Ed. Paoletti D’Isidori Capponi, Ottobre 2009, pp. 440
 
“ ‘Guardati quanto sei bello, Franz! …Sei il prodotto di una razza pura..’
‘Sbagliato Capitano. Io sono un essere umano…. Quando eravamo ad Auschwitz, un uomo mi insegnò ad ascoltare con il cuore’
‘Era un gran nazista, un vero maestro!’
‘Era un ebreo, papà’.
Irmfried non seppe cosa rispondere”.
 
La tematica “Memoria della Shoah” è una fonte inesauribile cui attingere per incamminarsi lungo sentieri inesplorati.
Monica Dogliani e Andrea Ronchetti -la prima piemontese, il secondo emiliano-, due Autori giovani, che vantano un serio sodalizio umano e professionale, non sapevano, l’uno nei confronti dell’altra, “che cosa” avrebbero scritto ai primi passi di questa loro “avventura”, cominciata poco meno di due anni or sono. E nemmeno ciascuno dei due, all’inizio, aveva chiaro, con se stesso, su quali strade sarebbe stato condotto dai personaggi incontrati.
Ne è nato un romanzo coinvolgente, basato su accurate ricerche storiche (compresi avvenimenti successivi alla Seconda Guerra Mondiale, poco noti al grande pubblico), una vicenda senz’altro verosimile, com’è scritto sulla quarta di copertina, ma che mi piace pensarla come realmente accaduta.
Il racconto prende le mosse negli ultimi mesi del 1944, preceduto da un “Prologo all’Inferno”, nell’estate di quell’anno, di toccante crudeltà, che trasporta immediatamente il lettore nell’universo capovolto del Campo di Sterminio Auschwitz Birkenau, dove una dei protagonisti, per taluni aspetti la figura più affascinante, Kora Fuerbach, “….si era resa sorda, cieca, annullandosi nel più profondo di se stessa per non impazzire”.
L’opera è suddivisa in due parti. La prima ci apre la porta di un mondo che, prima di essere concreto, palpabile è una realtà emblematica nella quale nessuno di noi vorrebbe entrare.
Torna in mente la terribile risposta data dal padre del piccolo David Grossman al figlio curioso su che cosa fossero mai quei lavori febbrili in cima alla collina a due passi dalla loro casa a Kyriat Novel, in Gerusalemme -la costruzione dello Yad Vashem-: “…un museo….un museo consacrato a quello che gli uomini sono capaci di fare”.
Quello che gli uomini sono capaci di fare.
Gli Autori ci fanno conoscere quei luoghi di Morte, dove il tempo è scandito da un rigido programma genocidario, per nulla attenuato, anzi reso ancor più feroce, dagli aguzzini man mano che essi diventano sempre più consapevoli dell’ormai prossima fine del loro mondo.
Tuttavia nella notte brilla una piccola fiamma il cui calore si diffonde pian piano nei cuori, nelle menti e nei corpi degli altri prigionieri. E’ Nathan Bashevis, orologiaio ebreo di Łodz, dapprima confinato nel ghetto della sua città, insieme ai correligionari, indi deportato a Auschwitz Birkenau. Nathan sa leggere nel profondo dell’anima altrui, è saggio ed ironico, un vero Tzaddik, una persona giusta; una porzione di D-o di forte densità, anche se sovente alle prese con forti dubbi in merito alla propria fede.
Egli custodisce nella tasca della casacca di deportato un piccolo grande segreto, in grado di trasformarlo in un irresistibile clown, Hulla-Balloo. Il segreto è una sorta di filo magico che lega i personaggi tra loro in un rapporto indissolubile.
Capace di disorientare chiunque percorra sentieri lungo i quali non sono ammesse –per diabolica regola- deviazioni, Nathan / Hulla riesce a far riemergere dal tunnel della crudele indifferenza la scheggia di umanità ancora presente in fondo al cuore di un anziano Maggiore della SS, Wilfred Ziegler, il quale non saprà reggere al rimorso di una vita volta al male (…”Si rese conto che qualcosa d’insolito stava avvenendo dentro di lui….” “Tu sei un mago…..”); trova un amico in Franz, ragazzino dodicenne tedesco -figlio, lui “così puro”, di un ufficiale, figura di primo rango nel Campo, Irmfried Voss, una vera belva-. Occhi azzurri e un “faccino punteggiato di lentiggini, come la zuppa di lenticchie che cucinava la sua vicina di Via Piotkowska a Łodz”, Franz dona a Nathan un largo sorriso e la sua fiducia perché inizia a intuire, attraverso la bontà di quell’uomo con il quale, poiché ebreo, non dovrebbe essere amico, l’abisso di brutalità nel quale gli è toccato in sorte di crescere. “Abbi fiducia nel tuo cuore” lo esorta l’Ebreo un giorno in cui viene chiamato ad intrattenere i piccoli figli dei carnefici “e saprai scegliere sempre”.
Ma altri personaggi ti conquistano lungo il percorso. In primo luogo Edith, una ragazzina ebrea di nemmeno quindici anni, orfana dei genitori uccisi dai nazisti, divenuta, nei gironi infernali, preda degli istinti più bassi degli uomini, ma in grado di mantenere intatta, pur tra inenarrabili sofferenze, la propria sensibilità ed e innocenza.
Kora Feuerbach, di Hannover, è figura degna di una tragedia greca. I nazisti le hanno torturato e ucciso davanti agli occhi l’amato marito Rickard, oppositore politico come lei (un “triangolo rosso”). Per sopravvivere e attuare la sua vendetta, ella si è trasformata in una perfetta kapò, umile nei confronti degli aguzzini, ma crudele verso i prigionieri indifesi, impegnata a sfogare su di loro un odio che tuttavia non sfugge a Nathan, il quale riesce a metterla, per un istante, di fronte a se stessa. “ ‘Non lasciare l’odio nel tuo cuore’…Kora….sentiva sciogliersi lentamente il ghiaccio che le copriva il cuore. Non voleva che accadesse. Non lì a Birkenau..”.
Ideale sorella di Kora è Inge Musschenbroeck, di Düsseldorf, anch’ella oppositrice politica (tradita a suo tempo da uno zio) ora kapò in cerca di giustizia, ma talvolta tanto disperata da pensare al suicidio. “Forse non tutto ci è stato tolto” conclude però, quando scopre in Kora un’amica, che mai avrebbe pensato di incontrare in quella plaga dannata.
La presenza di Nathan ha l’effetto di dare agli altri deportati coraggio e fiducia, proprio là, dove aleggia senza sosta il lezzo di carne bruciata. Essi, tra mille difficoltà, riescono a mantenersi più lucidi dei loro carnefici e a sopravvivere nei momenti in cui questi ultimi, consapevoli della disfatta e ancor di più inferociti, fanno di tutto per distruggere le tracce dei crimini commessi.
I prigionieri, con la forza della disperazione, grazie anche ai soldati dell’Armata Rossa che spalancano -il 27 gennaio 1945- i cancelli dell’inferno, dove perfino la candida neve era degenerata in una cosa orrenda, oltrepassano quel luogo per iniziare una nuova vita.
“Là fuori siate fratelli di qualsiasi persona incontrerete” li esorta Nathan ad un certo punto “Raccontate loro dell’odio, affinché tanto scempio non accada mai più….”
Nella seconda parte del romanzo (forse, a mio parere, ancor più affascinante della prima) i diversi personaggi intraprendono percorsi drammatici, alcuni dei quali all’inizio lontani tra loro, ma via via destinati ad intrecciarsi. Essi vanno incontro a diverse, significative esperienze: ognuno, segnato a diverso titolo dal marchio di Auschwitz, “si riprende la propria esistenza”, andando…”oltre la Cenere”.
Non racconterò nulla delle vicissitudini narrate: il lettore scoprirà da sé le tragedie, le lacerazioni, l’abisso del male nel quale sprofondare lentamente, ma anche il desiderio di riscatto, di fare i conti con la propria storia. “Se voglio che nella mia vita ci sia un futuro, che tu ci sia, devo affrontare il mio passato” così risponde Inge, un tempo lontano -ma non dimenticato- kapò, al giovane di cui si è innamorata, Fritz, perché ella vuol tornare, dopo tanto dolore sofferenza, in quel luogo, Auschwitz, dove ha sofferto, ma anche fatto soffrire.
Lo stile degli Autori è spesso lieve, il battito d’ali di una farfalla; ma sa diventare duro quando si addentra nei meandri della crudeltà e dell’avida, folle sconsideratezza.
Le parole ti penetrano nel profondo, come negli incontri tra la giovane Edith e Nathan o tra il figlio ricco di calore e umanità (Franz) e il padre, convinto nazista fino all’ultimo istante di vita.
Nella sua struttura pur complessa, con “salti” temporali volti a rendere sempre più incalzante lo snodarsi della vicenda, il romanzo riesce a catturarti fino alla fine, dimostrando come il bene e il male spesso siano intimamente avvinghiati tra loro da far sì che il primo, pur in sé non lordato dal secondo, si porti nell’intimo le tremende ferite causate da quell’abbraccio mortifero. 
C’è l’amore che, pur intenso, non porta in sé alcuna carica redentrice: Irmfried ama il figlio Franz e, per incontrarlo ancora, lascia il  rifugio argentino e ritorna in Europa, pur consapevole di correre gravi rischi; ma la sua indole assassina non viene cancellata dall’affetto paterno: essa condurrà l’uomo, ancora una volta, a sporcarsi le mani di sangue e poi alla morte, affrontata, con un finale Heil Hitler! 
Ma c’è anche l’amore per la vita, il desiderio di riscatto, in grado di operare metamorfosi fisiche, perfetto specchio dei cambiamenti nell’anima.
Kora e Inge, per esempio. Nel Lager erano due esseri informi, grigi, meccanici, asessuati. Uscite all’aria aperta, esse ritornano  due donne giovani e affascinanti.
Monica e Andrea ci regalano un’opera emozionante, anche per la grande ricchezza delle tematiche trattate. Una per tutte: il rapporto tra colpa e perdono, illustrata in modo ben lontano da certo giustificazionismo revisionista, in auge negli anni passati, ma talora affiorante pure oggi.
“Non serbare rancore e lascia che la luce e i colori tornino a brillare nella tua vita”, insegna Nathan, l’orologiaio che, pur dopo l’orrore del Campo, sapeva ancora“ riconoscere i messaggi delle cose, il suono caldo del legno, lo sfregamento metallico delle rotelle e interpretarne il senso”.
Una lettura che mi permetto di consigliare anzitutto -ma non solo, beninteso- ai giovani, spesso distratti da un bombardamento di messaggi della cui banalità pericolosa noi, adulti e genitori, sovente non ci rendiamo conto.
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