(Titolo originale The Great House, 2010)

 
             Trad. Federica Oddera, Ugo Guanda Editore in Parma, Marzo 2011, pp. 334, €.18,00
 
“Forse è questo che s’intende quando si parla del Messia: una perfetta unione delle infinite parti di cui è composta la memoria ebraica”
“La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande” (Archiloco)
 
Nata nel 1974 a New York dove vive, Nicole Krauss è stata segnalata dal New Yorker tra i venti migliori giovani scrittori statunitensi; con Guanda Editore  ha già pubblicato La storia dell’amore (2005) e Un uomo sulla soglia (2006).
La profonda ragion d’essere del suo nuovo romanzo, finalista al National Book Award 2010, sta nel titolo: La Grande Casa. L’espressione ci riporta ad un celebre rabbino del I secolo e.v., Yochanan ben Zakkai; questi era ormai debole e anziano quando i Romani posero sotto assedio Gerusalemme. Stanco delle lotte intestine che dilaniavano il suo popolo, il Rabbino simulò la propria morte: si fece portare dagli allievi fuori della città, chiuso in una bara, e condurre davanti al comandante romano, Vespasiano. In cambio della -prevedibile- profezia sulla vittoria di Roma, egli ottenne il permesso di recarsi nella cittadina di Yavne per fondarvi una scuola, con l’impegno, da parte dei conquistatori, di non distruggerla. Poco tempo dopo, egli ricevette colà la notizia dell’incendio della Città Santa. In preda al dolore e ad angosciose domande: “Che cos’è un Ebreo senza Gerusalemme? Come si può essere ebrei senza una patria? Com’è possibile fare sacrifici a D-o se non si sa dove trovarlo?”, il Maestro annunciò che la “Corte di Giustizia finita in cenere a Gerusalemme sarebbe risorta…a Yavne”. I suoi discepoli cominciarono quindi a raccogliere secoli di leggi orali e le loro discussioni formarono il Talmud, libro che, pur sacro, incoraggia il dubbio, come rileva la nostra Autrice in una recente intervista. Pian piano, dopo la morte del Rabbino, si fece strada la concezione che era necessario “trasformare Gerusalemme in un’idea…il Tempio in un libro, sacro e intricato quanto la città stessa….” Si sarebbe plasmato un Popolo a immagine del suo mondo perduto -una sorta di “patria portatile”, mi permetto di rubare l’espressione a Meir Shalev, quando, con questo termine, egli  si riferisce alla Bibbia- e ciò ha consentito, lungo i secoli, a tale Popolo di sopravvivere, anzi di vivere, fino ad oggi, nonostante i duemila anni di persecuzioni, di distruzioni, nonostante la Shoah, nonostante tutti i tentativi, passati e presenti, espliciti o subdoli, di annientamento. 
            L’accademia di Rav. ben Zakkai fu in seguito conosciuta come “La Grande Casa”, termine tratto da un passo del Secondo Libro dei Re nel quale si descrive la distruzione di Gerusalemme -da parte del Re di Babilonia- a cominciare dal Tempio, la Casa del Signore.
Come un Ebreo possa concepire la propria identità dopo il vuoto incolmabile lasciato dalla distruzione di Gerusalemme -e, a maggior ragione, in epoca contemporanea, dopo lo strazio indicibile della Shoah- e il conseguente tema universale di come ricostruire se stessi dopo una dolorosa perdita sono il tema centrale dell’opera, il problema di fronte al quale, secondo sfumature e momenti diversi, si trovano i personaggi rappresentati. E come ci troviamo, o possiamo trovarci, noi durante la nostra vita.
Un romanzo dall’intreccio complesso e intrigante, articolantesi in due parti, dove la seconda chiarisce i misteri della prima, sia pure in modo forse non completo, perché -come ogni classico che si rispetti; e il libro di Nicole Krauss lo è, eccome!- lascia al lettore la possibilità di raccontare se stesso, tramite le vicende narrate.
L’ossatura è costituita da quattro storie principali, esposte in prima persona dai protagonisti, tra loro intrecciate e legate, in modalità e tempi differenti, anzitutto, da…un mobile, un’immensa scrivania, con ben diciannove cassetti, uno dei quali impossibile da aprire…
Anche i titoli delle quattro storie sono quanto mai emblematici: spetterà al lettore scoprirne i significati, evidenti e/o allegorici, man mano che procede nel percorso.
Il sipario si alza.
In Tutti in piedi Nadia, voce narrante, nel rivolgersi ad un ipotetico Giudice -“Vs. Onore”; il particolare verrà chiarito nel prosieguo del racconto-, ripercorre le tappe salienti della propria esistenza. E lo fa pervasa “da una sorta di lucidità” che le “fa scorgere una dimensione diversa, dimenticata o ignorata per scelta allo scopo di continuare a vivere con tutte le illusioni che rendono possibile la vita”. Rievoca in primo luogo quell’inverno 1972, a New York. Scrittrice ventiquattrenne, attraversa un periodo difficile: è sola, in un appartamento rimasto vuoto dopo che il suo compagno, R., se n’è andato, portando via con sé suppellettili e mobili.
Una notte, all’improvviso, tutto sembra mutare: grazie ad un comune amico, conosce un giovane poeta ebreo cileno, Daniel Varsky. Questi le propone di lasciarle in prestito (esclusivamente in prestito!) i suoi mobili poiché sta per rientrare nel suo Paese natale, dove, qualche tempo dopo, sparirà nelle carceri di Pinochet. Nadia e Daniel s’incontrano sole per poche ore, nell’appartamento di lui, ma tra loro c’è intesa immediata, umana e culturale: forse non propriamente amore, ma istintiva solidarietà ed amicizia. Peraltro Nadia, nel suo intimo, non dimenticherà mai Daniel. I mobili di lui entrano a far parte della vita di lei: un divano, un baule che pare recuperato da un galeone spagnolo, ma soprattutto quella grande scrivania a 19 cassetti che diventa pian piano parte integrante del suo essere: seduta alla scrivania, nel corso del tempo, ella scriverà i suoi romanzi. Non molto tempo dopo la ragazza viene a sapere delle vicissitudini politiche cilene e della fine tragica del poeta. Passano gli anni; Nadia ha anche un marito, S., con il quale, dopo qualche tempo, entra in crisi per mancanza di dialogo e dal quale si separa dopo qualche tempo di difficile convivenza.
Nel marzo 1999 ella riceve una telefonata: un personaggio con voce femminile si dichiara figlia del defunto Varsky e reclama la scrivania. Leah Weisz, questo è il suo nome, afferma di essere nata dalla breve relazione, all’epoca del golpe militare cileno, tra Daniel e una ragazza israeliana. Quest’ultima era tornata ben presto in Patria, senza riuscire a rivelare al poeta la nuova situazione perché questi, nel frattempo, era stato arrestato. Nel veloce incontro con Nadia Leah appare un tipo pratico, concreto, dall’aspetto un po’ inquietante, “con un’aria quasi da elfo”, in nulla assomigliante al dichiarato padre, contrariamente ad una prima, fallace impressione. La scrittrice, turbata ma consapevole di dover lasciare l’amato mobile, ne raduna tutto il contenuto (compresa una raccolta di racconti di certa Lotte Berg, con dedica di costei a Daniel, datata 1970) per riconsegnarlo e si allontana dall’appartamento il giorno stabilito per l’asporto, quasi a voler rendere il distacco meno penoso.
Ripensa con amarezza alla propria vita trascorsa e decide, poco dopo, di lasciare New York alla volta di….Gerusalemme. Alla ricerca, certo della scrivania, ma soprattutto di se stessa: ella comprende che tutto quel tempo passato a scrivere, dedicato ad un’attività che, in fondo, non le ha portato le soddisfazioni sperate in anni ormai lontani, l’ha estraniata dalla realtà, da un’esistenza vissuta appieno, con gioie e dolori autentici.
Nella seconda narrazione (Vera gentilezza) chi racconta -siamo a Gerusalemme- è un anziano padre, Aron (a riposo da diversi anni, salito in Terra Promessa da bambino e là sempre vissuto), il quale cerca invano di (ri)cucire un rapporto col figlio Dov (Dovik), mancato scrittore (anche a causa dello scoraggiamento operato sul punto dal padre), il quale da molto tempo vive e lavora a Londra, ed è rientrato in Patria per il funerale della madre, Eve.
Dov, uomo già maturo, è una persona insicura, chiusa in sé, egoista, ipersensibile, che fugge la compagnia degli altri (Eve era l’unica persona con cui aveva un minimo di intesa), con una certa “rabbia dentro” e una pena segreta da sempre.
Il padre, nella vita quotidiana, pare preferirgli il fratello Uri, maggiore di tre anni, sposato, positivo, sollecito verso i genitori; mentre non sa rapportarsi al secondogenito: nutre un misto di timore malato per l’esistenza di lui, un certo tormentato ed inconfessato disprezzo nei suoi confronti, forse perché, in fondo, lo sente molto, troppo simile a sé. Dopo il funerale di Eve, Dov dichiara al genitore che è sua intenzione fermarsi presso di lui, senza motivarne la ragione, ma rivela, suscitando un certo stupore nel padre, di aver lasciato il lavoro a Londra. Purtroppo questa ritrovata vicinanza fisica non si traduce in un nuovo rapporto tra i due, anzi il solco si approfondisce. Essi si assomigliano troppo per comprendersi o almeno accettarsi. Al freddo silenzio di Dov si contrappone il monologo disperato di Aron, sulla propria solitudine, sull’incapacità di esprimere quell’amore paterno che gli brucia nell’anima, quell’ansia insopprimibile di dialogo: “La seconda volta che esplose una bomba sull’autobus numero 18 io ero a due isolati di distanza…Assistei all’arrivo delle squadre speciali di ebrei ortodossi venuti a recuperare i cadaveri maciullati…Non riuscii a raccontarlo a nessuno, ma ne parlai [cioè immaginai di parlarne] con te….”. E dalla confessione di Aron veniamo pure a conoscenza del tragico episodio, verificatosi durante la Guerra di Yom Kippur dell’autunno 1973, in conseguenza del quale sorge in Dov la decisione di lasciare Israele per trasferirsi all’estero.
E’ ora la volta (in Piscine naturali) di Arthur Bender, professore inglese di letteratura in pensione.
            Questi, diversi anni dopo la scomparsa di lei, ci parla dell’amata moglie Lotte Berg, polacca di origine, nata a Norimberga nel 1921 e morta nel 1997. Ella a 17 anni aveva dovuto lasciare la casa di famiglia perché prelevata dai nazisti con madre e padre una notte dell’ottobre 1938; i tre avevano vissuto qualche tempo in un campo di transito polacco a Zbaszyn, patendo sofferenze indicibili. Nell’estate successiva, con l’aiuto di un giovane medico ebreo, anch’egli internato, Lotte ottiene un visto per accompagnare in Inghilterra un gruppo di 86 bambini con un Kindertransport (la medesima esperienza vissuta dalla nonna di Nicole Krauss).
Kindertransport fu il nome dato ad un'azione che si svolse nei nove mesi precedenti allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale: il Regno Unito accolse quasi 10 000 bambini prevalentemente ebrei, provenienti dalla Germania nazista e dai territori occupati di Austria, Cecoslovacchia e Danzica, sistemandoli presso famiglie affidatarie, ostelli e fattorie.
Giunta a destinazione, Lotte resta in Gran Bretagna -o, come scrive l’Autrice “sparì nella propria vita”-. 
              Per tutta la sua tormentata esistenza ella sarà oppressa dal rimorso per aver lasciato soli i genitori; tormentata da quella perdita irrimediabile. Tuttavia con Arthur, incontrato quattro anni dopo la fine della Guerra e sposato di lì a poco, non parla mai della famiglia d’origine, né pronuncia pressoché mai parole in tedesco.
I due vivono in una villa, da loro restaurata dopo l’acquisto, nel sobborgo di Highgate a Londra; una vita regolare e prevedibile, caratterizzata da passeggiate nei parchi cittadini, in specie a Hampstead Heath, il grande polmone verde, situato nella zona nord ovest della capitale britannica, dove vi sono le “piscine naturali” (laghetti) in cui lei fa il bagno in qualunque stagione.
La donna diventa una scrittrice, sia pure conosciuta da pochi; i suoi racconti sono sovente bizzarri e popolati da incubi. Una persona chiusa nel proprio mondo, con mutismi e tabù (ad esempio, guai anche solo accennarle all’eventualità di avere un figlio!), rispettati dal marito che la ama profondamente: tali tabù possono riguardare, come detto, la prospettiva, pur solo divisata, di diventare genitori o anche la provenienza della grande scrivania -seduta alla quale Lotte compone i suoi racconti-, divenuta pian piano parte integrante di lei; scrivania che, facile da intuire, è la stessa dalla quale Nadia, più tardi, si separerà così a malincuore. E una sera, a fine novembre del 1970, si presenta a casa Bender un giovane sconosciuto, di nome Daniel, che desidera conoscere l’autrice Lotte Berg…. Possiamo immaginare di quale Daniel si tratti.
L’esistenza di Lotte è tutta un mistero, anche, e soprattutto, per il coniuge: “Sì, Lotte era un mistero per me, ma un mistero nel quale riuscivo in qualche modo a orientarmi…C’era solo lei con il padre e la madre nella notte di ottobre del 1938 in cui le SS suonarono alla porta e li portarono via….”. Molti anni dopo -quando è già gravemente ammalata del morbo di Alzheimer-, sia a seguito di una certa frase che ella aveva pronunciato giorni addietro in una particolare circostanza, sia grazie ad un documento ingiallito che egli rinviene in un cassetto della scrivania, Arthur viene a scoprire, poco prima del decesso di lei, il tremendo segreto celato dalla donna, tormento di tutta un’esistenza per quella creatura da lui così profondamente amata e in fondo così poco conosciuta.
Difficile è il rapporto con un padre forte e ingombrante, specie se questi, pur non presente spesso di persona, anzi passando la maggior parte del proprio tempo lontano dai figli, ha creato in loro una sorta di sudditanza psicologica, cercando di impedirne di fatto una piena maturazione. Il padre si chiama George Weisz, la figura centrale del romanzo. Antiquario di fama, è impegnato da lunghi anni a ricercare mobili e suppellettili perdute per restituirli ai legittimi proprietari, ebrei superstiti della Shoah (ma tale parola non viene pronunciata): solo così essi potranno ricostruire l’amato ambiente di vita prima del Grande Vuoto. Lui stesso sta cercando di ricostruire pezzo dopo pezzo lo studio di suo padre, studioso di storia ebraica (deceduto “durante una marcia della morte verso il Reich”), saccheggiato dai nazisti a Budapest una notte del 1944.
Dopo il conflitto l’uomo fa di queste ricerche la propria ragione di vita: sono cariche di fascino e venate di un certo umorismo le pagine dedicate a tale peregrinare: “Poi aveva dato la caccia alla toilette della madre, finita in periferia [di Budapest] dove la nuova proprietaria si era trasferita….si era introdotto in casa sua nel cuore della notte, si era versato del vino, aveva lasciato sul tavolo il bicchiere sporco e portato fuori personalmente la toilette, e tutto ciò mentre la donna dormiva profondamente nella stanza attigua”. Gli manca però il mobile più prezioso: un’enorme scrivania con numerosi cassetti “nei quali” confessa “quando ero piccolo credevo fossero conservati duemila anni [di storia] così come nella dispensa erano immagazzinati lo zucchero e la farina che vi riponeva Magda, la domestica”. I due figli di George, Yoav e Leah, nati a un anno di distanza l’uno dall’altra, molto somiglianti e legati tra loro, rimasti orfani di madre quand’erano molto piccoli, sono cresciuti a Gerusalemme, nella casa di famiglia posta nel sobborgo di Ein Kerem (in Ha-Oren Street), ma ora vivono a Londra, a Belsize Park, in una casa ricca e disordinata, piena di mobili che il padre raduna lì, ma la cui disposizione egli cambia ogni due o tre mesi, a seconda dei nuovi arrivi di tavoli, sedie, divani. Ai due fratelli si aggiunge Isabel, giovane americana, studentessa a Oxford, di modesta e parsimoniosa famiglia, la quale, nel 1998, conosce Yoav e s’innamora di lui. E’ Isabel la voce narrante del quarto racconto (Le bugie dei figli), rievocazione di una storia vissuta circa un decennio prima. Anche nel tormentato rapporto amoroso tra Yoav e Isabel c’è un senso di perdita e di ansia di vivere, di ritrovare se stessi. La reazione alla difficile presenza paterna si esprime, da parte del giovane, anche tramite amplessi talora violenti con la sua compagna.
I due fratelli mentono al padre circa i loro progressi negli studi (come del resto Isabel con i suoi, al di là dell’Atlantico); anche se si può intuire facilmente che questi immagini la verità.
 
La Grande Casa è un’opera impegnativa, ottimamente strutturata, in grado di coinvolgerti dall’inizio alla fine, senza stancarti mai, grazie ad accorgimenti in grado di appassionarti ad ogni angolo, pur talora non resistendo la scrittrice alla tentazione di virtuosismi stilistici e narrativi.
Nulla racconterò della seconda parte per non sciupare nel lettore l’incanto della conquista, passo dopo passo. E per lasciargli il piacere della sorpresa finale.
Un grande puzzle, dove, all’interno delle quattro storie principali, leggiamo altre vicende secondarie, ricche di spunti, echi, suggestioni, in grado di penetrare nel profondo dell’anima grazie alle diverse sfaccettature dei temi trattati.
Tante piccole storie, per così dire, a latere di quelle maggiori, brevi tranches de vie, come i cassetti piccoli della Scrivania, vera protagonista del libro, simbolo della Grande Casa.
Opera da centellinare, meditare, come certi cibi o vini d’annata, al di fuori delle consuete categorie letterarie, che sa cogliere con accenti sfumati i contrasti nei diversi rapporti dell’esistenza.
Il Mistero che, in fondo, caratterizza la relazione Uomo /Donna, anche quando due persone vivono da decenni l’una accanto all’altra; le contrapposizioni, talora drammatiche, tra Genitori e Figli; la responsabilità e la libertà dello Scrittore: “…lo scrittore” (Nicole mette in bocca a Nadia) “adempie ad una…alta missione, a quella che solo in ambito religioso e artistico si definisce una vocazione…Non è un contabile, né è obbligato ad assumere il ruolo ridicolo e fuorviante della guida morale…”.
L’avanzare inesorabile della Vecchiaia; ma anche la sorprendente libertà che tale condizione ti riserva.
           “Ripresi a dipingere” riflette Arthur “un hobby giovanile abbandonato appena avevo capito di non avere talento. Ma il talento, venerato per tutto ciò che promette quando si è giovani, mi sembrava…irrilevante: ormai non mi si poteva promettere più nulla”.
E che dire delle riflessioni sulla Morte, con la quale gli Ebrei hanno un particolare rapporto?  “…sebbene gli Ebrei abbiano parlato di tutto, analizzando, disquisendo…” sostiene Aron” essi hanno accettato di lasciare il problema più importante [quel che accade dopo la morte] in un grigiore nebuloso e indistinto. Defraudati di una risposta -e nello stesso tempo condannati da millenni ad essere un popolo che suscita nel prossimo un odio omicida- gli Ebrei non hanno altra scelta se non convivere con la morte ogni giorno. Viverle accanto, costruire le proprie case nella sua ombra”. Viene spontaneo pensare, leggendo queste righe, proprio al Paese di Aron, Israele, questo paradossale luogo a proposito del quale si suole ripetere che sono spesso i Padri a seppellire i Figli.
Un poema che spazia nei più vari ambienti storico/geografici: la New York di un inverno degli anni ’70, respirata nelle prime pagine, e, sullo sfondo, gli orrori della tortura nel Cile di Pinochet; la Londra verde della (apparente) tranquillità borghese; una Gerusalemme luminosa nella città vecchia e sonnacchiosa nel sobborgo di Ein Karem….la tragedia delle vite sfregiate dal terrorismo e dalla guerra; una malinconica piccolo borghese Liverpool; l’ancora selvaggio Galles con i suoi parchi naturali, Bruxelles dove due personaggi incontrano il proprietario di un palazzo che ha un’inquietante somiglianza con qualcuno la cui sciagurata esistenza s’incrociò con quella del Popolo Ebraico…
Romanzo ebraico, certo. Non solo e non tanto perché popolato di ebrei, ma per i temi trattati; temi, proprio in quanto ebraici, universali. Illuminante la conclusione.
Filo conduttore: la Memoria e come essa possa aiutarci a colmare i vuoti scavati dalle nostre tragedie. Ma la  Memoria avrà assolto appieno il suo compito -farci ritornare a vivere, dopo una perdita apparsaci irrecuperabile- solo se, grazie a lei (e talvolta anche suo malgrado), riusciremo a distaccarci da un passato alienante che ci impedisce di guardare al domani.
               Che cosa lasciamo in eredità ai nostri figli e questi ultimi come si pongono rispetto a noi?
Una breve riflessione, ispirata da un’iniziativa universitaria di alto tenore, giunta proprio in concomitanza con la mia lettura delle ultime pagine del romanzo.
In tale occasione il filosofo Massimo Cacciari ha ricordato come il termine tedesco Erbe, cioè Erede, abbia la stessa radice di Orbus, cioè Vuoto; così come il latino Heres corrisponde parimenti al greco Cheros, cioè Vuoto: è davvero Erede, legato in modo profondo a coloro che lo hanno preceduto, solo chi è consapevole del proprio…vuoto e cerca con passione di riempirlo vivendo il presente e guardando all’avvenire.
Come Enea, con il padre Anchise sulle spalle e il figlio Julo per mano. Di Generazione in generazione.  
               Midor Ledor
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