In occasione del centenario della Festa della Donna
8 marzo 1908 – 8 marzo 2008
“Sono nordico-lituana. La mia adolescenza l’ho trascorsa in Inghilterra; giungere sulle coste mediterranee è stata per me una rivelazione. Mi sembrava di sentire vibrare i colori attorno a me, direi quasi più di chi ha sempre vissuto al Sud”.
 
Con queste parole essenziali Antonietta Raphaël De Simon ci dona un efficace ritratto di sé.
Personalità poliedrica, complessa, ella nasce a Kowno -Lituania- all’incirca (!) nel 1895, in una famiglia ebraica chassidica. Dopo la morte del padre, nel 1905, lascia la Lituania, terra di terribili pogrom contro gli ebrei, per trasferirsi a Londra con la madre e i fratelli. A Londra studia teatro, filosofia e soprattutto musica; frequenta lo studio dello scultore J. Epstein.
Dopo un breve soggiorno a Parigi, si stabilisce nel 1925 a Roma, dove conosce il pittore Mario Mafai. Intraprende la via della pittura e, insieme a lui, che diventerà suo marito, e all’amico Gino Bonichi (Scipione) dà vita alla cosiddetta “Scuola di Via Cavour”, un gruppo di giovani artisti proiettati verso il rinnovamento, insofferenti nei confronti dell’allora imperante neoclassicismo novecentista.
Nel 1930, a causa di gravi attriti con Scipione, torna a Parigi dove decide di abbandonare la pittura, terreno di rivalità con Mafai, per dedicarsi alla scultura, dando vita a opere di un vibrante e corposo realismo, senza dimenticare il sensualismo di Rodin e il simbolismo plastico di Epstein.
A partire dagli anni Cinquanta, incoraggiata anche dalla critica, ritorna alla pittura, alternando ad essa la scultura. Muore a Roma nel 1975.
 
In occasione del Centenario della Festa della Donna -con la quale si intendono ricordare le 129 operaie morte l’8 marzo 1908 a New York nell’incendio dello stabilimento in cui lavoravano, dove, alcuni giorni prima, avevano intrapreso uno sciopero per protestare contro le condizioni in cui erano costrette a lavorare- il Museo Ebraico di Bologna dedica a questa originale artista una Mostra dal titolo La magia del colore, che si può ammirare dal 6 marzo al 4 maggio.
L’esposizione presenta quadri e sculture di Antonietta, dagli anni ’30 agli anni ’60, passando in rassegna tutto il suo percorso creativo, del quale sono bene evidenti le linee guida: l’ebraismo, il sogno, la maternità.
All’inaugurazione, tenutasi stasera, la figlia Giulia Mafai ha evidenziato l’influenza della cultura ebraica sulla formazione della madre (“la Raphaël”, come la chiama, in un misto di affetto partecipe e di voluto distacco): il lavoro era il primo valore per lei -con questa forma di educazione ha plasmato noi tre figlie-, unitamente all’amore per la cultura, tipica espressione di chi appartiene al popolo del Libro. Il libro è una realtà sacra, cui si deve il massimo rispetto, da toccarsi dopo essersi lavati le mani. Giulia, che assomiglia alla madre nel viso un po’ piatto, orientale, osserva alle pareti quelle grandi tele che ha visto nascere nello studio di famiglia e nota commossa come, queste opere, dopo tanti anni, siano “lì, a cantare”, di quale forza primigenia si sprigioni da esse, testimonianza di una sorta di lotta di Antonietta, eterno Giacobbe, contro il mondo.
Ella, prosegue Giulia, aveva bisogno di grandi spazi per esprimersi, alla stregua di un artista del Rinascimento, mentre, al contrario, il padre (“Mafai”) era sempre, per così dire, preoccupato di essere sopra le righe, nella costante ricerca della essenzialità, volto quasi a scarnificare le sue figure.
Attestano la presenza sempre viva, nel cuore dell’Autrice, dell’educazione ebraica impartitale dalla famiglia e, in particolare, dal padre rabbino, i suggestivi quadri della Lamentazione di Giobbe, con un’originale figura rovesciata; il quasi intimo Yom Kippur nella sinagoga; o il Quarto giorno della creazione, ov’è evidente un accurato studio del colore: il blu che avanza per abbracciare l’osservatore e il rosso che indietreggia sullo sfondo; una sintesi tra cultura mitteleuropea ebraico-slava ed espressionismo francese, che tiene conto della lezione di Matisse e del gruppo dei “Fauves”.
L’affascinante femminilità dell’Artista si esprime nell’amore per i fiori: Gigli bianchi; Garofani rossi e vaso blu; Calli bianche e blu o per gli animali, come il fiammeggiante, incredibile per la fantasia cromatica, Airone morente; o nelle notevoli opere dedicate alle figlie: Le due sorelle e la scultura in gesso Testa di Giulia, davvero splendida.
Non mancano eloquenti rivisitazioni di temi classici mitologici: il bronzetto Niobe, carica di tutto il dolore del mondo, e biblici, come la testa in gesso di Eva.
Grande forza e rigore sprigionano dalle sculture, tanto che, nel 1938, Marino Marini le disse: "Lei non è scultrice, è scultore, signora: non deve aver paura di chiamarsi scultore".
Originalissima la dimensione onirica, che la induce ad annotare sul diario i sogni notturni per rappresentarli poi nelle sue opere. Ecco L’incubo (1958): una fanciulla bionda seminuda, forse un autoritratto, dall’aria apparentemente serena, pare non accorgersi che, alla sue spalle, seminascosta da una poltrona personalizzata da un paio di occhi inquietanti, c’è una mano mostruosa ad artiglio, che sta per ghermirla. La fanciulla non sa o fa finta di non vedere perché è consapevole che lottare contro il Mostro, da sola, è impossibile?
Incubo palpabile di una tragedia epocale consumatasi poco più di dieci anni prima.
Una femminilità, poi, non ingabbiata in ruoli definiti da altri, quella di Raphaël, che prescinde dalle convenzioni sociali, rifugge dalla mediocrità della tradizione, esce volentieri dai limiti: ella è una donna di cultura, viaggia da sola, non ama cucinare, porta abiti comodi, come la tuta blu che indossa nel significativo autoritratto che è l’emblema della Mostra.
Completano la rassegna alcuni disegni a inchiostro e a carboncino, fotografie e materiale documentario, come diversi articoli di giornale, la carta d’identità del 1931, la foto della locandina di uno speciale Noi donne dell’8 marzo.
 
Concludiamo con le sue parole: “"Due cose mi tormentavano fin da piccola; la religione e il sogno: la prima mi è rimasta in eredità dai miei genitori e si è fusa con la loro indomabile Fede che, come un grosso pendolo di un orologio, si muove, si dondola (…) e regola la mia vita artistica e morale (…) ma il sogno, benché proibito, di crederci, affascinava e mi terrorizzava a un tempo. Lo preferivo e lo preferisco tuttora alla brutale realtà".
 
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