GECE 2016

 

 

 

 

Nel pomeriggio del 18 settembre, una Passeggiata tra i libri in compagnia

del Prof. Piero Capelli, bolognese, Professore Associato di Lingua e Letteratura Ebraica all’Università di Venezia Ca’ Foscari.

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Il Professore cattura in breve la nostra attenzione per la capacità di esporre in tono cordiale e quasi familiare temi complessi con implicazioni a vasto raggio.

Cercherò di presentare i concetti essenziali.

L’uso dell’alfabeto ebraico per la scrittura delle cosiddette giudeo-lingue -le lingue locali usate dagli Ebrei sia della Diaspora, come anche della Terra d’Israele- è sempre stato spiegato come un fenomeno di “enclavizzazione” religiosa e di conservazione di un sistema grafico che la tradizione rabbinica aveva sacralizzato sì da preservare l’identità.

La scelta di un sistema di scrittura per simile scopo non è certo fenomeno esclusivamente ebraico. Ad esempio le lingue slave parlate da fedeli greco ortodossi utilizzano in prevalenza i caratteri cirillici; quelle delle comunità cattoliche l’alfabeto latino.

Gli Ebrei hanno sempre parlato le stesse lingue delle maggioranze etnico / religiose in cui si trovavano -e si trovano- a vivere. Se, nel passato, per scrivere in queste lingue adottarono in prevalenza la scrittura del loro idioma sacro fu perché “lo scrivere” così chiarisce il Professore “era avvertito essenzialmente come imitazione di modelli scrittorii antichi, consolidati dal punto di vista religioso”.

In anni recenti, due socio linguisti Benjamin Hary e Martin Wein hanno introdotto nello studio delle lingue delle comunità religiose la categoria del ‘religioletto’ (religiolect) [1].

Poiché le religioni (o i secolarismi) sono parte integrante della società e della comunicazione umana, ciascuna varietà linguistica si può analizzare per le sue caratteristiche religiose e descrivere come un religioletto, cioè una varietà linguistica, scritta e/o orale, utilizzata da una comunità religiosa (o civile), in generale localizzata in una regione specifica.

La proposta dei due studiosi prende le mosse dall’analisi delle “giudeo-lingue” o “lingue a definizione ebraica”: gli Ebrei, dovunque abbiano sentito il bisogno di distinguersi dalle popolazioni circostanti (o a ciò indotti, incoraggiati o addirittura costretti), hanno sviluppato elementi linguistici distintivi, sia nel modo di parlare che in quello di scrivere. Teniamo, d’altra parte, presenti due aspetti. il primo: quanto sopra spiegato è un fenomeno riscontrabile pure in altri contesti, diversi da quello ebraico (sicché e cristiani e musulmani hanno, a loro volta, elaborato propri religioletti); il secondo: certi usi linguistici ebraici sono, in diversi casi, stati accolti e fatti propri sia da cristiani che da musulmani. Per esempio: l’aggettivo fasullo prima tipico del giudeo-romanesco, poi passato all’italiano generale, corrente, altro non deriva che dall’ebraico pasul, cioè “illegittimo”, “non valido”.

Hary e Wein individuano un “modello” di religioletto ebraico i cui principali (ma non unici) caratteri sono:

– l’uso costante dell’alfabeto ebraico;

– il religioletto in esame viene denominato in modo differenziato rispetto al linguaggio esterno alla comunità: ad esempio, il giudeo-romanesco si autodefinisce scionacodesce, dall’ebraico lashon ha-qodesch, cioè lingua delle “cose sante”;

- l’incorporazione di elementi ebraici ed aramaici, non solo lessicali, né solo cultuali, nella comune parlata locale. Tipici esempi, tratti dal giudeo/italiano, sono espressioni quali pachadoso, “timido”, e impachadito, “spaventato”, dall’ebraico pahad “aver paura”; oppure ganaviare, “rubare, sottrarre”, dall’ebraico ganav “rubare”; o anche camorcione, cioè “somarone”, anche in senso scherzoso (giudeo / romanesco), da hamor “asino”;

– sia la scrittura, sia la forma parlata in genere, non sono comprensibili dalle persone esterne alla comunità; o almeno da quelle che non hanno dimestichezza con l’ambiente ebraico.

A questo proposito significativo è un articolo (quanto mai saporoso; e notevole dal punto di vista, per così dire, socio/antropologico) che ho letto, proprio nei giorni scorsi, su una Rivista a carattere locale[2] nel quale si dà conto di come, a Ferrara, le botteghe storiche del centro usassero, fino ad alcuni decenni fa, un linguaggio criptico. Parole in gergo ferrarese, ma distorte “in una lingua strana, che parlavano solo i marzar, cioè i bottegai. Era una lingua in codice che al tempo -parliamo dei primi anni ’50- solo persone dai trent’anni in su conoscevano, tutti lavoranti nel settore tessile, più che altro addetti alla vendita, nella Ferrara del centro” e, più avanti, l’autore del brano rileva di come certe giornate, il lunedì in primo luogo, fossero favorevoli per gli affari. Il negozio era pieno: si doveva stare attenti a che qualcuno non rubasse; [soprattutto] si doveva far capire subito al commesso addetto alle vendite che quel tal cliente era “uno coi soldi” e che quindi con lui il prezzo della merce poteva crescere e non calare (all’epoca non esistevano prezzi fissi). A tale scopo si comunicava tramite questo strano idioma, comprensibile solo per gli addetti ai lavori. Se poi si considera che, nella città, la maggior parte delle botteghe del settore tessile era di proprietà di alcune famiglie ebraiche, la conseguenza discende. “Addirittura” prosegue l’autore dell’articolo riferendo un colloquio tra certi parenti, perplessi circa la sua tesi “per dire ‘merda’ si usava una parola…..Insomma ‘merda’ si diceva Shoah. Per indicare qualcuno che era andato in bagno: ‘l’è andà in tal Moshav, l’è drè far na Shoah’…..E’ cambiata la prima lettera. Merda si dice tsoah, e moshav mi ricorda proprio il termine moshav, insediamento; ma, sia in italiano che in ebraico, il vocabolo viene dall’idea di sedersi, in ebraico yashav. Insomma può anche voler dire un posto in cui ci si siede, come il gabinetto”. Sorprendente davvero!

Per ritornare ad argomenti più dotti, il Prof. Capelli racconta come Primo Levi, noto a noi tutti, ritornato in Italia dalla prigionia di Auschwitz dopo un viaggio drammatico attraverso mezza Europa (è il tema de La Tregua), s’impiega in un’azienda chimica -disciplina in cui, a suo tempo, si era laureato- dove rimarrà fino al 1975.

Esercita in contemporanea l’attività di scrittore per rispondere all’insopprimibile esigenza di raccontare agli altri la sua storia -il che viene capito solo da alcuni- arricchendo il narrare di tematiche sempre nuove e diverse.

Ad esempio, Il sistema periodico, uscito con Einaudi nel 1975, è una raccolta di 21 racconti: in essi, non focalizzati solo sulla tragica esperienza nel campo di sterminio, compaiono pure quadretti autobiografici. Il titolo di ciascun racconto coincide con quello di un elemento della celebre tavola periodica di Mendeleev, di scolastica memoria: essa serve da chiave di lettura per i fatti narrati.

Nel primo capitolo, intitolato Argon, lo scrittore racconta le abitudini, le usanze della sua famiglia, in un linguaggio ironico che coniuga ebraico e dialetto piemontese [3].

Gli antenati sono persone di grande nobiltà (d’animo), come l’argon e, come questo elemento, sfuggono da contatti con individui diversi da loro.

Nella nostra sorprendente passeggiata tra libri e termini idiomatici, è intrigante conoscere con quali parole, giocoforza criptiche, venivano chiamati Gesù e la Chiesa; utilizzando religioletti ebraici adatti alla bisogna.

Il primo era detto Odò, cioè Lui; non ben precisato, ma era chiaro a chi ci si riferiva; la Chiesa cattolica, Tokevà, cioè Abominio. Siamo prima del Concilio Vaticano II e della Dichiarazione Nostra Aetate, è chiaro.

Oh perbacco! Che qualcosa non sia stato gradito, nelle alte sfere? Non posso nemmeno pensare che “lassù” si sia in ritardo di oltre 50 anni, nei rapporti tra Ebrei e Cristiani ; si sarà senz’altro trattato di una coincidenza!  Un forte tuono infatti  ci fa sobbalzare tutti: si annuncia un temporale coi fiocchi.

Acquazzone, una manciata di secondi dopo. La D.ssa Maugeri non si perde d’animo: deve decidere, in pochi minuti, dove -e come- collocare l’ultimo gruppo di musicisti klezmer, ma, soprattutto (impresa assai più difficile, sulle prime), tenere a bada il pubblico il quale, disorientato per poche gocce di pioggia, sembra chieder conto a lei dell’improvviso mutamento meteorologico.

Prima di congedarsi, il nostro “Virgilio” c’intrattiene su due figure, tanto significative di per sé, quanto poco note alla maggioranza dei lettori; dopo averne illustrate in breve altre, senz’altro più famose.

La prima è Crescenzo Del Monte (Roma, 1868; ivi, 1935).

Nato in una casa del ghetto di Roma nel 1868, morto nella capitale pochi anni prima dell’emanazione delle leggi razziste del 1938, è conosciuto come il più importante poeta in giudeo/romanesco.

 

DEL MONTE Crescenzo

Scrive sonetti nei quali si diverte a prendere in giro con ironia affettuosa i correligionari nel momento del passaggio dal ghetto all’emancipazione.

In altre opere descrive i tempi che furono, con tutte le terribili vessazioni subite dagli Ebrei e il clima di forte preoccupazione che si diffondeva nel ghetto il giorno in cui il Papa (detto in giudeo/ romanesco “Apifior”) concedeva udienza ai capi della Comunità ebraica.

In un altro sonetto poi ricorda il dolore di una madre alla quale viene rapito il figlio per convertirlo forzatamente al Cristianesimo -sorta di locale “caso Mortara”-.

Altri ancora ne scrive in romanesco, da lui denominato “romanesco comune”, per distinguerlo dalla parlata degli Ebrei.

Collabora, scrivendo un’appendice sulle vicende post 1870, ad una Storia degli ebrei di Roma di Giacomo Blustein.

Si diverte tradurre in giudeo/romanesco testi medievali, cinquecenteschi, brani della Divina Commedia e di Giovanni Boccaccio.

E’ decisamente antisionista e fautore del Regno d’Italia; e vede con interesse, sia pure non scevro di perplessità, l’affermarsi del fascismo.

La fortuna ha voluto che, come  detto, morisse prima delle infami leggi  del 1938 e della razzia del ghetto di Roma, perpetrata all’alba di sabato, 16 ottobre 1943.

La seconda figura, con la quale facciamo conoscenza, vissuta diversi secoli prima, è Immanuel Romano (Roma, circa 1261; Fermo circa 1328), chiamato dai contemporanei pure Manoello Giudeo. Poeta italiano, nonché uomo di cultura e fede ebraica; scrisse in ebraico, latino e volgare.

Svolse soprattutto l’attività di precettore presso ricche famiglie di religione ebraica dell’Italia centrale (Fermo, Fabriano, Perugia, Ancona, Camerino) e a Verona; fu amico di Cino da Pistoia.

Scrisse commenti biblici, poesie d’amore e satiriche, e pure altre di argomento diverso, che riunì nell’opera in ebraico Mahbarot – termine corrispondente all’arabo maqamat [4] -, formata da 28 componimenti misti in prosa e versi, la cui metrica è quella della poesia volgare del 1300, utilizzata dai rimatori del Dolce Stil Novo. Tra questi componimenti ce n’è uno che contiene una descrizione degli Inferi avendo come modello la Divina Commedia.

In italiano compose quattro sonetti di gusto realistico e una frottola [5] sulla Corte di Cangrande della Scala, presso la quale egli fu dopo il 1312.

A proposito di Dante, per celebrare in modo degno la sua morte (1321), Immanuel compose in lingua ebraica l’opera dal titolo L’Inferno e il Paradiso [6] .

Il poeta ebreo attribuisce a Dante la duplice natura di Profeta e Giusto, dando al primo (Dante profeta) i tratti del biblico Daniele, che gli farà da guida nel viaggio tra i dannati e i beati; e al secondo, il defunto della stirpe dei Santi, i tratti di un Daniele mortale, ma destinato ad occupare un posto di massima gloria nell’Eternità: in un Paradiso ebraico aperto ai Giusti di tutte le nazioni.

Per sé il poeta immagina un Trono di Gloria tra il Trono in attesa del cugino Jehudah Romano, il metafisico ebreo più vicino alla Sapienza di certi cristiani, e il trono in allestimento per l’arrivo di Dante, il metafisico cristiano più vicino alla Sapienza di certi ebrei.

 

 

I MINIMAL KLEZMER sono l’ultimo gruppo musicale che c’intratterrà.

Il suggestivo cortile del Museo non è agibile perché il cielo minaccia ancora pioggia e le poltroncine sono tutte bagnate. Mannaggia, ma non ci perdiamo d’animo.

Ci sistemiamo sotto il porticato di Palazzo Pannolini senza problemi: anche i più reticenti hanno finito per rimanere; mentre i nostri musicisti sembrano gradire molto, per l’esibizione, questa uscita dagli schemi, del resto del tutto in linea col loro stile.

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Con sede tra Venezia e Londra (!) il gruppo è stato fondato nel 2011 da tre musicisti uniti dall’amore e dallo studio della musica classica, da una decisa tendenza verso l’improvvisazione, nonché da una passione fatale per il Klezmer.

Il repertorio consiste essenzialmente in brani di origine est-europea, con arrangiamenti originali, valorizzando gli aspetti giocosi, ironici, beffardi, cabarettistici, ballabili.

Lo “schieramento” consiste in attrezzature portatili (cioè di agevole gestione) e di pochi strumenti acustici per restituire la spontaneità e la naturalezza delle formazioni klezmer originali.

Fonte di ispirazione per le ricerche sono infatti le vecchie registrazioni di Jacob Gegna, Josef Solinski, Mihal Viteazul che consentono di conoscere una prassi esecutiva risalente circa all’inizio del XX secolo.

Formatisi come buskers (cioè “artisti di strada”) nelle strade di Londra, muniti solo di un clarinetto, un violoncello, una melodica -strumento simile all’accordéon e all’armonica- dalla dubbia accordatura (parole loro), i ragazzi di Minimal Klzmer si rifanno all’origine stessa della parola klezmer, ad indicare lo strumento musicale o il musicista stesso. Lo stereotipo dei klezmorim di inizio Novecento era quello di musicisti errabondi, vessati dalle autorità e dalle classi abbienti.

Nonostante la formazione sia recente, l’ensemble ha tenuto -e tiene- moltissimi concerti e recital, oltre che vantare partecipazioni radio – televisive in Italia, Regno Unito, Germania e Ungheria. Collabora spesso con il violinista Pietro Pontini (con noi pure oggi), i batteristi Jimmy Weinstein, Zsolt Kovacs Sarvari, Lorenzo De Vettor e con l’accordeonista (suonatore di fisarmonica; dal francese accordéon ) Luca Piovesan. Con costoro è stato registrato il primo album.

Garantito quindi il carattere fresco, spontaneo dello spettacolo; improvvisato all’apparenza; in realtà frutto di accurato studio.

Eccoli:

Roberto Durante (pianoforte, melodica, fisarmonica, metallofono, oggetti); Enrico Milani (violoncello); Francesco Socal (clarinetto, voce), oltre a, come precisato sopra, Pietro Pontini (violino, oggetti)

 

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Francesco è una sorta di rappresentante del gruppo, la sua voce.

Alto, snello, dal marcato e piacevolissimo accento veneto, capelli biondo rossicci, aria sveglia, lo vedi a suo agio con un clarinetto tra le mani.

Di sé dice (traggo dal suo sito web): “Sono un musicista, specializzato nella famiglia dei clarinetti. Mi muovo tra musica classica, contemporanea, improvvisata. Sono attratto dai generi di natura popolare, in particolar modo dal klezmer, dal tango, dal primo jazz: amo la musica che riesce a trasmettere qualcosa e, già che si vive una volta sola, cerco di trasmettere qualcosa. Non di rado vengo chiamato in causa anche come presentatore, cantante, voce recitante. Dal 2010 al 2011 sono stato Direttore artistico dell’Associazione Culturale Flat, con l’obiettivo di smuovere un po’ le acque nel quasi-nulla di sociale e culturale della mia provincia…..Da aprile 2012 suono in Piazza S. Marco nell’Orchestra del Gran Caffè Quadri gestito dalla famiglia Alajmo”.

Non c’è ovviamente un “programma di sala”, né ci viene detto, se non in modo un po’ vago, quali brani verranno suonati; ma qui sta il bello, la fresca originalità del gruppo.

Cercherò di riportare qua alcune suggestioni che ho appuntato a mano nel corso di questa deliziosa esperienza.

In ascolto e partecipazione ti accorgi di quanto la tradizione ebraica sappia declinare le proprie esperienze musicali.

Il clarinetto apre la via e, ben presto, il pianoforte entra in scena per giocarsela con gli archi…

Un altro brano viene da luoghi remoti… Violino e  xilofono evocano l’Oriente misterioso; ma ecco che il primo si prende strane libertà da musica dodecafonica e tu accetti l’invito a partire insieme con lui per un lungo viaggio verso destinazioni sconosciute.  Lo xilofono tace, forse un po’ risentito.

Da capaci zaini all’altezza del mitico borsone di Mary Poppins estraggono i più strani oggetti che maneggiano come strumenti musicali: magico soprattutto l’addetto ad essi, cioè Roberto Durante; il quale, approfittando che i presenti sono distratti dalle reminiscenze classiche create dal violoncello di Enrico Milani, scompare nella prima sala del Museo  dedicato alle esposizioni permanenti -ma precariamente adibita a spogliatoio- per ripresentarsi un attimo dopo con in testa uno strano berretto simile ad un cilindro ribassato e un po’ deformato.

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Qui vedrei bene un amico ferrarese, Marco Caselli Nirmal, valente fotografo: ne trarrebbe immagini fantastiche, lui che, grazie a esperienze professionali davvero fuor del comune, è divenuto, nel corso degli anni, un tutt’uno con la Musica.

Intanto ci godiamo il canto da ruscello di montagna del clockenspiel e un assolo di violoncello comprendente un delizioso pizzicato. Il clarinetto dà il meglio di sé nel controcanto con quest’ultimo; e i virtuosismi tra i due contagiano tutto il gruppo.

Percepisci quanto sia forte il rapporto tra Klezmer e Jazz e quale suggestione promani dai musicisti di strada, con quel loro improvvisare marcette di vago sapore militare create dallo xilofono e, di nuovo, dal pizzicato degli archi.

E che dire dell’improvviso cantare, in primo luogo di Francesco, per dar maggior forza alla musica? Insomma, una sorta di melologo….a rovescio!

Mimica formidabile da teatro yiddish: gags irresistibili, scene grottesche dove animaletti di gomma sbucati dagli zaini sembrano litigare con quella grossa sveglia che salta da tutte le parti e non la smette di squillare all’impazzata…

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Nell’ultimo brano rispunta lo xilofono in parte da protagonista, mentre clarinetto e archi si accontentano di fargli da spalla per queste reminiscenze anni ’50.

 

 

Poi però spetta al clarinetto concludere, ben supportato dal violino, il quale, all’occorrenza, sa trasformarsi in banjo.

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                                                                                                                                 [CONTINUA]

 

[1] HARY Benjamin; WEIN Martin, Religiolinguistics: On Jewish, Christian and Muslim defined Languages; leggibile su International Journal of the Sociology of Language, 2013, 220, pp. 85-108.

[2] V. www.listonemag.it del 13.9.2016

[3] Si diverte a giocare con questi temi anche Elena LOEWENTHAL (torinese) nel suo stupendo romanzo di famiglia, Conta le stelle, se puoi, Ed. Einaudi, Collana I coralli, Ottobre 2008, pp. 263; v. recensione su questo sito, giugno 2009. In esso vengono riportate espressioni in giudeo piemontese, quali: Ròbe ‘d l’aut olam! (roba dell’altro mondo!).

[4] Le maqamat (singolare maqama o maqāma; in arabo: مقامة; al plurale: maqāmāt, مقامات; la parola letteralmente significa assemblea, consesso, riunione) sono opere in prosa rimata della letteratura araba dei secoli IX-XII. Sono componimenti a cavallo tra poesia e prosa, tra finzione e descrizione di fatti reali, ricchi di fantasia e invenzioni su episodi di vita realmente accaduti. Solitamente sono caratterizzate da una serie di brevi racconti consequenziali che sono versioni romanzate di fatti reali di vita quotidiana nei quali vengono messe a confronto idee diverse.

[5] In campo musicale la frottola è il genere predominante di canzone popolare italiana nel 1400 / inizi 1500.

 

[6] Nel 2000 la Casa Editrice Giuntina ha pubblicato l’opera, curata da Giorgio Battistoni, con traduzione di Emanuele Weiss Levi e testo ebraico a fronte (pp. 196; €.19,62)

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