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FERRARA: 26 aprile / 1 maggio 2014

 
“…il mondo culturale italiano può trarne vigore recependo dalla vitalità ebraica spunti di riflessione e originalità. Come? Agli Ebrei manca un principio unico di autorità, cosa che da sempre facilita la discussione, anche accesa” Riccardo Calimani -scrittore e studioso di Ebraismo italiano- Presidente della Fondazione MEIS
Si rinnova a Ferrara l’appuntamento con la Festa del Libro Ebraico in Italia, giunta nel 2014 alla quinta edizione.
L’iniziativa, che richiama ogni anno un numero sempre crescente di appassionati, studiosi, case editrici, artisti delle più diverse discipline, è nata nel 2010 grazie alla Fondazione MEIS (Museo nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah, istituito nella città estense in base alla L. 17 aprile 2003, n. 91 -modificata dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296- con l’intento di valorizzare l’eccezionale continuità della ultra bimillenaria presenza ebraica in Italia), con il supporto di Ferrara Fiere Congressi e il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo -particolare simpatico: l’attuale titolare del dicastero, Dario Franceschini, è ferrarese-, della Regione Emilia Romagna, della Provincia e del Comune di Ferrara, delle locali Università degli Studi e Comunità Ebraica, nonché dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Il significato della Festa è rivelato dal suo logo, frutto di un’idea davvero ingegnosa: una Menorah, il candelabro a sette braccia che si trovava nel Tempio di Gerusalemme fino alla distruzione di questo ad opera dei Romani nel 70 e.v., trasformato in un libro aperto dove ogni gruppo di pagine sorregge una fiammella.
Com’è spiegato dagli organizzatori, si tratta di un forte momento di condivisione della cultura ebraica italiana grazie al racconto di questa minoranza che, da sempre legata tramite un rapporto indissolubile -talora fecondo, talora conflittuale e drammatico- al resto del Paese, ne continua ad animare la vita culturale, sociale, economica.
Ad aprire la manifestazione, la sera del 26 aprile: La Notte bianca ebraica d’Italia: E fu Sera e fu Mattina, presso il Chiostro di S. Paolo, con concerto, spettacolo teatrale, passeggiata nei luoghi della città più significativi per la tradizione ebraica e assaggio finale di specialità kasher.
E’ la prima volta che partecipo alla Festa -purtroppo posso trattenermi solo domenica 27- e confesso di provare una certa emozione.
Scorro il programma di questi sei giorni, che si articola ricchissimo e di alto profilo
Mi piace il termine gioioso adottato sin da subito: “Festa”, anziché l’ormai scontato “Festival”.
Al centro di tutto, i Libri. Come sottolinea Luciano Meir Caro, Rabbino capo della Comunità di Ferrara, il loro valore sta nella capacità di creare uno spazio di riflessione e collegamento tra passato, presente e futuro; “un intreccio tra piani temporali che, nello specifico, risulta strumento fondamentale per raccontare la plurimillenaria esperienza ebraica”.
Tra conversazioni e incontri con gli Autori saranno presentate circa 30 opere e alla libreria tematica della Festa (il principale punto di aggregazione è il Chiostro rinascimentale della Chiesa di S. Paolo, detta il pantheon cittadino, perché ospita le sepolture di illustri uomini di cultura ferraresi), aperta al pubblico fino a mezzanotte, troveremo oltre 5000 testi di scrittori ebrei o su temi della tradizione ebraica, pubblicati da 150 case editrici. Opere fresche di stampa insieme ad altre difficili da trovare, senza dimenticare quelle uscite in concomitanza con la Festa stessa, come gli atti del Convegno Internazionale di Studi, tenutosi qui il 3 e 4 ottobre 2013, Ebrei a Ferrara, Ebrei di Ferrara, a cura dell’editore Giuntina.
Sono in programma tanti significativi momenti di incontro.
Vediamone solo alcuni: tra tavole rotonde, concerti, spettacoli teatrali -anche per bambini-, proiezioni cinematografiche, un convegno, degustazioni, visite guidate; e , va da sé, un premio letterario, di cui parlerò appresso, nella mia…giornata ferrarese. [1]
- In concomitanza di Yom Ha Shoah (28 aprile): Tavola rotonda, domenica 27, sul tema: Yom Ha Shoah: il dopo Shoah, a cura di illustri storici, come Luca Alessandrini (Direttore dell’Istituto Parri di Bologna), Marcello Pezzetti (Direttore Scientifico del Museo della Shoah di Roma) e lo stesso Rav. Caro, coordinati da Anna Quarzi (Presidente ISCO, Istituto di Storia Contemporanea, Ferrara).
- Numerosi, come detto, gl’incontri con l’Autore: da Lizzie Doron, a Gioele Dix; a Donatella Di Cesare, Piero Dorfles, Haim Baharier, Giorgio Sacerdoti, Mario Luzzatto Fegiz, Valentina Pisanty, Corrado Israel De Benedetti -ferrarese; di lui conservo un ricordo indelebile, allorché lo incontrai nel 2010 presso kibbutz di Ruhama nel sud di Israele, dove vive- ed altri ancora.
- Il Convegno, in due giornate (28 e 29 aprile), dal titolo: Conversos, Marrani e Nuove Comunità Ebraiche nella Prima Età Moderna, con la presenza di studiosi italiani, spagnoli e portoghesi. “Il marrano” riflette Riccardo Calimani “è una metafora della complessità contemporanea. Nella società moderna la storia di quel gruppo può essere la chiave per far capire meglio le sfaccettature delle identità, che spesso travalicano i confini delle nazioni, delle culture”.
Gli Ebrei, cacciati dalla penisola iberica, si riversarono in tutti i porti del Mediterraneo e del Nord Europa, ma pure nelle nuove colonie spagnole e portoghesi d’oltremare.
Tra i numerosi temi: l’espulsione degli Ebrei dal Sud Italia, poco conosciuta dal punto di vista sia storico, che religioso, che musicale; la, in apparenza sorprendente, “matrice” portoghese della Comunità ebraica di Londra.
- Il solido rapporto tra Medicina e Cultura Ebraica è dibattuto il 30 aprile nell’incontro a più voci: I Medici Ebrei e la Cultura ebraica a Ferrara.
- Il ricordo di due indimenticati personaggi: Arnoldo Foà, ferrarese, il grande attore amatissimo dal pubblico teatrale e televisivo, scomparso di recente (in collaborazione con la Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, il 29 aprile) e Helena Rubinstein – La donna che inventò la bellezza (1 maggio), con la partecipazione della scrittrice francese Michèle Fitoussi.
- Ogni giorno, dalle 12.30 alle 19.00, gl’interessati possono sperimentare i Sapori di un aperitivo ebraico-ferrarese e assistere alla presentazione di saggi sulla cucina tradizionale kasher.
- A cadenza fissa le visite guidate nei significativi luoghi della comunità ebraica locale, parte integrante di quella cittadina: le piazze, le strade, l’antico Ghetto (le vie silenziose…) fino al MEIS, in Via Piangipane 81 (allo “stato dell’arte” di quest’ultimo è dedicato, la mattina del 27, un incontro ad hoc col Presidente Calimani, il Sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani, e il Direttore Regionale per i Beni culturali e paesaggistici, Carla Di Francesco [2]), o il Cimitero ebraico di Via delle Vigne, dove riposano, tra gli altri, illustri personaggi. Non manca l’excursus in un luogo vicino e di notevole pregio, anche per quanto concerne la nostra Festa: Cento, luogo d’origine di note famiglie, come i Padoa e i Carpi.
- La Musica occupa un posto di primo piano: Canti e Musiche della tradizione ashkenazita, nel Concerto degli allievi del conservatorio “G. Frescobaldi”, la sera dell’inaugurazione; il reading concerto per ragazzi e adulti (dai 7 anni in su) ispirato a La fisarmonica di Mendel -libretto a quattro mani piacevolissimo, opera di Johanna van der Sterre (illustrazioni) e Heidi Smith Hyde (testo)- [3] con Enrico Fink, Gabriele Coen e altri (27 aprile); Miriam Meghnagi e il suo concerto di Melodie Sefardite (29 aprile) e la Giornata Internazionale del Jazz (30 aprile) con la proiezione del video messaggio inviato per la circostanza dal celebre pianista Herbie Hancock.
La serata di apertura ospita uno spettacolo teatrale di eccezionale interesse: un Grembo, due Nazioni, molte Anime: Parole e Musiche degli Ebrei d’Italia: il titolo trae ispirazione dal racconto della Genesi, allorché Rebecca, moglie di Isacco, incinta di Esau e e Giacobbe, sentendo i feti urtarsi nel suo grembo, va a lamentarsene con D-o. Questi le risponde: “Nel tuo ventre si trovano due popoli, da te si dipartiranno due nazioni”. L’interpretazione midrashica identifica Esau con Roma (cioè i “gentili”) e Giacobbe con Israele. Il testo biblico ci dice: il popolo di Israele e Roma si combattono da sempre, ma sono nati dalla stessa madre, sono incastrati l’uno nell’altro, alla stregua di due figli che si contendono un utero, ma che giocoforza lo abitano insieme. Da questa e da altre proposte nasce lo spettacolo. Le “molte anime” sono gl’infiniti modi in cui gli Ebrei italiani hanno nei secoli declinato questa loro italianità permeata di ebraismo e viceversa. Una suggestione valida, mi permetto di suggerire, anche per contesti più lontani: sarebbe sufficiente che l’altra parte accettasse questa convivenza nei fatti, a prescindere dagli annunci furbi, clamorosi, interessati, volti a carpire la fede, più o meno buona, degli amanti della pace “qui ed ora” e ad ogni costo; e rinunciando a falsificare la Storia.
L’idea nasce da due giovani artisti ricchi di talento: Manuel Buda e Miriam Camerini.
Lei, che vive a Milano, è nata a Gerusalemme la sera di Purim, la festa gioiosa che si celebra con allegria mettendosi in maschera ed allestendo spettacoli. Il teatro era quindi nel suo destino (il suo curriculum vitae è davvero fantastico!): regista e interprete, ama in modo particolare la tradizione ebraica ashkenazita e di lingua tedesca. Miriam è omonima, e nipote ex fratre, della mia cara amica e compagna di scuola, che vive da oltre un quarantennio in Israele.
All’interno del Gioiello/Festa un altro Gioiello: la Mostra (presso il Meis, dal 27 aprile al 27 luglio) Vita, Colore, Fiabe. Il mondo ebraico di Emanuele Luzzati. Di “Lele” vengono esposte diverse opere, tra illustrazioni originali, bozzetti, tavole, teatrini dipinti a mano, ceramiche, fotografie, provenienti dall’archivio del Museo Luzzati di Genova. Curata da Sergio Noberini e Michela Zanon, l’esposizione esalta il tono per così dire fiabesco del tratto luzzatiano nel rappresentare i momenti più importanti della vita ebraica (matrimoni, feste, ecc.); tratto che rinveniamo in pieno nella sua produzione di spettacoli teatrali. Un appuntamento da non mancare!
Mi soffermo in breve sui due eventi cui ho partecipato domenica, ripromettendomi, l’anno prossimo, di non mancare le tante evocative occasioni che si presenteranno.
 
PREMIO DI CULTURA EBRAICA “PARDES”
Il Meis ha istituito questo riconoscimento, giunto quest’anno alla terza edizione, per valorizzare e diffondere la conoscenza della cultura e tradizione ebraica in Italia ed Europa.
Il termine Pardes, usato dal Talmud (פרדס), nella lingua ebraica ha il significato di Frutteto; è inoltre un acronimo: le consonanti della parola stanno per peshat (che deriva dalla parola “semplice” ed ha il significato di letterale), remez, ovvero allegorico, drash, che significa omiletico e sod, esoterico. Questi termini definiscono nella tradizione i quattro livelli di interpretazione della Torah.  Così spiega Riccardo Calimani, dopo che ci siamo seduti all’aperto, nel cortile del Chiostro di San Paolo affrontando un cielo che promette tempesta. “Presidente, possiamo fidarci?” gli domando un po’ dubbiosa. Mi risponde col sorriso del suo sguardo azzurro.
Spetta a Daria Gorodiski, la brava giornalista del Corriere della Sera, tracciare un breve profilo dei premiati, tutte figure ben note, anche al di fuori del mondo ebraico, non senza aver prima ricordato quanto per gli Ebrei -questa piccola minoranza di cui si è sempre parlato tanto!- la Cultura sia fondamentale e quale importante battaglia essi abbiano combattuto, da tempo immemorabile (e combattano tuttora, aggiungo), per la Conoscenza.
Lizzie Doron, Premio alla Letteratura, Scrittrice, Tel Aviv
Gioele Dix, Premio alla Saggistica, Attore, Milano
Enrico Mentana, Premio alla Carriera, Direttore di TG La 7, Roma
Dopo poco più di tre anni rivedo con piacere Lizzie Doron, ora in Italia perché impegnata in una serie di presentazioni del suo ultimo romanzo, appena edito da Giuntina, L’inizio di qualcosa di bello.
Il sorriso sbarazzino ad illuminare il volto incorniciato da una massa di riccioli biondi ribelli, piumino bianco e un corto abito nero, ella racconta, nella lingua materna ricca di armonia e suggestione, una vicenda occorsale, legata a Yom Ha Shoah.
Come sappiamo, quel giorno, alle10.00 del mattino, tutto Israele si ferma per due minuti e, in piedi e in silenzio assoluto, ricorda i Sei Milioni di Ebrei trucidati dai nazisti. Alcuni anni fa, poco dopo l’uscita del suo primo libro, proprio quel giorno e in quel momento, il telefono di casa Doron squillò. Fatto incredibile: e chi ha l’idea pazza di telefonare durante un istante così solenne????? Dall’altro capo del filo, una voce femminile. L’interlocutrice non rivela il proprio nome, ma dichiara di essere una sopravvissuta della Shoah, sola al mondo. “Voglio stare in piedi con Te!” le annuncia. La scrittrice acconsente e, ogni anno, l’appuntamento si rinnova.
Fino al 2013, quando il telefono non ha squillato. “E io” dice Lizzie “sono rimasta in piedi da sola”. “Ecco” conclude poi “ogni volta che guarderò questo premio che mi viene assegnato, penserò a quella donna sconosciuta e a tutte le persone anonime alle quali, con i miei romanzi, cerco di dare un volto”.
Due bellissimi occhi verdi e una voce suggestiva educata in tanti anni di palcoscenico, Gioele Dix, ricorda Daria Gorodiski, ha fatto parte, da ragazzo, dello Hashomer Hatzair, l’organizzazione scoutistica sionista. L’Ebraismo di Gioele -il quale, in realtà, si chiama David Ottolenghi- è di tipo, per così dire, laico, pur restando egli molto attaccato alle proprie radici familiari e culturali.
Confida di essere molto legato a Ferrara e, in specie, al suo Teatro: “Se respiri la sua polvere, senti lo Spirito”.
E’ alla Festa per presentare il suo libro / testimonianza, uscito da poco con Mondadori, Quando tutto questo sarà finito (pp. 156, €. 16,50). In esso racconta la storia della sua famiglia, dal 1938 al 1945: le leggi razziali, le umiliazioni, la fuga in Svizzera, il ritorno in Patria e un drammatico “patto del silenzio”. Ci fa conoscere suo nonno Maurizio e suo padre Vittorio, ebrei milanesi, costretti a fuggire dopo l’8 settembre 1943, scampando per un miracolo (“…qualcuno li aiutò”) alla deportazione. Il saggio è scritto, “dopo tanta attesa e tanti dubbi”, in prima persona: l’A. immagina di essere il proprio padre, bambino decenne che subisce le conseguenze di leggi assurde, come il non poter più frequentare la scuola insieme agli altri ragazzi, per esempio. E le angherie quotidiane, i divieti senza senso, talvolta elusi da coloro che fornirono un sostegno a proprio rischio.
Confida al pubblico che i suoi congiunti non avevano mai parlato in modo completo di quel periodo; alcuni particolari ogni tanto emergevano, ma sempre slegati gli uni dagli altri. Finché un giorno, alcuni anni fa, padre e figlio hanno avuto una lunga chiacchierata e si sono pure recati in Svizzera, dove iniziò l’esilio degli Ottolenghi, non certo beato. Storia dolorosissima -un fratello minore di Vittorio si ammalerà e morirà, ritornato a Milano-, di una famiglia di persone “orgogliose di essere italiane ed ebree”, raccontata in modo semplice, scarno come si conviene ad un ragazzino, il quale intuisce che la propria vita è sconvolta per sempre. Le paure, le speranze, le delusioni cocenti.
Gioele ha l’onestà umana e culturale di rivelarci che il nonno fu tra i primi ad iscriversi al partito fascista. Ma fu disgustato dallo squadrismo e, quando furono promulgate le leggi razziste, il dolore fu ancora più forte. “Avrei potuto non scriverlo…ma intendevo raccontare la verità”: il tradimento, nel caso del nonno, fu ancora più bruciante.
Una piccola storia che può aiutare a comprendere la Grande Storia; per questo, alla sua consueta tournée teatrale, egli sta per ne abbinarne una nelle scuole. Immagino che riscuoterà maggior successo con gli studenti di tanti docenti freddi e prevedibili.
Per la redazione del libro l’Attore è stato di supporto allo Scrittore: infatti non è stato facile immaginare i pensieri del piccolo protagonista e rendere viva e credibile la sua figura. Il vero Vittorio ha molto apprezzato il lavoro del figlio, emozionandosi anche un po’. Ma, sia chiaro, senza indulgere in patetismi o compiacimenti.
Ha 85 anni e svolge tuttora la professione di avvocato.
“Ho una mamma ebrea, ma sono battezzato. Il mio è una sorta di ebraismo dualistico.
Tuttavia mi ritengo molto più ebreo di tanti ebrei che ho conosciuto”.
Enrico Mentana ha il consueto tono ironico e smitizzante, che ti induce a riflettere.
Confesso che, non di rado, mi sono trovata in disaccordo con lui sul tema che divide per eccellenza, Israele; ma ho sempre apprezzato la franchezza che gli è caratteristica, la capacità di esprimersi senza infingimenti, né timore di urtare altrui suscettibilità. Il suo prendere una posizione, magari condivisibile, dalla sottoscritta, solo in parte, o magari per niente, ma espressa da chi se ne assume in pieno la responsabilità.
Rivela che i figli sanno che, tra un trasloco e l’altro, c’è una cosa che egli porta sempre con sé: il diario della nonna materna, scritto quando era costretta a nascondersi e a dormire nei fienili per sfuggire ai rastrellamenti.
Affronta un argomento difficilissimo e quanto mai scivoloso: il problema della Memoria, l’istituzionalizzazione della stessa, quella sorta di coazione a ricordare nella quale trova che s’incrocino “troppo spesso nemici degli Ebrei ed Ebrei che non vogliono voltare pagina”.
La Shoah è stato un enorme dramma del Novecento, che non va certo negato o sminuito, ma “la mia speranza” afferma con forza “è che lo straordinario filone culturale dell’Ebraismo possa trovare la propria identità in qualcosa di diverso da quella cesura terribile e dalla millenaria storia dell’ebreo errante”.
Sono le tematiche affrontate, pur con una diversa modulazione, da Elena Loewenthal sia nel suo ultimo saggio, dal titolo volutamente provocatorio (ma lei se lo può permettere), Contro il giorno della memoria, uscito quest’anno in prossimità del 27 Gennaio, sia nel bellissimo romanzo, pubblicato tempo fa, Conta le stelle, se puoi [4] , nel quale invita i lettori all’incontro con una storia nella quale utilizzando, per un verso, dati, nomi e luoghi tratti dal passato vero, ella sviluppa una vicenda ”come se non fosse successo quello che è successo”.
Poiché, scrive, “la Shoah non sta dentro, sta fuori dalla nostra storia. E’ silenzio di morte, invece che vita e parole”. Elena ha narrato la Storia non senza i morti, ma, in qualche modo, insieme con loro; ha messo cioè la vita al centro, dove la morte ha cancellato ogni cosa.
Enrico invita i presenti a conoscere la vastissima cultura ebraica, una realtà davvero sublime, dalla quale tutti traggono insegnamenti. E fa un significativo gesto con la mano verso le volte del Chiostro dove i mille e mille libri ivi presenti sono desiderosi di essere esaminati, presi, amati.
E ne dà l’esempio lui stesso. Poco dopo infatti, stimolato da Shulim Vogelmann, che gli illustra alcuni preziosi frutti di Giuntina, lo vedo compulsare con avidità e prendersi sottobraccio 1948 di Yoram Kaniuk e L’angoscia di Re Salomone di Romain Gary (del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita) [5] .
INCONTRO CON L’AUTORE
Piove a dirotto. Inevitabile conseguenza del fatto che, poco prima, ho visto Riccardo Calimani allontanarsi da qui.
Incontriamo il nostro Autore, o meglio la nostra Autrice, Lizzie Doron, nella “Sala della Musica” -posta all’interno del complesso di S. Paolo-, un luogo restaurato con elegante sobrietà.
E’ sempre affettuosa e solare, la mia “scrittrice per caso”, che poi tanto per caso non è, visto che quello appena uscito è suo il quinto libro (quarto, per l’esattezza, se consideriamo l’ordine cronologico di pubblicazione in Patria)!
Chiacchiera in ebraico e in inglese con un paio di giornalisti amici; mette dedica e firma sulla copia del romanzo che le porgo, sorride quando le confesso che, a volte, nel leggere le sue pagine, quasi quasi mi verrebbe da piangere, ma basta che, da quelle righe, balzi un irresistibile motto di spirito che il mio cuore si allarga.
Abbraccia un’amica italiana, accompagnata dal proprio cane, una simpatica labrador nera di nome Dinka (come la golden retriever, deuteragonista a quattro zampe in Qualcuno con cui correre di David Grossman).
Addenta con una disinvoltura niente affatto studiata un panino imbottito e fa il gesto di offrirne la suo interlocutore (ed editore) Shulim Vogelmann, che si schermisce e ride.
Ci sediamo. La nostra iniziativa suscita la curiosità di un piccione, il quale, entrato dalla finestra, atterra sul tavolo attorno al quale i due ospiti sono seduti. “Welcome!” lo saluta Lizzie. Il pennuto si dichiara soddisfatto dell’attenzione ricevuta e se ne va.
Shulim racconta di Bitzaron (in ebraico: Fortezza), il quartiere a sud di Tel Aviv, dove la scrittrice è cresciuta e dove ha ambientato i suoi intensi romanzi, al centro dei quali è la drammatica figura della madre, Helena. Piccole palazzine biancastre a due piani: all’interno, due stanze e un salotto; davanti, un giardino. Dopo la fondazione dello Stato di Israele detto quartiere diviene luogo abitato da sopravvissuti della Shoah, nel quale essi vivono assieme, parlano lo yiddish, anziché l’ebraico, ricordano ciò che hanno passato; una sorta di…piccolo ghetto, insomma, dove i figli sono iperprotetti da genitori, i quali magari avevano, negli anni della Tragedia, perduto la famiglia precedente e altri figli.
Di quei ragazzi, alcuni -sette, per l’esattezza- cadranno nei primi tragici giorni della guerra di Yom Kippur (1973). Un altro trauma terribile per la piccola comunità, un dolore per Lizzie: erano suoi amici, con i quali aveva sognato un futuro diverso, da israeliani; invincibili, tra l’altro, come era sembrato dopo la vittoria esaltante del giugno 1967.
Nell’ultimo libro appena uscito, L’inizio di qualcosa di bello la componente biografica pare lasciar spazio al romanzo.
L’Autrice, in grado di stupire ad ogni occasione, ci narra una vicenda incredibile occorsale e il racconto orale si integra col libro; o meglio fa da supporto ad esso.
Tutto nasce dall’incontro, qualche tempo fa, con uno strano personaggio.
Un uomo di circa quarant’anni, alto, prestante, un’enorme Stella di David sul petto, zaino, proveniente da Parigi (anzi, a suo dire, collegato col Direttore del locale Museo Ebraico), qualificatosi come appassionato lettore delle sue opere, giunge a casa Doron, previa telefonata di solo due giorni prima. Egli si presenta come capo di un movimento diretto a portare (o riportare) gli Israeliani in Europa. Dichiara che Israele non ha più ragion d’essere, che Hitler non può assolutamente averla vinta!
Aggiunge che la propria madre e quella della scrittrice erano originarie del medesimo paese in Polonia, distrutto dai nazisti, certo, ma che ora è in via di ricostruzione.
Tanto per alleggerire…la situazione, l’uomo (di nome Hezi) ha portato con sé alcune lapidi provenienti dal cimitero di detto paese ed ha la buona pensata di lasciarle nel salotto di Lizzie, suscitando spavento e prevedibile ostilità nei familiari.
Una sorta di…sionismo a rovescio quello di Hezi, in cui egli pronuncia il tradizionale augurio sì, ma a modo suo: “L’anno prossimo in [……] Polonia”, anziché a Gerusalemme e intona una Hatikvah nella quale la Speranza è quella di essere liberi nei luoghi d’Europa  in cui gli Ebrei avevano tanto sofferto.
Il titolo del romanzo, che, viste le premesse, mi appresto a leggere con particolare curiosità, è tratto da un’espressione dell’instancabile Hezi, il quale vede nel proprio progetto L’inizio di qualcosa di bello.
Diversi israeliani intervengono agl’incontri promossi da questo insolito leader: una buona metà di essi se ne va subito scuotendo la testa; altri sono del parere che quel tizio strano debba essere portato ad una stazione di polizia; altri ancora chiedono alla padrona di casa che cos’ha intenzione di fare. E lei, pronta, risponde: “Scriverò un libro su questa faccenda!”
Ne segue una serie di episodi esilaranti, ai limiti dell’assurdo; ma con un profondo significato: è il tema del passato che ritorna, anche dopo tanto tempo, col suo grumo di problemi dolorosi e nodi irrisolti.
Ovvio che la nostra impagabile amica non ci rivela se l’incontro di cui ci ha parlato sia realmente avvenuto o se, più probabile, si tratti di pura invenzione letteraria. E non mi pare certo il caso di domandarglielo!
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Due anticipi per i lettori.
Il primo
In chiusura della Festa, Riccardo Calimani annuncia che essa andrà avanti finché non verrà aperto il Museo; “poi dovrà cambiare ‘pelle’ e diventare parte del ‘laboratorio di idee’ del Museo, dove convogliare le energie finora assorbite dalla Festa”.
  Vedremo.
                   Il secondo
 A settembre, l’Ebraismo tornerà ad essere protagonista nella città estense.
Ferrara sarà infatti Città capofila per l’Italia nella prossima GIORNATA EUROPEA DELLA CULTURA EBRAICA.
Il 14 Settembre in 30 Paesi europei centinaia di Comunità apriranno le loro porte per raccontare LA DONNA NELL’EBRAISMO.

 


[1] L’intero programma, con orari, luoghi e partecipanti, è consultabile su www.meisweb.it
[2] Con un bando del valore di 8 milioni di Euro la Direzione Regionale per i Beni culturali e paesaggistici manda in gara i lavori di recupero delle ex carceri di Ferrara da destinare a sede del Meis. L’intervento nasce da un concorso di progettazione promosso nell’aprile 2010 e vinto dallo Studio Arco di Bologna, insieme a Scape. La gara rimane aperta fino al 24 giugno (notizia attinta da il Sole 24 Ore del 23 aprile 2014). Il Ministro Franceschini, intervenuto all’apertura, ha rilevato come il progetto del Meis sia di eccezionale importanza, aggiungendo che “i fondi per il completamento del primo loto ci sono ed ora si tratta solo di procedere”.
[3] Ed. Giuntina, Firenze, 2013, pp. 32.
[4] Ed. Einaudi, Collana I coralli, Milano, Ottobre 2008, pp. 263; v. mia recensione su questo sito, maggio 2009
[5] V. mie recensioni, su questo sito, rispettivamente: Giugno 2012 e Maggio 2008.