicendo di tornare a casa. E’ pronto a dimenticare tutto”
Un tema scottante svolto in modo delicato ed efficace, in grado di colpire nel profondo lo spettatore.
Viviane dei fratelli israeliani Ronit e Shlomi Elkabetz, in questi giorni nelle nostre sale cinematografiche, tratta tematiche che, al di là delle differenze storiche e giuridiche tra Israele e gli altri Paesi occidentali, fanno riflettere per la loro attualità.
Occorre una premessa.
Nel neo (ri)costituito Stato di Israele, David Ben Gurion decise, per ragioni di opportunità politica, di affidare la gestione del diritto di famiglia (in particolare la normativa sul matrimonio) alle autorità delle diverse religioni. Così per i cattolici valeva (e vale) il diritto canonico, per i musulmani la sharia, per gli ebrei la halachà.
Dunque non esiste il matrimonio civile, ma solo quello religioso e il divorzio può essere ratificato (per quanto riguarda gli ebrei) solo da un tribunale rabbinico, il quale, per emettere la relativa sentenza, abbisogna del consenso del marito. Si tratta di un documento che quest’ultimo depone nelle mani della moglie (unite tra loro sì da formare una coppa) ripetendo la formula che, d’ora in avanti, ella può essere promessa a qualunque altro uomo. Secondo l’antica legge biblica quindi il divorzio (ghet) può essere concesso solo dagli uomini, a loro piacere; nel Medioevo la norma fu adattata in modo che, in sostanza, il divorzio può avvenire solo se entrambi gl’interessati sono consenzienti. E in caso ciò non si verifichi? Ne possono scaturire situazioni difficili, come, ad esempio, quando una donna resta, suo malgrado, legata ad un marito -dal quale, di fatto, è separata da tempo- poiché egli non ha dato il proprio assenso al divorzio; ciò con gravi sofferenze per lei.
E’ un problema cui la società israeliana è molto sensibile -e ciò vale pure per alcuni ambienti religiosi- e al quale si cerca di porre rimedio senza uscire dalla legge biblica, con gl’inevitabili problemi giuridici.
C’è poi una sorta di …scappatoia. Matrimonio civile celebrato all’estero, preferibilmente a Cipro, fatto poi trascrivere in Patria; ma non tutti se la sentono di seguire tale strada.
Con l’occasione, giova in compenso ricordare come, in Israele, vi sia molta apertura nei confronti delle coppie conviventi, incluse quelle omosessuali, alle quali sono accordati sicurezza sociale e diritti civili pari a quelli delle coppie legate da matrimonio.
Il film è la storia della lunga ed estenuante guerra giudiziaria condotta da una donna israeliana, Viviane Amsalem, interpretata dalla stessa regista, la bravissima Ronit Elkabetz, per ottenere il divorzio dal marito Elisha.
Da alcuni anni ella ha lasciato il tetto coniugale e si è stabilita presso la famiglia del fratello.
I figli della coppia vivono altrove, tranne il più giovane, quattordicenne, che sta col padre, visitato dalla madre in assenza di lui.
Viviane non chiede danaro perché è autosufficiente (svolge l’attività di parrucchiera, come la madre dei fratelli Elkabetz), bensì desidera solo, con tutte le sua forze, riacquistare la propria libertà.
Il tormento pare non avere fine poiché Elisha (Simon Abkarian, attore francese di origine armena), per molto tempo, non si presenta alle udienze davanti al tribunale rabbinico, convinto che, col proprio ostruzionismo, riuscirà a far desistere la moglie dai suoi propositi. E quando si decide a presenziare, lo fa al solo scopo di negare con ostinazione il consenso.
Scandita da scritte in sovraimpressione che indicano l’inesorabile trascorrere del tempo (“tre mesi più tardi”; “due mesi dopo”…), tutta la storia si dipana nell’angusta, bianca aula del tribunale dove si svolge il processo -salvo solo brevi intermezzi nella saletta di attesa-; processo modellato, in linea generale, secondo le regole della common law, con giudici e avvocati che interrogano le parti e i testimoni. L’azione si svolge in una città, o cittadina, israeliana, non precisata.
Davanti ai tre giudici religiosi sono seduti i coniugi con i rispettivi difensori. Per lui: il fratello Shimon, tanto saccente quanto superficiale; per lei il barbuto e fascinoso Carmel (Menashe Noy), impulsivo e pieno di umana comprensione. Particolare significativo: contrariamente a tutti gli altri uomini presenti, sul capo non porta la kippah, nonostante provenga da una famiglia di studiosi delle Sacre Scritture.
La battaglia tra marito e moglie è fatta di brevi frasi, sguardi, silenzi…..
Lui: torvo, ostinato, ossessionato dall’ortodossia religiosa, pignolo in modo assurdo, sicuro di sé all’apparenza; in realtà consapevole del fatto che, qualora cedesse, crollerebbe tutto il suo piccolo mondo fatto di rigidità e, ciò che più conta, di gelosia mai repressa. Meglio vivere con una donna da cui non si è amati piuttosto che lasciarla libera, ammettendo così il proprio fallimento esistenziale,
Lei: intensa, passionale, desiderosa di amare e di essere amata, non riesce più a vivere (nonostante il periodo di prova imposto senza costrutto dall’ “egregio rabbino” che dirige la triade giudicante) con un uomo che non sa apprezzarla e la tiene a distanza; un marito che nemmeno sa concepire l’idea di avere e frequentare amici.
E’ una donna che, suo malgrado, provoca turbamento nei presenti, un irresistibile richiamo sessuale. Sia che vesta con un semplice abito nero e porti i capelli raccolti, sia che indossi una vivace camicia rossa, sia che scoppi, all’improvviso, in una  risata, per la frase pronunciata da una testimone. Sia che, in un momento di insofferenza, sciolga ed accarezzi la lunga chioma nera, suscitando la stizzosa reazione dei rabbini, che la richiamano all’ordine apostrofandola con sussiego “donna”. Rabbini mal disposti verso di lei: non sono mai sufficienti, a loro insindacabile giudizio, i motivi per i quali ella chiede il divorzio e cercano di far cadere in contraddizione l’avvocato e la cliente.
Viviane è ben consapevole della propria precaria condizione: finché Elisha non le avrà concesso il divorzio, non le sarà possibile alcun tipo di vita sociale. Sarà un’autentica emarginata.
Va da sé che, ad un certo punto, gli “egregi rabbini”, sospettosi fin dall’inizio verso questa femmina ribelle, insinuano una tresca tra lei e il suo legale. In uno dei commenti da me letti qua e là sui quotidiani, una signora, alla quale il film è molto piaciuto, si chiedeva, scherzando ma non troppo, come mai alla protagonista non viene in mente di tradire il coniuge (o almeno di farlo credere). In questo caso egli sarebbe obbligato ad accordarle il divorzio. Il “libello del ripudio” di evangelica memoria, insomma. Ma Viviane ha troppo rispetto nei confronti di se stessa e verso l’istituto del matrimonio per ricorrere a simili macchinazioni. Un’altra prova della sua grande dignità.
L’ambiente ristretto induce lo spettatore a non perdere un particolare, un’inquadratura, un colore, un cenno.
Anche se si è inevitabilmente portati a solidarizzare con la donna, il punto di vista di ciascuno dei “contendenti” è mostrato con voluta obiettività, lasciando a noi l’onere di schierarci per l’una o per l’altro.
Quando, su istanza delle parti, vengono indotti alcuni testimoni, lo scenario si allarga. Ci rendiamo conto di quanto contraddittoria sia la realtà circostante, di quanto l’apparente rispettabilità nasconda un contesto diverso da quello che gl’intervenuti vorrebbero farci credere.
Significativo, ad esempio, è il rapporto, privo di vero affetto e di sincera comunione di vita, tra il responsabile della sinagoga e sua moglie.
Il tempo trascorre inesorabile, senza risultati degni di nota e questo ci rammenta le assurde lungaggini burocratiche che contraddistinguono anche le nostre vicende giudiziarie.
Soprattutto colpisce il distacco -verrebbe da chiamarlo becero materialismo- col quale le autorità religiose trattano temi carichi di autentica sofferenza, proprio loro che dovrebbero essere le più sensibili alle istanze del cuore. Talora simile freddezza rasenta il ridicolo, specie in contrasto con le frasi grondanti vita vissuta pronunciate da alcuni testimoni. E col sarcasmo di altri nel presentare le vicende di casa  Amsalem. Ed arriva ad esasperare Viviane, tanto che lei, e noi non possiamo che condividerne l’atteggiamento, si scaglia contro i giudici accusandoli di essere uomini senza misericordia, attaccati ad un potere che però, un giorno, verrà loro tolto.
Si arriverà ad una soluzione? Si arriverà, alla fine, ma sarà amara per la protagonista.
Tuttavia la libertà vale qualunque rinuncia.
Con il presente film, un serio contributo di valore universale, Ronit Elkabetz conclude la trilogia di opere dedicate alla realtà, poco nota tra il grande pubblico, degl’israeliani di origine marocchina -le brevi battute rivolte all’inizio da Elisha a Viviane sono in francese-. Gli altri due film, non distribuiti in Italia, sono: To take a wife (2004) e Shivat-Seven days (2007). Abbiamo conosciuto questa fantastica attrice, nativa di Be’er Sheva, vincitrice di tre Premi Ophir (sorta di Oscar israeliano), molto amata anche in Francia, grazie all’irresistibile La banda di Eran Kolirin (2007) [1], dove interpretava Dina, una donna disincantata e delusa dalla vita, ma sempre desiderosa di amore e rapporti sinceri.
Viviane o, come recita l’intero titolo, Gett – Le procès de Viviane Amsalem, ha vinto il primo premio all’ultimo Jerusalem Film Festival, a pari merito con Princess di Tali Shalom Ezer, ed è stato presentato con successo ai Festival cinematografici di Cannes e di Toronto.
Israele lo ha candidato all’Oscar per il migliore film straniero.

MAZAL TOV!!!!

 

 


[1] V. mia recensione su questo sito (Marzo 2008).