il-labirinto-del-silenzio

(Titolo originale Im Labyrinth des Schweigens, Germania, 2014; Genere: Drammatico)

“Si rende conto di quello che sta facendo? Vuole che ogni ragazzo di questo Paese si chieda se suo padre è un assassino?” “Voglio mettere fine a queste Bugie e a questo Silenzio”

Francoforte sul Meno, Repubblica Federale Tedesca, 1958.

La Germania è in pieno miracolo economico e sta cercando di guarire dalle ferite, non solo fisiche, della guerra, terminata poco più di dieci anni prima.

Johann Radman (Alexander Fehling) è un giovane procuratore -magistrato-, con un forte senso di giustizia. Tale atteggiamento è nutrito dall’immagine della figura paterna, un militare disperso sul fronte orientale, la cui foto tiene sulla propria scrivania e guarda spesso, come punto di riferimento. Ma egli nulla sa dei crimini nazisti ed ignora la vera realtà del campo di sterminio di Auschwitz, spacciato, nella versione ufficiale, per “campo di detenzione preventiva” (?). La società tedesca ha fretta di buttarsi il passato alle spalle e, per lo più, non intende fare i conti con esso, troppo ingombrante. Il Cancelliere in carica, Konrad Adenauer, ha reinserito al loro posto i funzionari pubblici già in servizio sotto il Terzo Reich; l’opera di denazificazione non è andata certo nel profondo. E poi, adesso, i nemici sono “altri” (cioè i sovietici), come precisano gli occupanti americani.

La vita tranquilla di Joahnn subisce una brusca sterzata allorché incontra Thomas Gnielka (Andre Szymanski), giornalista anarchico, tipo vulcanico; questi è amico di un certo Simon Kirsch (Johannes Krish), ebreo di origine viennese, sopravvissuto ad Auschwitz dove sono state uccise sua moglie Hannah e le loro due bambine, le gemelle Ruth e Klara. Simon è un sensibile pittore che riversa nei quadri la propria disperazione: è la cosiddetta sindrome del sopravvissuto, ma c’è qualcosa in più.

Era stato proprio lui, in perfetta buonafede, a consegnare le due piccole, perché le custodisse, ad un medico operante nel campo. Il nome del medico: Josef Mengele, l’incubo di tutti i cacciatori di nazisti del mondo, a cominciare da Simon Wiesenthal, che non riuscirono mai a catturarlo perché ben protetto da solide organizzazioni. Morto, pare, per annegamento in Brasile nel 1979; tragicamente famoso per i suoi atroci esperimenti sui prigionieri, preferibilmente bambini, a cominciare dai gemelli.

Per puro caso, un giorno Simon riconosce nell’insegnante di una scuola elementare cittadina un aguzzino del campo. Questi, come tantissimi altri nazisti, è ritornato alla vita di tutti i giorni, rimuovendo le colpe del passato; o meglio ritenendo di non averne alcuna: “Ho servito la Patria e obbedito agli ordini che mi venivano impartiti, pena la fucilazione” questo è il ritornello ripetuto all’infinito dagl’imputati nei processi intentati loro, (ex) SS comprese.

Thomas racconta a Johann la storia di Simon e lo persuade ad occuparsi della vicenda. Un caso solo all’apparenza insignificante, ma sintomatico di un contesto di rimozione di fatti e responsabilità, anzitutto personali. In un clima di indifferenza, mista a diffidenza e a mal celata ostilità, tra chi vorrebbe dimenticare e chi non vuole, non potrà, farlo mai, il giovane trova sostegno nel Procuratore generale, Fritz Bauer (Gert Voss), che lo incoraggia a continuare, anzi gli fornisce appoggi concreti: una segretaria e un altro collega, all’inizio distaccato ed ironico, poi sempre più partecipe, Otto Haller (Johann von Bülow). La piccola task force deve lottare contro difficoltà di ogni genere: prima tra tutte quella derivante dal fatto che i crimini commessi dai nazisti (omicidi a parte) sono caduti in prescrizione e chi li ha commessi non è più perseguibile. Ma la Giustizia, impersonata dal biondo procuratore, non si arrende. Grazie a numerose testimonianze, anche delle vittime, che con pazienza e tenacia riesce a raccogliere, Johann ricostruisce il quadro di una Germania che si ritiene il miglior Paese al mondo -come cantano gl’innocenti bambini della scuola in cui presta servizio il criminale nazista scovato da Simon-, non ha (ancora) fatto i conti col proprio passato e ritiene che il benessere e la ricostruzione siano l’ideale colpo di spugna, il vestito buono con cui ripresentarsi in società. Un autentico “Labirinto del silenzio” è quello in cui il giovane rischia di perdersi, dove tutti appaiono coinvolti nel male e colpevoli.

Il protagonista pagherà un doloroso prezzo per l’impegno profuso: ne andranno di mezzo sia la sua relazione con Marlene (Friedericke Becht), una ragazza bruna bella e laboriosa, ma figlia di un…nostalgico, la quale non capisce lo zelo adamantino del suo innamorato; sia, per un certo periodo di tempo, il suo equilibrio psicofisico. Egli infatti, da una parte, matura un’autentica ossessione per Josef Mengele, al punto di trascurare il primitivo filone di indagini in favore dell’illusoria pretesa di catturare il criminale nazista in occasione di certi suoi ritorni clandestini in patria (nella città natale di Günzburg in Baviera), d’altra parte prende coscienza pure della propria personale realtà; suo padre non era affatto il coraggioso oppositore al regime che aveva sempre creduto fosse. La madre gli sbatte in faccia la verità in occasione di un loro burrascoso colloquio, allorché la donna, dato per morto il marito disperso da anni, comunica al figlio l’intenzione di risposarsi, con un uomo legato ai…tempi passati.

Notevole operazione culturale svolge Giulio Ricciarelli, regista italiano trapiantato in Germania, con il film Il Labirinto del Silenzio, che ho avuto il piacere di vedere in lingua originale, sottotitoli in italiano; nelle nostre sale dal 14 gennaio.

Di notevole impatto l’ascolto in tedesco, lingua bellissima e armoniosa, che, nel subconscio, associamo ancora a duri ordini militari -o peggio-; mentre nel nostro contesto è al servizio della Giustizia.

La pellicola è stata presentata in anteprima al Toronto International Film Festival  e selezionata per rappresentare la Germania ai Premi Oscar 2016 per il miglior film straniero, entrando nella cosiddetta short list.

Essa focalizza l’attenzione su un periodo trascurato della storia tedesca: i dieci/quindici anni dopo la fine del conflitto, caratterizzati all’inizio dalla grande rimozione, sostituita via via dalla presa di coscienza di ciò che è stato. Nella narrativa di Ricciarelli si intrecciano personaggi reali -come il giornalista Gnielka e il procuratore Bauer (quest’ultimo scopriremo essere ebreo, ansioso che sia fatta giustizia)- e di finzione -Radmann è “costituito” da tre procuratori davvero esistiti-, componendo un film dossier avvincente, dal ritmo serrato dove i personaggi principali compulsano ex gerarchi gonfi nella loro sicumera, mettono in crisi subordinati che si trincerano dietro la tassatività degli ordini ricevuti, interpellano le vittime, sulle prime timorose di evocare tanto orrore.

Il silenzio dei sopravvissuti, di cui Simon è l’emblema, comincia a sciogliersi. A tale proposito commoventi le scene in cui essi parlano delle loro tremende esperienze: primi piani con l’unica voce costituita da un canto ebraico sullo sfondo e, nelle successive inquadrature, l’effetto di quelle parole nel cuore di coloro che ascoltano.

L’imponente lavoro svolto porterà alla formazione del processo di Francoforte. Iniziato nel 1963, cioè due anni dopo quello Eichmann a Gerusalemme -e quasi venti dal più celebre di Norimberga-, porterà alla sbarra ventidue criminali nazisti, tra i quali solo due saranno condannati all’ergastolo. Si tratta tuttavia di un momento cruciale nella recente storia della Germania; il cosiddetto “secondo processo di Auschwitz”, intentato contro persone che potremmo definire comuni, apre una pagina nella sensibilizzazione della magistratura -all’inizio sorda ed insensibile- e dell’opinione pubblica sul tema della colpa e delle responsabilità dei tedeschi nell’epoca nazista e, in specie, durante il conflitto.

Una ferita profonda che si riapre. O non si tratta piuttosto di una vera presa di coscienza, simboleggiata dal rito di riparazione, culminante nel Kaddish che Johann e Thomas recitano, in memoria delle gemelline di Simon, lungo il perimetro spinato di Auschwitz?