Rotem Simha

                A cura di Anna Rolli e David Meghnagi, Ed. Salomone Belforte (collana Studi sul sionismo), Livorno, 2014, pp. 242, €. 20,00

“Una calma improvvisa scese su di me, mi sentivo così bene in mezzo alle rovine del ghetto accanto ai cadaveri di quelli che mi erano stati cari, desideravo rimanere per aspettare l’alba, per aspettare l’arrivo dei tedeschi, ucciderne qualcuno e poi morire”
Nell’autunno 2010, durante una delle frequenti scorribande informatiche alla ricerca di autori ed argomenti interessanti, la mia attenzione cadde sul titolo di un volume, di prossima pubblicazione: Aspetterò il mattino. La rivolta del ghetto di Varsavia nelle parole dell’ultimo sopravvissuto; Editore Rizzoli (collana: Saggi stranieri); autore: Kazik Simha Rotem.
La storia nota -almeno nelle sue linee essenziali- di un gruppo di circa duecento ragazzi ebrei i quali, dal 19 aprile al 16 maggio 1943, opposero una strenua resistenza allorché i nazisti decisero di distruggere il ghetto ebraico di Varsavia (ufficialmente istituito nell’ottobre 1940),dove sopravvivevano -in mezzo ad indicibili sofferenze- 50.000 persone degli originari 360.000 abitanti ebrei della capitale polacca, un terzo della popolazione cittadina. E’ opportuno precisare che l’insurrezione aveva avuto i suoi prodromi fin dal mese di gennaio, allorché i coraggiosi combattenti, organizzati in quattro gruppi, si erano ribellati ai tedeschi i quali, secondo gli ordini di Himmler (in visita là proprio in quei giorni), si apprestavano a deportare dal ghetto 8.000 ebrei “illegali”. Una battaglia durata alcuni giorni, che non portò il successo agl’insorti, ma ne mise in luce l’audacia e la capacità di vendere cara la pelle.
Armati solo di pistole e bottiglie Molotov, essi misero in conto di morire, ma con le armi in pugno, anziché arrendersi allo spietato nemico che aveva invaso ed occupato il loro Paese fin dal settembre 1939. Meglio lottare alla disperata agguantando una sia pur flebile speranza di salvezza piuttosto che andare incontro ad una fine certa nei campi di sterminio della cui realtà essi -giovane avanguardia in una moltitudine incredula e disorientata- erano da qualche tempo a conoscenza.
I coraggiosi combattenti riuscirono dunque a tener testa alle SS per circa un mese.
Fu la prima azione armata su larga scala nella storia delle invasioni naziste. Dopo la sconfitta, mentre il ghetto veniva distrutto, i sopravvissuti furono salvati e fatti fuggire, attraverso le fogne, da uno dei capi della rivolta, Simha Rotem, detto Kazik (19 anni).
Il testo che aveva suscitato in me tanto interesse si preannunciava quindi come un autentico memoir di guerra: dall’organizzazione clandestina, alla durezza del combattimento, all’incredibile salvataggio dei compagni da parte dell’Autore, al proseguimento della lotta attraverso la partecipazione alla rivolta di Varsavia l’anno successivo, fino al drammatico dopoguerra.
In attesa dell’uscita del volume, a metà 2012, lessi emozionata un’altra testimonianza, preziosa sotto molteplici punti di vista, anzitutto in ordine al problema del linguaggio da adottare nella narrazione: quella del più noto tra i “ragazzi” del ghetto giunti al dopoguerra, cioè Marek Edelman, che ha raccontato la sua vicenda in alcune opere memorabili, tra cui Il ghetto di Varsavia lotta, edito da Giuntina [1]. Marek era il vice del leggendario Mordechai Anielewicz, il capo della rivolta e militante sionista, suicidatosi l’8 maggio 1943, insieme con la sua compagna, Mira Fuchrer, nel bunker del comando in Via Mila n. 18, per non cadere nelle mani dei tedeschi.
Edelman, dopo la fine della guerra, rimase in Polonia, a Lodz, assegnando a se stesso il compito di “custodire le tombe dei suoi amici”. Vi svolse con dedizione e competenza la professione di medico, impegnandosi, fin dove gli fosse possibile, di “arrivare prima del Signore Iddio”.
E’ morto nell’autunno 2009.
           EDELMAN Marek
Ora finalmente anche in Italia è stato pubblicato il diario di Rotem, anche se non con Rizzoli; anzi ne sono uscite due edizioni.
La prima è il presente volume (il testo, diciamo, ufficiale), Il passato che è in me; Memorie di un combattente del ghetto di Varsavia; la seconda è pubblicata da Teti, col titolo La Shoah che è in me, prefazione di Gad Lerner. Non intendo annoiare chi legge discettando su questo piccolo giallo editoriale; tra l’altro, la questione mi pare superata e pure secondaria, specie se messa a confronto col valore del tema svolto.
M’interessa invece intrattenermi sull’Autore, uomo di altissima levatura e coraggio, sereno e schivo nei modi, giunto -novantenne!- in Italia da Israele, dove vive, per presentare il suo libro.
Le due foto che seguono lo ritraggono l’anno scorso, a Varsavia, in occasione delle commemorazioni della rivolta del ghetto (settant’anni)
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                 Egli ha suscitato profonda emozione in chi ha avuto la fortuna di conoscerlo.

A Roma ha incontrato, tra gli altri, nel Tempio Maggiore, un folto gruppo di studenti in procinto di compiere l’annuale viaggio di formazione ad Auschwitz. “Ragazzi, vi trovate di fronte alla storia e vi assicuro che questo non capita spesso” ha fatto osservare ai presenti in modo perspicuo lo storico Marcello Pezzetti.
Simha (classe 1924) è uno degli ultimi capi della rivolta tuttora in vita; in tutto sono tre.
Nacque nella capitale polacca (sobborgo di Czerniakow) da una famiglia ebraica autoctona, sia per parte di madre che di padre. Il nome e cognome originari sono: Szymon Ratajzer.
A quattordici anni comincia a farsi strada in lui uno spirito sionista, grazie, in primo luogo, alle testimonianze scritte e fotografiche di alcuni amici di famiglia, gli Steins, emigrati nella Palestina mandataria alcuni anni prima; già questo semplice fatto aveva suscitato, scrive, “una grande impressione su tutti noi”.
Allo scoppio del conflitto mondiale ha 15 anni. Si salva per miracolo durante un bombardamento tedesco del settembre 1939, nel quale vengono uccisi diversi familiari.
Nel 1942 entra in contatto con l’appena costituita ŽOB (Zydowska Organizacja Bojowa, Organizzazione Ebraica di Combattimento), di matrice socialista, artefice dell’insurrezione del ghetto.
Szymon è ben presto conosciuto col nome di battaglia di Kazik (diminutivo di Kazimierz, cioè Casimiro) per i lineamenti da gentile che gli consentivano di uscire dal ghetto senza essere notato, oltre che per la parlata polacca priva di inflessione yiddish; caratteristiche che facevano di lui l’ideale staffetta della Resistenza Ebraica, col compito poi di facilitare, nel prosieguo, i passaggi tra le macerie del quartiere ebraico e di tenere i contatti con la Resistenza all’esterno. Consegue ben presto, grazie all’abnegazione e all’intraprendenza, una rilevante posizione all’interno del movimento e collabora con i principali esponenti, a cominciare da Yitzhak Zuckerman (Antek) [2].
L’attività di Kazik come capo delle staffette dello ŽOB e come collegamento con la Resistenza polacca generale sarà preziosa anche per l’opera di soccorso a quegli Ebrei che, dopo la distruzione del ghetto, incredibilmente ancora vivevano -nascosti- a Varsavia e luoghi vicini. Sono quegli “strani ebrei”  i quali  “…rinchiusi per mesi in nicchie, soffitti e ripostigli erano riusciti a preservare i valori umani nei quali credevano. Alcuni non erano mai usciti su un tetto o su un balcone per respirare un po’ di aria fresca neppure durante la notte”.
Durante l’epoca della Resistenza affronta tremende difficoltà, a cominciare dall’antisemitismo di cui tutta la società polacca è impregnata, compresi i militanti antinazisti.
Nel 1947 compie l’aliyah ed assume nome e cognome biblici: Simha (Gioia) Rotem, dal nome di un cespuglio dai fiori profumati, amato dal Profeta Elia.
Era stato lo stesso Antek a chiedere al suo braccio destro, nella primavera del 1944, una sorta di primo resoconto della loro drammatica esperienza; proprio nel periodo in cui i superstiti della rivolta vivevano alla macchia poiché i nazisti ancora spadroneggiavano nel Paese.
Quasi un quarantennio più tardi gli antichi compagni di lotta, fondatori del kibbutz israeliano Lohamei Hagetaot, cioè il kibbutz dei Combattenti del Ghetto -noto pure perché sede di un notevole centro studi sulla Shoah, secondo per rilevanza solo allo Yad Vashem di Gerusalemme, sorto qualche tempo dopo-, lo invitarono a terminare la sua opera; il cui originale ebraico fu tradotto in inglese per la Yale University nel 1994.
La presente edizione è un testo ricco e completo -con un’utile appendice cronologica, nonché breve ed esaustiva bibliografia-, curato da Anna Rolli, autrice delle note e di una illuminante prefazione. La vicenda di questi ragazzi  è inquadrata in un preciso contesto storico / politico/culturale. La vitalissima cultura ebraica, sviluppatasi in Polonia negli anni ’20 e ’30 del Novecento -nonostante la crescita dell’antisemitismo, le accuse, i boicottaggi, le discriminazioni- fu distrutta dall’occupazione tedesca che, come scrive la studiosa, pose fine ad una civiltà portando alla disgregazione della struttura sociale ebraica.
La resistenza all’invasore cominciò ben presto ad organizzarsi in diverse forme, cementata “da un forte spirito di solidarietà e fratellanza” [3], che il lettore può conoscere e rivivere con forte emozione attraverso le pagine del nostro Autore.
Espressione di questo spirito di vita e libertà furono i giovani combattenti del ghetto.
Il diario di Kazik è un resoconto in presa diretta, espresso in uno stile asciutto, privo di retorica come si addice ad un vero eroe. A volte pare quasi che l’A. nasconda di proposito i propri sentimenti: rivive, con tono all’apparenza distaccato, quegli istanti durissimi durante i quali egli e i compagni, soli al mondo, s’imponevano di non cedere all’emozione e alla paura per poter andare avanti. Ma l’umanità, i comuni sentimenti, i timori, affiorano inevitabili ….
Toccanti i quadretti familiari, all’inizio del racconto, che ci donano una Polonia contadina, con le immagini affettuose della famiglia; in primo luogo i nonni, materni e paterni.
Vicende personali s’intrecciano coi tragici eventi di cui è protagonista il Paese.
E, spesso vissuto senza sconti e condizionato dall’incalzare inesorabile degli eventi, l’atroce dilemma, il dramma, condiviso tra i membri del gruppo, non senza contrasti talora forti, di scelte molto difficili -anche dal punto di vista etico-. In primo luogo, il sentimento di colpa per non aver aspettato abbastanza e dunque per non aver salvato un numero maggiore di persone; la tragedia di abbandonare innocenti al proprio destino: “Le strade non erano altro che rovine fumanti….Una volta vidi un mucchio di cadaveri ed udii il pianto di un bambino. Avvicinandomi scoprii una donna morta e tra le sue braccia un bambino ancora vivo. Rimasi immobile per un attimo, poi ripresi a camminare…”.
Una variegata umanità (ri)prende corpo. Pensieri e sentimenti espressi con assoluta sincerità, come l’indifferenza dei polacchi in generale per ciò che accadeva “dall’altra parte”.
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             “Osservavo le facce delle persone che passavano nei pressi” scrive Kazik “ognuno si affrettava per la propria strada e dietro i propri affari, nessuno si occupava di ciò che accadeva al di là delle mura….I polacchi non esprimevano compassione per ciò che accadeva agli ebrei della loro città, alcuni addirittura sembravano contenti per la ‘purificazione’ di Varsavia dai giudei”.
Incontriamo i personaggi sinistri della polizia ebraica del ghetto; la bella ed intrepida Dvora Baran, il primo amore di Kazik, morta in combattimento poco più che ventenne
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i due coniugi Antek Zuckerman e Zivia Lubetkin; quest’ultima sempre premurosa con lui, una vera “madre ebrea”…e tanti altri che il lettore amerà via via che li incontrerà, perché, ben presto, gli diventeranno familiari.
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                 I loro difficili rapporti, in quanto ebrei, con le organizzazioni della Resistenza polacca.
L’incredibile ritrovamento dei genitori Ratajzer, alla fine del conflitto….La sensazione di essere straniero in Patria, come sradicato; l’inevitabile, naturale scelta verso il Paese che si andava ricostruendo nella Terra dei Padri.
Giunto nel 1947 -poco prima dei genitori- in Heretz Yisrael grazie all’Aliyah Bet (“salita” seconda, cioè clandestina, in contrapposizione a quella ufficiale, legale), organizzazione sionista che, insieme a Brikha (Fuga), aveva lo scopo di trasportare gli Ebrei dall’Europa post-bellica nella Palestina mandataria, Kazik fu dapprima internato nel campo di Atlit, istituito dai britannici di fronte al mare Mediterraneo [4].
Anche i primi anni da persona libera nel nuovo Stato furono difficili.
Da una parte, il martellante ricordo della tremenda esperienza vissuta in Polonia: il ghetto, la lotta, la morte dei compagni e di tante persone innocenti, i dilemmi che ti lacerano l’anima. Costanti incubi notturni per anni.
Dall’altro, quel senso di colpa che prende chiunque sia ritornato, dall’inferno di laggiù, alla vita; lo stato d’animo esacerbato dalle domande, rivoltegli a voce alta dai sabra (vigorosi, combattivi, sinceri fino alla brutalità), o magari mute -e dunque ancora più inquietanti-: “Come mai sei sopravvissuto? A quale prezzo, passando sopra a quanti cadaveri?” Una situazione che divise, per così dire, in due il Popolo Ebraico; almeno fino al processo Eichmann.
Rinascere, passo dopo passo, gli dà la forza di andare avanti, consapevole che quel passato è parte integrante della sua esistenza, è il “perno” ci spiega questo mirabile testimone “intorno al quale ha continuato a ruotare il” suo “piccolo mondo. L’esperienza continua, tutto sta ancora accadendo”.
La rilevante forza morale e di esempio sprigionata dalla storia dell’Autore è irrobustita dalla postfazione del Prof. David Meghnagi, illustre psicoanalista e studioso di Ebraismo, docente di Psicologia clinica e di Psicologia della religione presso l’Università Roma Tre, dove ha dato vita e dirige il Master internazionale di II livello in Didattica della Shoah.
Al termine del nostro testo è riportata la Lectio magistralis che egli tenne, in apertura del Corso, il 26 gennaio 2010. La lezione è incentrata principalmente sulla figura di Marek Edelman, ben conosciuto da Meghnagi, sia di persona, che tramite le sue numerose opere.
Il Professore ci fa rivivere l’esistenza avventurosa di questo “eroe /antieroe”, in parte molto simile a quella di Simha Rotem. La lotta nel ghetto, la fuga attraverso le fogne, la partecipazione alla Resistenza polacca e le comuni difficoltà con le fazioni comuniste.
Ma -e tale confronto rende il libro ancora più rilevante e formativo- sono poste in luce anche le differenze tra i due personaggi. La decisione, assunta da Marek, di restare in Polonia, nonostante l’incompatibilità con il regime comunista; regime che non mancò di emarginarlo perfino quando ricorrevano le celebrazioni della rivolta del 1943; la preziosa militanza in Solidarnosc a inizio degli anni ‘80. I rapporti problematici con lo Stato di Israele, pur mantenendo egli, al di là della forte posizione dialettica, un costante affetto verso gli antichi compagni che avevano compiuto l’aliyah, in particolare Zivia Lubetkin. L’incontro a Gaza nel gennaio 1997 con Yasser Arafat, il quale riuscì a carpirne la buona fede accostando la propria “lotta” a quella dei ragazzi del ghetto. Tuttavia, negli anni successivi, Edelman si ricredette e condannò con forza e senza ambiguità alcuna il terrorismo contro civili e innocenti.
Un testo da meditare, da far proprio da parte delle persone di buona volontà, giovani e non.
Un contributo che, proprio nella postfazione di Meghnagi –ma è un tema ripreso dallo stesso Simha Rotem in un’intervista rilasciata qualche tempo fa-, per un verso, smonta un radicato pregiudizio; per un altro verso ci rammenta una verità importante.
Il pregiudizio è quello secondo il quale non vi sarebbe stata resistenza ebraica durante il nazismo. La recente memorialistica e storiografia hanno posto in luce come gli ebrei “ dove hanno potuto, hanno combattuto al fianco dei loro connazionali non ebrei, con una percentuale più alta fra tutti i popoli”. Nei ghetti, nelle foreste dell’Est Europa, tra  gli oppositori spagnoli al franchismo, i partigiani, italiani, francesi….per non parlare della Jewish Brigade, inquadrata nell’Ottava Armata dell’Esercito britannico.
Per limitarci ai giovani di Varsavia, giova ricordare come quest’esperienza -all’apparenza fallita, quasi donchisciottesca- in realtà sia stata fondamentale tessera (certo non l’unica, beninteso) nel variegato mosaico dell’ethos nazionale israeliano. In quell’intervista, rilasciata a Maurizio Molinari, riferendosi ai tagliatori di teste dell’ISIS (o DAESH che dir si voglia), cresciuti in molti casi nella pacifica Europa -come i tedeschi che, “i più colti d’Europa, divennero un popolo di bestie”-, Simha Rotem avverte: “Bisogna combattere, sapersi difendere, non abbassare mai la guardia, come facemmo noi…e come fanno i giovani marinai israeliani che rischiano la vita per il popolo ebraico….”.

 


[1] V. mio commento su questo sito (Luglio 2012).
[2] V. ancora il mio commento, cit.
[3] Sono parole di Marek Edelman.
[4] Per notizie su Atlit e le esperienze colà vissute dai superstiti della Shoah, v., tra l’altro, il mio Diario di viaggio 2010, sesta puntata (su questo sito).