La lettura del libro di Giulio Meotti Non smetteremo di danzare ha suscitato molte domande in me, come ritengo in chiunque vi si accosti con spirito libero.

Ne ho preparate alcune che, nell’impossibilità -momentanea- di incontrarlo di persona, in occasione del Congresso Nazionale della Federazione delle Associazioni Italia/Israele svoltosi a Padova, gli ho rivolto via e mail.
Con squisita disponibilità e cortesia mi ha subito fornito le risposte.
Ecco il dialogo a distanza, ma non troppo, con questo trentenne toscano, libero e coraggioso.
 
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1)  Quali reazioni al Tuo libro hai avuto da parte dei lettori?
Mi riferisco a coloro che non sono  vicini a Israele, bensì sia all’ampia zona grigia -tra l’indifferente, il qualunquista e l’ignorante per partito preso (della serie: “non so e non voglio saper nulla, però quegl’israeliani e quel brutto Muro….")- sia  a quelli cui Israele proprio non garba.
 
Ho ricevuto soltanto reazioni entusiastiche, d’amore e affetto, da parte degli "amici", silenzio e indifferenza da parte di chi non ha capito o detesta Israele. Il ritornello più sentito è stato: ‘Ti sei occupato soltanto dei morti ebrei’. Per me questa risposta riassume alla perfezione l’indifferenza implicita dell’opinione pubblica anche verso i palestinesi, mai chiamati a rispondere dei propri crimini sui civili innocenti. E’ sull’oblio delle vittime che si fonda la guerra e l’odio perverso.
 
 
2) Come ritieni possa essere sconfitto l’inevitabile atteggiamento in forza del quale se qualcuno scrive sugli israeliani, deve affrettarsi a garantire che non è nemico dei palestinesi; mentre, se scrive storie del mondo palestinese, non gli viene affatto rimproverato di aver trascurato gli israeliani?
 
 Non può essere sconfitto, ormai il pregiudizio, l’ideologia di morte e l’inimicizia verso Israele hanno pervaso il mondo in cui viviamo e ci muoviamo, giornali, sindacati, accademie, media, opinione pubblica di base. Dobbiamo soltanto sperare che ci siano sempre persone, scrittori giornalisti intellettuali storici, capaci di contrastare con forza i paradigmi antigiudaici e antisraeliani imposti da decenni. Ma dobbiamo anche accettare il fatto che questa sia, e resti, una causa di minoranza. Non elitaria, è una battaglia popolare, ma pur sempre la riserva d’onore e dignità morale di pochi che hanno a cuore la sorte di un pezzo imprescindibile del nostro mondo. Il pezzo migliore dell’occidente.
 
 
3)  Di alcune persone intervistate riporti la frase (ad es. il padre di Noam Apter, Yossi, abitante di Shilo, ma non solo), riferita al passato: "Avevamo ottimi rapporti con gli Arabi".
Sulla base della Tua esperienza, ritieni che ciò fosse vero, e dunque le relazioni si siano paradossalmente guastate dopo Oslo, oppure è un’idealizzazione senza fondamento del tempo che fu?
 
Per vent’anni, dal 1967 allo scoppio dell’Intifada, i "coloni" hanno vissuto ben accetti e in pace con i palestinesi, i quali ambivano a vivere nelle zone limitrofe agli insediamenti, ci lavoravano, li costruivano. Zone oggi maggiormente sviluppate di altre palestinesi. Con l’esplodere della questione islamica, la rivoluzione iraniana, Hamas, la morte di Sadat e l’avvio dell’islamismo armato, tutto questo ha avuto fine e i cosiddetti coloni si sono ritrovati a essere la prima linea dell’attacco al cuore di Israele. Il modo in cui Apter e altri raccontano di quel periodo di tranquillità, è nostalgia, puro passato remoto. Nulla resta di quella stagione. 
 
 
4) C’è una vicenda che Ti ha colpito più delle altre?
 
Direi che a colpirmi di più sono state due storie. Quella della famiglia Weiss e degli Schijveschuurder.
Lipa Weiss è un anziano sopravvissuto alla Shoah, ad Auschwitz perse tutti, rimase solo al mondo, e in Israele, dopo aver creduto e costruito gli ideali della sinistra dei kibbutzim, Lipa ha perso un figlio e una nipote in due attentati diversi. Sono persone straordinarie, meravigliose.
Gli Schijveschuurder erano olandesi, l’Olanda di Spinoza e Anne Frank, vivevano in una colonia, andarono a Gerusalemme per mangiare pizza e pasta da Sbarro. Morirono tre figli e i genitori.
Ma è difficile dire quale sia quella che più mi abbia colpito. Ogni storia ha un suo lato feroce e mirabile.
Come quella del dottor Moshe Gottlieb, curatore dei bambini disabili, un ‘giusto’, ucciso sulla strada della sua giornata di carità.
 
5) Tra i congiunti degli uccisi c’è qualcuno che, magari senza cattiveria, Ti ha respinto, preferendo non condividere con altri il proprio dolore?
 
Mi hanno respinto soltanto gli ultraortodossi, gli haredim, impauriti forse, o forse aspettavano il parere del rabbino. Sono molto gelosi della propria privacy. Ma il 99 per cento delle famiglie interpellate ha accettato di cuore.
 
 
6)   Che cosa pensi dell’idea di far tradurre il Tuo libro per il pubblico israeliano?
 
Il libro è in corso di traduzione negli Stati Uniti e spero di poter vedere un giorno anche una traduzione ebraica. Qualcosa si muove, di certo per adesso c’è una prestigiosissima edizione americana. Non è facile far passare nell’industria culturale contemporanea, che è per di più intrattenimento e stupidità, un libro del genere (OTTOBRE 2009).