GECE 2016

 

E pensare che sono stata sul punto di non andarci, complici gl’impegni professionali; poiché ho deciso all’ultimo minuto, causa la fretta è rimasta a casa la macchina fotografica, in grado di regalarmi un ricordo anche visivo di quest’evento bellissimo.

L’interesse per il tema ha avuto, alla fine, la meglio:

Joseph Cohen Hemsi. Un intellettuale ebreo italiano nell’Egitto del ‘900.

A lungo non si è parlato degli Ebrei vissuti per secoli nei Paesi arabi e cacciati -loro sì, per ritorsione e odio- a seguito della fondazione dello Stato di Israele. Poi, qualche anno fa, per una serie di circostanze complesse da spiegare, questo dramma è venuto di attualità, sia pure in parte. La verità storica, prima o poi si afferma, anche se purtroppo resta che l’occasione non fu colta al tempo giusto.

Leggo sulla locandina che i partecipanti sono: Giuseppe Cecere, Professore Associato di Lingua e Letteratura Araba nel nostro Ateneo, conosciuto da me circa un anno fa in occasione di una cena-dibattito sul Medio Oriente; Angelo Piattelli, redattore della gloriosa Rivista UCEI Rassegna Mensile di Israel (edita da Giuntina), nonché Cecilia Cohen Hemsi Nizza e Sharon Nizza, rispettivamente figlia e nipote del protagonista.

Così nel pomeriggio di giovedì 22 settembre sono ritornata al Museo Ebraico per questo appuntamento così ricco di storia, emozioni, incontri.

E’ la degna “Coda” di quella che ho chiamato una sorta di forma sonata “letteraria” (pur senza pretese, ma solo per divertimento) sulla Giornata Europea della Cultura Ebraica; “Coda” intesa come parte finale, ma non per questo meno importante delle altre.

Il Prof. Cecere opera un utile inquadramento storico dell’Egitto prima dell’avvento al potere di Gamal Abdel Nasser, a seguito del colpo di Stato militare del 22/23 luglio 1952 -che portò al rovesciamento di re Faruq- ad opera del movimento “Liberi ufficiali” di cui Nasser era personalità di spicco.

Alcuni dati sintetici rilevanti per l’incontro di oggi, spero non troppo inesatti nel mio riferimento.

Dalla metà del XIII secolo l’Egitto è uno Stato con forte autonomia: sultanato mamelucco[1] fino al 1517, allorché entra a far parte dell’Impero ottomano.

La spedizione in Egitto di Napoleone Bonaparte (1798), al di là dell’esito, dà inizio ad un prezioso dialogo con il mondo arabo e a notevoli ricerche e scoperte archeologiche.

Nel 1801 la Turchia torna in possesso del territorio e, lungo l’arco di tutto il secolo, assistiamo ad una lotta per l’indipendenza dall’Impero (e dalle potenze coloniali); i movimenti politici che esprimono queste finalità sono autoctoni, non importati.

Nel 1850 l’Egitto è il primo Paese arabo a dotarsi di un Parlamento, sia pure a carattere consultivo. Ciò continua anche dopo l’occupazione inglese (1882); anzi esso diviene centro di attrazione per esuli liberali che portano una cultura laica e democratica molto forte e sentita.

In occasione della Prima Guerra Mondiale notevole è il contributo dell’Egitto, ma  inopinatamente non viene ammesso alla Conferenza di Versailles.

Dopo un periodo di lotta iniziato nel 1922, la piena indipendenza è proclamata il 14 settembre 1936 (trattato con la Gran Bretagna che trasforma il rapporto con il già esistente protettorato in alleanza tra due Paesi sovrani); anche se, di fatto, perdura l’occupazione militare inglese, con basi militari e pieno controllo del Canale di Suez.

Tale situazione prosegue, come detto sopra, fino al 1952 allorché un colpo di Stato militare destituisce la monarchia e proclama la repubblica, imponendo nel giro di pochi anni il ritiro delle truppe britanniche dalla zona del Canale e dalle basi militari.

A prescindere dalla situazione politica, dal 1923 al 1953 prospera un’intensa vita culturale; pur non essendovi apertura sui diritti sociali e sulla condizione femminile. Esiste una certa libertà, riservata tuttavia alle élites, con una Costituzione la quale, all’art. 149, parla dell’Islam come fonte di diritto, e non come religione di Stato.

Per converso, non dimentichiamo alcuni punti fermi.

La fondazione, nel 1928, del Movimento integralista islamico dei Fratelli Musulmani ad opera di al Hasan al Bana, nonno del trucemente famoso Professor Tariq Ramadan, l’intellettuale tanto discusso da chi è scevro di pregiudizi, quanto corteggiato dall’intelligentia europea (sempre “laica” a senso unico). Preciso questo aspetto tanto per inquadrare il contesto in rapporto all’oggi, così drammatico.

Né scordiamoci le aspre lotte tra liberali e socialisti, da una parte; e movimenti fascisti (le note “Camicie verdi”), dall’altra.

Né, tanto meno, il feroce, immarcescibile antisemitismo che sfociò in alcuni pogromi, tra cui uno, particolarmente duro, nel 1945.

Con la proclamazione dello Stato di Israele l’odio antiebraico tocca il culmine e porta alla cacciata degli Ebrei presenti nel Paese da secoli; costretti a fuggire davvero quali “ladri nella notte” (come recita il titolo del bel libro autobiografico di Carolina Del Burgo Pardo, uscito alcuni anni fa).

Rilevante per farci conoscere l’ambiente della comunità ebraica egiziana degli anni ’20 e ’30 del Novecento è la figura di Rav David Prato, illustrata da Angelo Piattelli, il nostro secondo relatore.

 PRATO Rav David

 

Nato a Livorno nel 1882, si trasferisce ben presto a Firenze alla scuola di Rav. Margulies.

Dal 1927 al 1936 è Rabbino Capo della fiorente Comunità Ebraica di Alessandria d’Egitto.

Fervente sionista, ricopre incarichi dirigenziali all’interno del KKL e del KH, oltre che essere Direttore del Collegio Rabbinico di Rodi (isola sotto il dominio italiano dal 1912).

Personaggio di grande spessore umano, religioso, culturale redige dei Diari nei quali riferisce di incontri con i personaggi più rilevanti dell’epoca.

Ha rapporti con Benito Mussolini il quale vede di buon occhio la presenza ebraica in quei luoghi come strumento di penetrazione dell’Italia nel Mediterraneo.

Il Rabbinato coincide col periodo più florido della Comunità ebraica. Prato riesce, in un ambiente in sostanza laico, a riportare i giovani, e non solo, verso lo studio e la passione per l’Ebraismo; e dà pure un forte impulso, come detto, alla vita culturale in senso lato.

E’ membro di rilievo della Lega Internazionale contro l’Antisemitismo e contro il Razzismo [2], costituita nel 1928 per combattere in generale il boicottaggio antisemita, economico e non solo (la Storia insegna ben poco, se pensiamo all’odierno, tra l’altro stupido, BDS contro Israele), e, in specie, contro il progressivo antisemitismo italiano dovuto (pure) a piaggeria nei confronti della Germania nazista.

Alla morte di Angelo Sacerdoti nel 1935, la carica di Rabbino Capo di Roma viene offerta a David Prato, il quale, sulle prime, rifiuta; poi accetta. Con la conquista dell’Etiopia e il filo nazismo imperante nel regime, infatti, David Prato ad Alessandria non…serviva più.

Le leggi razziste del settembre 1938 lo costringono a lasciare in tutta fretta il suo Paese per rifugiarsi in Terra d’Israele. Ritornerà in Italia a guerra finita per riprendere le redini della Comunità, travolta dai noti, tragici eventi.

Muore il 7 marzo 1951.

 

Ed eccoci al personaggio cui l’incontro di oggi è dedicato: Joseph Cohen Hemsi.

COHEN HEMSI Joseph

Sono presenti le figlia Cecilia Ruth Nizza Cohen Hemsi e la nipote, Sharon Nizza; il che dà all’evento un dolce sapore di famiglia.

Cecilia col suo stile appassionato, in presa diretta, ci racconta del padre, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1907, redattore capo del periodico in lingua francese Journal d’Aléxandrie, dove scrive pure di Letteratura e di Musica. Un ambiente colto, aperto, ricco di stimoli.

“Frammenti di memoria, a confine tra il detto e il non detto” confida “…talvolta sui genitori [la madre era di famiglia bulgara e romena, con genitori trasferitisi in Egitto a inizio ‘900] si scoprono storie quando è tardi per interrogarli….” .

E’ così, cara amica. E ciò può valere non solo per i genitori, ma per coloro che non abbiamo fatto in tempo a conoscere come avremmo voluto e dei quali siamo, in qualche modo, costretti a rincorrere oggi l’esistenza per trattenerli accanto a noi e renderceli vivi.

Adesso. Molto difficile, sembrerebbe quasi illusorio, ma val la pena di provarci; anche perché queste persone puoi amarle -e magari, per certi aspetti marginali, criticarle- con più ampia libertà.

Joseph aveva ricevuto un’educazione religiosa, poi abbandonata dopo che era rimasto orfano a 15 anni. La sua famiglia, probabilmente di origine spagnola, era egiziana da generazioni, con passaporto italiano. Sotto il fascismo essi avevano perduto la cittadinanza, poiché il regime l’aveva tolta agli Ebrei non residenti in Italia.

Egli, cresciuto in sostanza come autodidatta, è intellettuale dai molteplici interessi, esercita un’importante influenza nei circoli culturali di Alessandria negli anni Trenta e Quaranta.

E’ in rapporti con personaggi come Albert Camus e Luigi Pirandello.

Appassionato di Musica (anche la mia amicizia con Cecilia è nata grazie ad essa), conosce l’illustre violinista ebreo di origine polacca Bronislaw Hubermann, il quale, nel 1936, prevedendo l’imminente Tragedia, aveva persuaso 75 musicisti ebrei[3], membri delle maggiori orchestre europee, ad immigrare in Terra d’Israele e lì dare origine ad un nuovo ensemble, costituito giocoforza da solisti, la Palestine Orchestra, che diverrà la Israel Philarmonic Orchestra.

 

HUBERMAN Bronislaw

 

Filo conduttore degli scritti di Joseph, convinto sionista e liberale, è la necessità di uno Stato ebraico, attestato altresì dal fatto che la piaga antisemita non è scomparsa nemmeno dopo la tragedia della Shoah. Di quest’ultima fornisce appassionata testimonianza in presa diretta, pur a molti chilometri di distanza, nei suoi Diari. Essi iniziano nel 1936, proseguono con un’approfondita analisi degli eventi svoltisi nel 1938, in particolare delle leggi razziste emanate dal governo Mussolini, e giungono fino al 1982.

Nel 1947 raccoglie nel volume Notre Combat (La nostra Battaglia, titolo significativo!) gli articoli scritti tra il 1942 e il 1947. Il libro esce nel 1947, in prossimità della Risoluzione dell’Assemblea Generale ONU n. 181 del 29 Novembre.

Strenuo difensore dell’amicizia tra Ebrei ed Arabi come imprescindibile dato storico, nonché punto di partenza per la creazione di un contesto mediorientale armonico giusto, viene ciononostante internato dalle autorità egiziane per dieci mesi nel campo di Abukir e, subito dopo la proclamazione d’Indipendenza di Israele, espulso con tutti i suoi congiunti.

Il libro, poco dopo la pubblicazione, era stato censurato e le copie bruciate (questa l’ho già sentita….), tranne una.

Ad essere esatti, già nel 1942, quando pare che le truppe al comando di Erwin Rommel sfondino le linee, i genitori Cohen Hemsi, sposati da poco, fuggono in Terra di Israele, dove, a Gerusalemme, nasce la prima figlia, Martha. Nel 1943 essi ritornano in Egitto, sperando nella normalità.

Nel 1947, come detto sopra, Joseph pubblica il suo libro, nel quale manifesta la speranza di una pace tra Arabi ed Ebrei, non offuscata dalla (ri) costituzione di Israele.

Speranza vana. I Cohen Hemsi debbono lasciare tutto e ricominciare da capo, come i circa 800.000 Ebrei vissuti per secoli nei Paesi arabi.

La famiglia -Cecilia aveva all’epoca cinque anni- dopo brevi soggiorni dapprima in Francia, indi in Israele, si stabilisce a Milano.

Qui le ragazzine crescono; in un ambiente aperto senza particolari rimpianti dei “bei tempi passati”; se non in piccole cose. La nostalgia si esprimeva mantenendo certe tradizioni culinarie.

Piuttosto è la, più o meno, velata diffidenza incontrata in Italia a suscitare turbamento.

Persone che non parlano italiano, bensì francese, e che, per soprammercato, provengono dall’Egitto….Beh ce n’è abbastanza per dar libero sfogo al pregiudizio!

La nostra ospite parla in modo fluido, assai suggestivo; a volte è un fiume in piena; tanto che, a tratti, ho paura di perdermi qualche passaggio nel suo argomentare.

Al fine di non dilungarmi troppo, tralascio tanti quadretti di vita quotidiana, tante interessanti valutazioni politiche fatte dal padre, di cui ci ha messo a parte.

Rilevo che ella ha recuperato la sua identità, per così dire, egiziana allorché ha compiuto l’aliyah. A lungo il dramma di questi profughi (veri profughi!) è stato ignorato -che cosa mai poteva essere di fronte all’indicibile Shoah?-; ciò è accaduto ovviamente in Europa, ma pure è stato sottovalutato in Israele.

Ora invece se ne parla. Cecilia esprime la propria gratitudine per Levana Zamir, israeliana, e Yves Fadida, francese, i quali, anni fa, hanno dato vita a due Associazioni di ebrei egiziani. Nel 2006 la partecipazione ad un convegno sugli Ebrei d’Egitto, tenutosi a Haifa, ha consentito a Cecilia di conoscere questi due personaggi, i quali l’hanno persuasa a ripubblicare Notre Combat. L’opera di Joseph ha (ri)visto dunque la luce nel 2007, nel centenario della nascita dell’Autore -morto nell’autunno  1982, poco dopo l’attentato palestinese alla Sinagoga di Roma, di cui celebriamo in questi giorni la memoria-, grazie alle figlie Cecilia e Martha, con l’aiuto dell’amica Levana.

Quindi la preoccupazione di Joseph, dovuta ad amore per il suo Popolo “Se nei prossimi cento anni il mio libro non rivedrà la luce, bruciatelo insieme a tutti i miei scritti”, è stata superata.

 

Preziosa pure la testimonianza di Sharon Nizza, figlia di Cecilia: una giovane donna piena di entusiasmo, attenta alle proprie origini; approfondite durante gli anni universitari -ha pure studiato storia dell’Islam-, poiché, per la verità, a casa non si parlava pressoché mai del passato.

In famiglia, precisa ironica, non è stato trasmesso il sentimento dell’esodo -!!!!!-, ma si era abituati a guardare avanti. Ma è pure giusto, aggiunge: “tornare alle proprie radici”.

Si reca per due volte nel Paese d’origine: nel 2007 e nel 2012. Vista i luoghi della sua famiglia, le tombe dei parenti, incontra diversi membri della locale Comunità ebraica che le raccontano la loro vita in un contesto difficile.

Alcuni Ebrei continuano a vivere in Egitto perché non dispongono  dei mezzi economici per lasciarlo e non s’immaginano di rifarsi una vita altrove.

I pochi parenti rimasti, nel 2012, si trasferiscono in Canada, a seguito dell’avvento al potere dei Fratelli Musulmani.

L’identità ebraica in Egitto è stata cancellata: i pochi che ancora vi risiedono non “vogliono” essere identificati come ebrei.

Sharon tiene a precisare che coloro i quali hanno dovuto abbandonare luoghi cari, attività, beni non sono mai stati riconosciuti come “profughi”; e si tratta di persone che hanno ricostruito la loro esistenza, con estremo coraggio e dignità, doti che traggono l’origine dalla “storia del Popolo Ebraico, fatta di persecuzioni e di ricostruzioni, rimanendo legati al passato e progredendo”.

Pure nella narrativa israeliana il tema della sofferenza degli Ebrei espulsi dai Paesi arabi è stato a lungo assente. Riparlarne ora è giusto, ma complicato. Se si nominano i “profughi dal Medio Oriente” il riferimento automatico e unico è ai profughi palestinesi; i quali peraltro godono di uno status particolare (gestito dall’UNRWA), tramandato, caso unico al mondo, di generazione in generazione. Di padre in figlio.

L’esistenza di profughi da una parte e dall’altra avrebbe potuto portare ad una sorta di scambio, com’era successo in Europa al termine della Seconda Guerra Mondiale, e facilitare quindi la pacificazione tra i due popoli.

Ciò purtroppo non è successo. Ma “proprio perché [io] sono della seconda generazione” sottolinea Sharon, la quale ha lavorato alla Camera dei Deputati quale assistente di Fiamma Nirenstein e, pure in tale veste, si è occupata del problema ”sento di dover portare avanti anche questa memoria”.

 

[1] Mamelucchi (in arabo : مملوك‎, mamlūk, plurale مماليك, mamālīk) furono soldati di origine servile al servizio dei califfi abassidi e impiegati nell’amministrazione e nell’esercito. I più celebri furono quelli che s’imposero alla guida dell’Egitto e della Siria tra il XIII e il XVI secolo, succedendo pacificamente ai loro signori ayyubidi quando la loro stirpe si estinse per mancanza di eredi e che restarono al servizio degli ottomani dopo il 1517, fino all’affermazione in Egitto del walì -governatore- Mehmet Alì (che li sterminò con l’inganno), i discendenti del quale divennero chedivé (vicere), poi re d’Egitto.

 

[2] La LICRA o Lega Internazionale contro il Razzismo e l’Antisemitismo (Ligue internazionale contre le racisme et l’antisemitisme) fu fondata da Bernard Lecache nel 1928 ed è tuttora esistente (Presidente Alain Jakubowicz ). Trattasi di organizzazione non governativa internazionale impegnata nel combattere il razzismo, l’antisemitismo, la xenofobia e l’esclusione sociale; in Francia e nel mondo.

 

 

[3] In realtà, di correligionari, ne salvò circa un migliaio.