(Titolo originale Yonah we-naar)

 
 
Trad. Elena Loewenthal Ed. Frassinelli (Gennaio 2008) pp. 403  
 
“Fra poco tornerà il mio capomastro [che poi sarebbe una femmina]. Ci siederemo davanti al panorama, chiacchiereremo, ci riempiremo d’amore e di felicità. Diremo che è ‘buono’ tutto quel che è stato fatto, marcheremo e inaugureremo e daremo nomi”.
 
La vicenda, detta in sintesi, è molto semplice.
Un’anziana madre, ammalata terminale di cancro, Raya, parla col figlio primogenito, un uomo di mezza età, introverso, amante della natura e degli animali, spesso incapace di prendere decisioni definitive; uno che, mentre gli altri fanno, si accontenta di “auspici e speranze”.
La madre sa che egli vive un matrimonio non felice: la moglie, Liora, venuta dagli States, è troppo bella, troppo ricca, troppo di successo, troppo lontana. Troppo.
La mamma ama entrambi i suoi “ragazzi”, ma nutre nei confronti del più grande una sorta di predilezione, lo percepisce come una parte indissolubile di sé.
Un giorno, con le scarse energie che ancora le restano, gli comunica la seguente ultima volontà, ben consapevole che, lei, non ne vedrà la realizzazione: consiglia vivamente al figlio di comperarsi una casa tutta per lui; anzi gli dà perfino il danaro per l’acquisto.
“Una casa dove qualcuno abbia già abitato prima di te, che sia piccola e vecchia, la metterai un po’ a posto…l’erba che spunta nelle fessure del selciato….in un villaggio di antica data la gente si è già vendicata….i vecchi odi sono ormai avvezzi l’uno all’altro….”. Una dimora in un posto antico.
Il figlio parte e troverà la casa e la ricreerà per abitarci, sia pure per poco tempo, con la donna che, in fondo, ha sempre amato. Una casa accogliente, a sua misura, quanto era ostile, nella fredda dimensione tecnologica, quella in cui viveva con la moglie.
Meir Shalev, uno dei maggiori esponenti della letteratura israeliana contemporanea, da anni apprezzato anche nel nostro Paese, trasforma uno spunto comune attinto dall’esistenza quotidiana in un complesso ricamo nel quale si incontrano e si scontrano i caratteri più diversi, ricco di sfumature, di sentimenti e di colori come il Paese nel quale esso si dipana, Israele. Un Israele (o un’Israele, se preferite) dove la città, almeno nella sua dimensione artificiale, si accontenta di fungere da sfondo, dominando invece i vasti spazi delle riserve naturali, note ai bird watchers di tutto il mondo, o certi luoghi più riposti, ad esempio nel deserto di Giudea, dove gli uccelli rapaci -meraviglia!- si radunano e dormono a terra.
Un Paese grande più o meno quanto la Puglia che qui pare dilatarsi agli occhi e alla sensibilità dei personaggi; che immagini, in anni non poi lontanissimi, popolato di animali esotici, come la grande tigre Teddy, catturata, un giorno imprecisato, proprio là, vicino a Safed…….
Il viaggio dell’uomo, una sorta di guida turistica di nome Yair Mendelssohn -voce narrante del romanzo, che spesso si rivolge direttamente a Raya anche quando lei non c’è più-, alla ricerca e alla costruzione della casa, metafora della ricerca di sé, del proprio senso di appartenenza, si intreccia con un avvenimento di tanti anni prima, culminato nella Guerra di Indipendenza del 1948: la storia d’amore tra un ragazzo, chiamato da tutti il Pupo, per il viso da bambino e la figura tozza e muscolosa, orfano dei genitori, che vive insieme agli zii in un kibbutz della Galilea, e una ragazzina bionda (la Bimba) che abita a Tel Aviv. A farli incontrare ed innamorare è una comune passione: quella per i piccioni viaggiatori; gli animali addestrati dai militari della Haganah per mandare importanti messaggi durante la Resistenza ebraica nella Palestina mandataria. I due adolescenti approfittano di tale opportunità per scambiarsi biglietti d’amore; un modo particolarmente suggestivo per confidarsi l’un l’altra i propri sentimenti.
Nella nostra storia sono importanti psicologia e simbologia del piccione viaggiatore; qui chiamato homing pigeon, proprio perché, dopo essere stato, per dirla nel linguaggio tecnico, “lanciato” verso una certa direzione, rientra sempre alla sua casa. Una sorta di Ulisse degli uccelli, che desidera il caldo del suo rifugio dopo aver combattuto le battaglie.
Nessuno meglio del popolo ebraico tornato alla propria patria -scrive l’Autore attraverso il Dr. Laufer, nomen omen, suggestivo veterinario dello zoo di Tel Aviv, proveniente dalla Germania- può comprendere il valore dell’immenso desiderio che la colomba nutre verso la sua casa.
Quando va in guerra (siamo, come detto, durante i duri combattimenti del 1948), il Pupo si porta sulle spalle la gabbia dei suoi amati piccioni, che non lascia un attimo; viene mortalmente ferito e, consapevole che la fine è vicina, si serve di un colombo viaggiatore per mandare alla sua innamorata l’ultimo messaggio.
L’ultima lettera d’amore è l’essenza del romanzo.
Lascio al lettore il piacere della scoperta di quale sia il vincolo che lega le due storie.
Mirabile la traduzione di Elena Loewenthal, sensibile scrittrice a sua volta, che è riuscita a rendere in pieno i colori e i profumi del vissuto di Shalev, il cui amore per il mondo rurale conquista pagina dopo pagina -del resto egli è nato a Nahalal, una delle prime comunità agricole in Terra di Israele-.
Vale la pena di ricordare che il libro ha avuto in Patria il Premio Brenner, massimo riconoscimento.
Mi soffermo sul carattere degli attori principali, che l’Autore plasma con notevole efficacia psicologica, giocando tutte le tonalità del linguaggio, caratterizzato da un fondo comune: un frasario attinto dalla vita di ogni giorno, sempre immediato, mai banale.
Un registro espressivo spesso ironico, com’è lo stesso Shalev quando rilascia un’intervista; oppure improntato ad una sensualità che ti penetra nell’anima; a volte onirico, nel suo mescolare sogno e realtà, suonando note che disorientano ed ammaliano; a tratti amaro; perfino epico, nelle significative immagini con le quali racconta l’epopea della (ri)nascita di Israele, in occasione del viaggio, assai rischioso, che la giovanissima colombofila (la Bimba) compie per portare un certo numero di uccelli da Tel Aviv alle varie unità di Resistenza sparse nel Paese. “….E la gente dei kibbutz, che riempiva sacchi di sabbia e scavava fossati e si preparava a combattere per la propria casa, cercando di non pensare a chi sarebbe morto e di non indovinare chi sarebbe sopravvissuto”.
Grande coraggio contraddistingue la ragazzina alta coi riccioli biondi, unito a coraggio e competenza, nel curare i suoi piccioni, perché ella è consapevole che sta svolgendo un compito importante.
“Soprattutto vide e ricordò le truppe che aspettavano lungo le strade……In parte accumulavano ore di sonno, in parte…discutevano del futuro che sarebbe venuto. Lei guardava e capiva che quel che vedeva non l’avrebbe più dimenticato”.
Degno compagno è il suo innamorato, il Pupo, tenace ragazzo, che diviene ben presto famoso come allenatore di colombe e per la capacità di riconoscerne ciascuna di ritorno anche quando essa è ancora molto alta nel cielo. Egli alla fine è ferito a morte, ma riesce lo stesso ad ingannarla, la Morte, proprio grazie al suo ultimo messaggio.
Yair è, lo sappiamo, un sognatore. Ama contemplare gli alberi e gli animali “…e ho pure un gufo -…l’unico uccello capace di destarmi autentico affetto- che quando l’ho visto per la prima volta sono tornato spesso a trovare nella zona dove nidifica….” Ciò gli è facilitato dal suo lavoro di guida turistica, che svolge -per conto dell’azienda americana, della cui filiale in Israele è responsabile la moglie Liora (la Real Estate Kirchenbaum!)- a bordo della sua vettura, una grossa Chevrolet Suburban, nota col significativo soprannome di La Bestia. Egli percepisce una certa differenza tra sé e il resto della famiglia -genitori, fratello minore, moglie-, come quando afferma che, mentre essi conoscono bene la realtà in cui vivono (sopra la testa e sotto ai piedi), lui percepisce se stesso come una sorta di “aquilone cui si è spezzato il filo”. Anzi, a volte, con la “voglia di partire e la paura di andare, la preghiera che s’eleva e la paura che si concretizza”, ebbene, confessa Yair “allora mi sento l’unico ebreo della famiglia”.
Yaakov Mendelssohn, padre di Yair e Beniamin, apprezzato pediatra, è un uomo ricco di umanità. Egli ha interiorizzato, nella vita come nella professione, un valore base del vissuto ebraico, quello che non solo gli studiosi, ma pure le persone comuni, chiamano Tikkun Olam, la riparazione del mondo: cioè che cosa i singoli esseri umani possono fare per rendere il mondo un posto migliore, per rimediare ai danni che sono stati fatti.
“Si può rimediare e guarire” afferma Yaakov “Non solo nel corpo, ma anche nell’anima”.
Purtroppo egli non sa esprimere in modo compiuto tutto ciò che prova alle persone care, in particolare non riesce ad esprimerlo a Raya, che lo ha rinominato (significativamente ed ironicamente) “Padrevostro”, e si rifugia quindi in atteggiamenti convenzionali, che, inevitabilmente, fanno fuggire anzitutto la donna, indi la moglie, specie se ella non è mai stata innamorata di te poiché il suo cuore apparterrà per sempre ad un altro.
Raya è la madre malata. Personalità complessa, donna forte, custodisce dentro di sé una profonda angoscia, che maschera con un comportamento in apparenza “tranquillo e pacato”, ma capace di slanci adolescenziali, autentiche monellerie, compiute sotto gli occhi dei figli divertiti, in una sorta, più o meno inconscia, di rivalsa nei confronti del serioso coniuge.
Nel fondo dell’anima, misteriosa, con suoi silenzi brevi e i suoi silenzi lunghi, ella ama Tel Aviv, un bicchierino di brandy, il prezzemolo, i gladioli -che anche adesso qualcuno (e chi sarà?) porta sulla sua tomba- e l’opera Didone ed Enea di Henry Purcell: “A me la morte sarà di pace, una morte che sia quiete per me…”; è solita meditare a lungo prima di prendere una decisione: elenca, su un foglio, tutti i “pro” e tutti i “contro”, poi via! E dalla strada intrapresa non si torna indietro.
Come quel giorno, quando, dopo aver pronunciato la frase fatidica: “Non ce la faccio più”, se ne andò di casa, affrontando l’inevitabile disdoro sociale, il dolore del marito, l’incredula sofferenza dei figli.
“Non ho mica abbandonato voi” spiega ai ragazzi un giorno “ma Padrevostro e casa sua. Infatti sono rimasta nella sua Gerusalemme per stare vicina a voi”.
Meshullam Fried è un self made man. Titolare di una società di costruzioni (la “Meshullam Fried & Figlia S.r.l.”) -e va da sé che, come tutti gli impresari edili del mondo, non risparmia critiche sanguinose nei confronti delle opere compiute dai colleghi-, è divenuto ricco grazie al suo lavoro, ma ha conservato un intenso attaccamento alla terra, gioisce per le cose semplici, come dividere con la compagna del momento (“da ‘quando che’ la mia Goldie se n’è andata…”) un fico spruzzato di arak. Meshullam parla di se stesso in terza persona, ha una vitalità traboccante; tant’è che, a volte, deve darsi una calmata, fermare l’automobile, scendere, annunciando all’interlocutore: “Devo piangere come si deve”.
E’ grato per la vita al Prof. Yaakov Mendelssohn, che, in anni lontani, guarì suo figlio Gherson da una grave malattia. Gherson, promettente ricercatore in chimica presso l’Istituto Weitzmann, resterà ucciso in guerra e il padre non si consolerà della sua perdita a tal punto da rifiutarsi che gli venga intitolata una borsa di studio: “…mio figlio sta nella tomba e qualcun altro dovrebbe studiare e diventare professore al posto suo?” Non sia mai.
La “Figlia” della S.r.l. è l’adorata figlia Tirza, socia in affari del padre e compagna di giochi nell’infanzia di Yair. La madre di lei, Goldie, li aveva ribattezzati, nel suo buffo linguaggio, “Tirale” e “Irale”, nomi che i due usano ancora oggi quando sono soli. Irale, Tirale e Gershon formavano un trio inseparabile, fin da piccoli, nelle interminabili scorribande e nel loro indulgere, di nascosto, in certi divertimenti…..proibiti dei bambini.
Tirza non è splendente come Liora, luce che brilla ma non riscalda; in compenso ha un fascino tutto suo. Tipo pratico e ed estroverso, viaggia, da un cantiere all’altro, sul suo furgone, zeppo di attrezzi, libri (di autori rigorosamente stranieri: “Non li reggo i libri in cui sta scritto di noi”) e abiti femminili; sa trattare con personalità importanti e con semplici manovali: memorabile a tale proposito è la scenetta tra lei, un muratore immigrato dalla Russia e la madre di questi, interpellata al telefono su come preparare una certa minestra……
Yair, in fondo, l’ha sempre amata (riaaamato, direbbe lei), ma, data la propensione a non decidere, si era orientato altrimenti.
Con la complicità dietro le quinte di Meshullam, Raya ha rimesso tutto in gioco, con l’invito/ultima volontà al figlio di cercarsi una casa. Una casa per conoscere se stessi e l’altro che ami; per costruirsi e curarsi a vicenda, aprire porte e finestre; gettare pareti. Affinché Irale e Tirale, grazie alla casa, abbiano una seconda opportunità. Palla al centro.
E’ Raya in definitiva il perno della storia, il centro intorno al quale tutto ruota, in vita e in morte, che regge i fili della vita di ognuno. Grande figura femminile, dei quali la letteratura israeliana è ricchissima.
Ed è Tirza a dirigere i lavori nella sua nuova casa di Yair, è lei il Capomastro, novello creatore.
“Ricordo che ha costruito, inaugurato la mia casa, un pezzo dopo l’altro…dicendo ‘sia un muro’, ‘sia una finestra’…Ha costruito, ha dato un nome, inaugurato, segnato, passando al giorno seguente”.
Quale sorte riserva l’Autore ai personaggi?
Chi legge lo scoprirà e magari può pure sbizzarrirsi ad immaginare soluzioni diverse da quelle che prendono corpo nel romanzo.
“Ho una storia da raccontarti” dice Raya al figlio “Così diventerà anche tua…….Una storia che giunga non solo al cervello…..ma che sia capace di avvincere viscere e muscoli….di vibrare…nelle valvole del cuore…e due cime di montagne, una su cui stare e l’altra da contemplare. E due occhi per vedere il cielo e aspettare. Capisci cosa sto dicendo, Yair?”.
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