Ed. Giuntina, 2011, pp. 64   €. 8,50
“Questa creatura dentro è una sorgente luminosa. Quando la dovrò partorire, mi ritroverò spenta a contare le stelle lasciate. Già adesso mi commuovono le lucciole”.            Sono alcuni anni che seguo “da lontano”  Erri De Luca, del quale mi ha sempre colpito l’esperienza esistenziale e culturale.
Nato a Napoli nel 1950, aderisce giovanissimo al movimento politico Lotta Continua; successivamente svolge numerosi mestieri in Italia e all’estero (operaio, camionista, muratore, magazziniere).
Benché, come si legge nella sua biografia, non abbia mai smesso di scrivere dall’età di vent’anni, pubblica il suo primo romanzo -Non ora, non qui, una sorta di mémoire dell’infanzia partenopea- solo nel 1989. Da allora ha ricevuto diversi premi letterari internazionali e collabora con vari quotidiani; le sue opere sono tradotte in francese, inglese, spagnolo. E’ pure conosciuto ed assai apprezzato in Israele, grazie alle traduzioni in ebraico della mia cara amica Miriam Padovano Schustermann. Appassionato di montagna -d’altronde un napoletano non ha certo davanti agli occhi solo il mare!-, ha studiato da autodidatta diverse lingue, come lo yiddish e l’ebraico antico e, grazie a quest’ultimo, traduce testi biblici alla cui lettura si dedica ogni giorno; impegnato in un “corpo a corpo” con la parola, come egli stesso sottolinea.
Tali traduzioni, da lui chiamate “di servizio” non hanno lo scopo di fornire un testo elegante, addomesticato, neutrale, dunque insipido, ma di riprodurlo in una lingua più aderente possibile all’originale ebraico, quindi saporoso, carnale. Impegno linguistico vissuto dal di dentro che è stato per me causa di attrazione e timore reverenziale al tempo stesso: temevo, infatti, affrontando le letture in cui tali temi vengono trattati, di perdermi in elaborate disquisizioni lessicali, troppo difficili per la mia, ahimé, scarsa conoscenza della lingua ebraica. Finché, grazie alla  Casa Editrice Giuntina   la soggezione è venuta meno: l’argomento trattato nell’ultima opera di De Luca, pubblicata dagli amici fiorentini, era troppo avvincente perché continuassi a dichiarare la mia incompetenza e mi limitassi ad ammirare l’Autore da lontano.
Le sante dello scandalo è stato presentato, venerdì 13 maggio, al XXIV Salone Internazionale del Libro di Torino in un affascinante “incontro con l’Autore”.
“Le Donne e il Sacro” è un tema che mi ha sempre ammaliato: la sfida è cercare di comprendere e penetrare a fondo quel misto di timore, per non dir paura, e di attrazione che i religiosi di tutte le fedi, secondo varie sfumature, provano nei confronti delle donne. Al di là di affermazioni di maniera sulla “Donna”, le donne comuni non godono certo di una reale, concreta pari dignità, in ambito religioso; esse debbono restare escluse dalla dimensione sacrale e questo per una ragione molto semplice: tendono sempre -o per lo più- a scombinare le carte, a superare quell’aurea mediocrità della Tradizione entro la quale gli uomini sono all’apparenza imbattibili sia a nascondersi, sia ad incasellarle. Guai se le donne oltrepassano il limite, la barriera!
Rammento bene, dalla prima adolescenza, come alle donne fosse vietato, in chiesa, andare oltre la balaustra che separava lo spazio dell’altare dall’aula riservata ai fedeli e come, al battesimo di un neonato, la madre non assistesse, poiché ritenuta impura a causa delle perdite sanguigne del post partum.
Vi è poi un altro aspetto che rende ancora più avvincente questo saggio. “Le Sante” ivi trattate sono inserite nella stupefacente Storia/Notizia del Monoteismo: fiume in piena, forza incredibile che ebbe ragione di tutti gli idoli precedenti, fino ad allora dominanti chiassosi nelle terre mediterranee, che seppe imporsi quale Divinità Unica e Sola; una divinità primigenia, non ancora suddivisa, come scrive De Luca, “in religioni, ortodossie, eresie, non…ancora sfibrata nei rami a delta di un fiume alla foce”.
Divinità che non voleva essere raffigurata, rinchiusa, ma solo intuita, immaginata; per questo parlava: la sua Voce e le sue Parole sono creatrici. Ed è proprio nel Monoteismo che avviene l’esclusione delle donne, o meglio la tentata esclusione, poiché è sufficiente un esame scevro da pregiudizi -e il nostro scrittore ci dona un contributo davvero significativo- per accorgersi che, in realtà, non è affatto così; almeno nell’Ebraismo e nel Cristianesimo.
Attraverso la lettura del primo capitolo del Vangelo di Matteo l’Autore riconosce, tra Abramo e Gesù, quarantadue generazioni, tante quante sono le tappe nel deserto del Popolo di Israele. Nella ricostruzione della genealogia di Cristo, inserita in pieno nella storia ebraica, egli rinviene, poi, accanto a tanti nomi maschili, quelli di cinque donne: tre di esse non sono nemmeno ebree, bensì straniere, a riprova che il concetto di limpieza de sangre, di pessima memoria, non ha alcun significato; inoltre tutte e cinque hanno compiuto per così dire, trasgressioni sessuali, sia pure secondo declinazioni diverse.
Con un linguaggio semplice, ma forte, pieno di passione, con una prosa essenziale, quasi scabra, di grande potenza, in una narrazione incalzante e puntuale (e, a coronamento, in modo quanto mai perspicuo, è posta la figura del poeta Ante Zemljar, nativo dell’isola di Pag), egli ci racconta le storie di Tamar (Genesi 38), che si finge prostituta per offrirsi all’uomo amato, Giuda, figlio di Giacobbe; Rahav (Libro di Giosuè), vera prostituta, la quale accoglie gli esploratori israeliti perché riconosce in loro l’opera del Signore; Ruth, la moabita (delizioso libro omonimo), che, una notte, seduce un ricco vedovo, Boaz, e si fa sposare da lui. Donne straniere, come detto, che scelgono, ispirate dall’alto, il Popolo Eletto; e non è mai stato un passo da poco, nemmeno nell’antichità!
C’è poi la famosa Betsabea (II Samuele; I Re), ispiratrice di pittori e artisti diversi -compresi registi hollywoodiani-, adultera, il cui marito, l’onesto Uria l’ittita, viene mandato dall’amante di lei, nientemeno che il Re David, in una spedizione militare suicida.
Vi è infine la quinta donna, la quale resta incinta prima delle nozze, ma il figlio non è dello sposo, Giuseppe. Miriam o Maria è un personaggio nei confronti del quale ho sempre nutrito una particolare, non devozionale!, predilezione, poiché la guardo con occhi lontani dagli stereotipi di creatura soffocata da vicende più grandi di lei, come per lo più ci viene presentata nell’iconografia ufficiale.
Si tratti della ragazza che accoglie lo sconosciuto messaggero con gioia e si mette a disposizione del Signore, dichiarandosi sua Serva, ma nel senso di “ministro”, persona di fiducia: è l’attimo immortalato da tanti artisti, a me piace in modo particolare Luca Signorelli, quella sua “Annunciazione”, davvero parlante, creata nel 1491. O si tratti della donna matura, che segue senza paure il Figlio del quale intuisce il Destino, restandogli vicina -insieme con l’altra Maria e il ragazzo del gruppo, Giovanni- fino al momento estremo, quando gli uomini adulti, così indomiti, se ne sono scappati.
Maria coraggiosa e delicata, cui De Luca dedica pagine stupende, immaginando scene e dialoghi sublimi, tutti da leggere e da godere.
Donne al di fuori dell’ordinario, che hanno saputo imporsi sulla legalità imposta dagli Uomini: per paradosso, disobbedendo alla lettera della Legge, hanno reso questa più attuale ed efficace.
Un libretto prezioso ha scritto Erri De Luca, un cantore che si autodefinisce “non credente”, ma che, contrariamente alla folla imperante degli atei militanti e dogmatici, ammette e comprende la fede negli altri.
Ma la Fede non è forse continua e quotidiana ricerca?