Una gradita sorpresa, poco più di un mese fa.

Un simpatico signore residente a Rovereto, persona di cultura, Leonardo Franchini, dopo aver letto alcuni miei commenti su La Stamberga dei Lettori, mi ha mandato tre opere di un suo amico israeliano, di professione medico e scrittore per passione.


              L’amico si chiama Iddo Netanyahu, fratello minore di Yonatan (per tutti Yoni), l’eroico comandante dell’Operazione di Entebbe, Uganda, dell’estate 1976 (cosiddetta Operazione Thunderbolt, poi chiamata Operazione Yonatan, in memoria di lui), nonché dell’attuale Primo Ministro di Israele, Benjamin, detto Bibi.

Nato a Gerusalemme il 24 luglio 1952, figlio di Zila Segal (1912-2000) e di Benzion, illustre storico dell’Inquisizione (morto ultracentenario nell’aprile 2012), Iddo, dopo aver trascorso parte dell’infanzia e dell’adolescenza negli USA con la famiglia d’origine, è ritornato in Israele e ha combattuto nella guerra dello Yom Kippur dell’autunno 1973. Come i fratelli ha fatto parte dell’unità di élite Sayeret Matkal (Unità di Ricognizione dello Stato Maggiore, istituita nel 1957).

Attualmente vive con moglie e figli a Gerusalemme, dove alterna la professione di medico radiologo a quella di scrittore.

Ecco le opere donatemi.

La prima è Entebbe 1976. L’ultima battaglia di Yoni -titolo originale: YONI’S LAST BATTLE. The Rescue at Entebbe, 1976- (pp. 204) che ha visto la luce nel 2002, uscita in diversi Paesi del mondo e pubblicata in Italia nel 2009 con la Libreria Militare Editrice in Milano (pp. 204), grazie all’impegno dello stesso Franchini, che ne è pure traduttore nella nostra lingua.

Questi, in estrema sintesi, i fatti narrati. Il 27 giugno 1976 oltre duecento persone, israeliani e di altre nazionalità (tra i quali diversi Ebrei), passeggeri del volo Air France n. 139 Tel Aviv/Parigi, furono sequestrati, insieme ai dodici membri dell’equipaggio -comandante Michel Bacos compreso, il quale si rifiutò di abbandonare i suoi passeggeri-, e condotti all’aeroporto di Entebbe in Uganda, da un gruppo di terroristi (denominato Commando Settembre Nero) aderenti al Fronte Rivoluzionario Wadi’ a Haddad per la Liberazione della Palestina, ai quali si erano aggiunti due tedeschi delle Revolutionäre Zellen (piccola frazione di estrema sinistra). I terroristi chiedevano, in cambio del rilascio degli ostaggi, la liberazione di una quarantina di palestinesi detenuti in Israele e di altri tredici loro compagni richiusi nelle prigioni di Germania, Svizzera, Kenya e Francia.

Il successivo 4 luglio gli ostaggi furono liberati dalle Forze Speciali israeliane (comandate dal trentenne Yonatan Netanyhau, che nella circostanza perse la vita) in una delle operazioni militari più eclatanti e meglio riuscite degli annali militari; operazione che ebbe un’enorme risonanza in tutto il mondo perché dimostrò non solo la capacità di Israele di difendere ovunque i propri cittadini, ma pure mise in evidenza come, perfino a quattromila chilometri di distanza, non ci fosse scampo per chi aveva scelto la strada del terrorismo. Una spedizione arditissima, irti di rischi -dove ovviamente (come capita allorché c’è in gioco Israele) all’ammirazione, più o meno sincera, del mondo esterno si mescolarono le solite critiche occidentali all’insegna della pusillanimità-, compiuta in un pugno di giorni, da un piccolo gruppo di uomini mossi dalla volontà di non cedere al ricatto, di andare avanti, pur disponendo di scarse informazioni di intelligence. Ciò almeno all’inizio, prima che un gruppo di ostaggi liberati dai terroristi perché riconosciuti come non ebrei (!), fornissero preziosi dettagli sul sequestro.

Diversi anni dopo Iddo racconta la vicenda (che è stata oggetto di saggi ed ha avuto pure alcune felici versioni cinematografiche) per così dire, dal di dentro, con una ricostruzione in cui l’affetto e l’ammirazione per il fratello maggiore, al quale dedica toccanti immagini, non ostacolano, ma anzi agevolano, il rigore storico.

Di questo avvincente volume non dirò altro, per il momento; ma ne consiglio vivamente la lettura per l’emozione che suscita e per la capacità di riportarti a quelle giornate.

 

La seconda opera è Itamar K. (pp. 280); il romanzo della musica, ricco di spirito, sfiorato da una carezza di malinconia. Il libro, pubblicato in russo e in inglese, è stato tradotto in italiano da Veronica Franzon ed è uscito nel nostro Paese tre anni fa, in un’edizione privata a scopi promozionali.

 

 

“Il pianoforte è il simbolo della cultura occidentale…Uno strumento pesante, rozzo, il simbolo dell’espansione culturale -sottolineò Shmuel-. E’ come le case dei coloni ebrei…in confronto alle costruzioni naturali degli arabi, che sembrano sorgere da sole da questa terra scura, calda, fertile. Loro sono una sua continuazione, una sua parte imprescindibile…”

 

Il protagonista, Itamar Koler, è un giovane israeliano di ventotto anni (figlio di un suonatore di contrabbasso), cresciuto a Gerusalemme, già suonatore dilettante di violino, ora aspirante regista cinematografico. Dopo un soggiorno negli USA, è rientrato da qualche tempo in Patria e si è stabilito a Ramat Gan. Itamar dedica tutte le sue energie nella ricerca di un produttore per il suo film; il primo film del quale è pure sceneggiatore e nel quale crede fermamente.

Si tratta della storia di un cantante d’opera israeliano, morto anni prima, e da lui conosciuto di persona, Shaul Melamed, figura carismatica e fuori dei consueti schemi cari ai cosiddetti intellettuali: Shaul riteneva infatti che lo Stato di Israele, di fronte ai continui attacchi palestinesi, avesse tutto il diritto/dovere di difendersi….Ma è proprio questa posizione politicamente scorretta a far arricciare il naso a chi dovrebbe finanziare l’opera! Nel prosieguo del racconto assistiamo a vari tentativi, operati da questo o quel personaggio, per snaturare il carattere e le posizioni politiche di Melamed: il tutto espresso in una prosa ricca di paradossi e sarcasmo.

La sceneggiatura (“dallo strano e succinto titolo”, Lieder, cioè Canti) è quasi personificata, segue un suo percorso, passando da un (aspirante) sponsor all’altro. L’A. si (e ci) diverte nella descrizione ironica di tali figure, a cominciare da certo Kamanski, “famoso protettore degli artisti israeliani”, uomo astuto, il quale, dopo aver letto il testo (e averlo sottoposto al proprio consigliere segreto, un esperto talmudico), s’impegna a sostenere il progetto del nostro debuttante. Promesse da…marinaio.

Fin dalle prime pagine lo scrittore ci introduce nell’ambiente di Tel Aviv: la lunga spiaggia, ad esempio, dove lo sguardo di Itamar è catturato da una ragazza la quale, mentre è intenta a contemplare l’orizzonte marino, mangia dell’uva staccando con cura un acino dopo l’altro dal grappolo.

Nel suo incessante peregrinare da un produttore (o da un celebrato regista) all’altro il protagonista incontra Rita, una giovane donna, maggiore di lui di alcuni anni, studiosa di cinema, affascinante, assai capricciosa e spregiudicata. Ella è sposata con certo Gadi, avvocato; e va da sé che il rapporto fra i due coniugi è all’insegna della più totale, reciproca, libertà.

Tra lei ed Itamar, fin dal primo istante, s’instaura una stretta relazione, non solo amorosa: ella s’interessa al testo che sta tanto a cuore al suo innamorato, si prodiga in consigli; lo finanzia perfino nelle necessità quotidiane, approfittando della discreta posizione economica del marito. Di Rita il giovane ama la sincerità, in netto contrasto col tono paludato e l’argomentare astratto (che quindi non promette nulla di buono!) dei membri dell’“Accademia Nazionale per lo sviluppo delle produzioni eccellenti”, al giudizio dei quali, come sappiamo, Itamar deve sottoporre il testo per ottenere la tanto sospirata sovvenzione.

Altro personaggio femminile interessante è la fotografa Nurit, la quale non volge la propria attenzione agli esseri umani, bensì si concentra o su diverse parti del corpo, o su pezzi di città e monumenti mescolati ad arte l’uno con l’altro (“L’Empire Building aveva fagocitato la Torre Eiffel…”). Pure Nurit custodisce alcuni sogni nel cassetto: un’esposizione sulle…mani -senza ovviamente scomodarsi a rivelare a chi esse appartengano- e un film su un leader arabo del quale non ricorda nemmeno il nome di battaglia (Abu…?), ma che immagina entrare vittorioso nella sua (sic!) Gerusalemme!

La prosa di Netanyahu è piacevolissima, simile, a sua volta, ad una sceneggiatura cinematografica, dove l’A. se la spassa a ricostruire ambienti pseudo intellettuali in cui non mancano trasmissioni televisive con improbabili titoli, quali La brioche del mattino o Merenda, oppure La tazzina di caffè a mezzanotte.

Un atteggiamento indulgente e complice è riservato al protagonista: i suoi dubbi, le sue insicurezze -quel viso dai tratti fini, “tanto simili a caratteri femminili…era cosa della quale…era riuscito a farsi una ragione…non testimoniava forse una fragilità di carattere…..?”-, i suoi tormenti ben espressi nel racconto della causa a seguito della quale, anni addietro, aveva smesso di suonare il violino, pur restando legato all’universo della musica.

A Gerusalemme, in casa di Ben Zion Apelbaum, un suo vecchio “vicino di casa, che lo aveva preso sotto la sua ala fin da quando era bambino”, il nostro Itamar conosce la nipote di lui, Gila, studiosa di informatica, una ragazza che, cresciuta in un kibbutz laico, ha poi abbracciato l’ebraismo religioso. Ne è affascinato all’istante: “Malgrado il suo abbigliamento [modesto, come si conviene alle ebree religiose], o forse grazie a questo, Gila emanava una femminilità autentica, pura, che soggiogava il cuore”. Automatico il confronto con la spregiudicata Rita: anzi: “…..pensò che proprio lei [Gila] avrebbe potuto diventare la compagna di una vita…..Lo avrebbe aiutato per puro altruismo…L’amore che proveniva dal cuore di una donna simile era un sentimento puro. E quanto era razionale!” Si tratta peraltro di una fantasia di breve durata: il richiamo della sensuale Rita è troppo forte!

E che dire di Nimrod Berman, amico di Apelbaum, uomo di lettere cupo e depresso, incontrato poco dopo, il quale sostiene che Israele si eliminerà da sé, in forza di un proprio inesorabile, ma per nulla motivato da chi fa una così impegnativa dichiarazione, cupio dissolvi?

E c’imbattiamo nell’ironia feroce nel  ritratto del bibliotecario Shmuel Ganiel, che abita a Jaffa e non sopporta nemmeno il pensiero di recarsi oltre la cosiddetta “Linea Verde” poiché ha in orrore gli “insediamenti” -dove i “coloni con la kippah in testa seguitano a provocare conflitti…”-. E, per soprammercato, “da quando in qua il popolo ebraico ha bisogno di una terra?”

Non sfugge all’Autore il notevole potere manipolatorio della stampa (con il quale anche Itamar dovrà fare i conti), ma non mancano affettuose pennellate su Israele: “Se riesci ad astrarti da tutto ciò che succede intorno” afferma, ad esempio, Apelbaum “ la vita in Israele può anche essere piacevole…Dove lo trovi un clima così miracoloso…con un passaggio così dolce da una stagione all’altra…nei negozi di libri usati si possono comperare libri in tutte le lingue….E la gente? Con la gente è ancora possibile parlare…”

Impressioni che chi visita Israele con la mente e il cuore sgomberi dai soliti, ben consolidati, pregiudizi, non può fare a meno di condividere.

Il romanzo segue le vicissitudini del protagonista, persona sensibile e dotata, ma spesso ingenua e velleitaria. Il tono è talora sardonico, ma l’A. traccia un profilo dell’ambiente cinematografico, e culturale in genere, del suo Paese, in tono lieve, con un indulgente sorriso.

Una vicenda, nelle sue linee essenziali, eterna, quella narrata, che purtroppo accade e non di rado, in ambito culturale anzitutto: ad ogni angolo di strada puoi sempre trovare qualcuno pronto a scipparti, con ogni mezzo, una valida idea per spacciarla, ad insospettabili creduloni, come parto della propria fantasia e del proprio impegno. Magari mettendo in campo, per far meglio riuscire l’operazione, robuste…”maniglie”, volte ad avvalorare la fandonia; salvo poi menar scandalo ed accampare pretesti fumosi qualora tu ti permetta di denunciare e smontare il tentativo d’imbroglio ordito ai tuoi danni!

 

Di tono ed ambienti ben diversi è Un lieto fine (pp. 71), dramma in due atti scritto nel 2007.

La versione italiana, preceduta da un’illuminante prefazione di Cristina Pezzoli, è uscita nell’aprile 2008 con “Le Città di Thomas”, tradotta da Leonardo Franchini e rappresentata con successo di pubblico e critica nella Giornata della Memoria di quell’anno dalla “Compagnia dell’Attimo”.

Successivamente l’opera è stata prodotta in Germania, in Israele e negli USA. 

 

 

“Mark: ‘Ci sono tribunali, partiti, l’opinione pubblica. Viviamo in Germania, dopo tutto! Non posso sopportare l’idea di lasciare il paese che mi ha dato questi tesori di buona fortuna e di dedicare i miei talenti a qualche altro popolo che io non conosco da nessun punto di vista….Lavorare per gli americani? Perché, se non sono nemmeno una nazione!’ ”

 

La tragedia di un tradimento, quello consumato dalla Germania nei confronti degli Ebrei, è alla base della storia, dal titolo sarcastico, davvero emblematica perché ha riguardato tante persone, in quegli anni che ci sembrano lontani.

L’ambientazione: Berlino, tra l’inizio di novembre 1932 e metà febbraio 1933.

La scenografia, ci dice l’Autore, dev’essere minimale per permettere il passaggio da una scena all’altra con il semplice cambio di pochi accessori: un mobile, due seggiole, il bancone di un bar, un apparecchio radio. Lo spettatore non deve distrarsi e le scene si svolgono una via l’altra in rapida sequenza.

I personaggi. Mark Erdman, Professore di Fisica presso la locale Università, sulla cinquantina, occhiali, “aria professorale”; Leah Erdman, sua moglie, incantevole donna di circa quarant’anni; Dieter Spiegel, affascinante trentenne, assistente del Professore, tipo energico e convinto delle proprie affermazioni; Helen Ziebert, graziosa segretaria dell’Istituto in cui lavora il Professore; Hans Erdmann, figlio diciassettenne di Leah e Mark; Martha Hoffman, la ragazza di Hans; alcune figure di contorno.

Siamo alla vigilia della presa del potere da parte del partito nazista, guidato da Adolf Hitler; le persone più sensibili ed accorte si rendono sempre più conto quale pericolo rappresenti tutto ciò, anzitutto per gli Ebrei. Tale prospettiva è evidentissima a Dieter, il quale cerca in ogni modo di sensibilizzare Leah e Mark della situazione. La prima, all’inizio, pare indifferente a quanto accade intorno, presa com’è dalla sua relazione col bel Dieter -i due si amano, ma il legame è ancora a livello, per così dire, platonico-; è una donna inquieta, vorrebbe “far qualcosa per gli altri”, ma le manca chiarezza di idee. Intanto esalta la sua Berlino, città che ritiene non abbia eguali al mondo e dalla quale non si separerebbe mai.

Pure Mark sembra non rendersi conto della situazione che va incupendosi; non dà peso agli allarmi lanciati da Dieter, alla sua lucidità di analisi, spesso addirittura brutale. Anzi, il Professore contrappone alla faticosa opera di sensibilizzazione dell’Allievo argomenti all’apparenza razionali, in realtà assurdi, si arrampica in modo tragico sugli specchi, chiudendo sempre di più occhi, orecchi (finge di non sentire gl’insulti diretti contro di lui in quanto ebreo) e cervello. Addirittura, allorché il giovane gli fa notare quanto odio ruoti intorno agli Ebrei, lo dileggia e aggiunge: “Diventerò serio quando tu mi dirai dove noi non siamo odiati. Ma questo Paese ci ha dato tutto quello che volevamo e sognavamo. Io amo la Germania, Dieter…E sì, amo questa gente…sono parte di loro…” .

Ecco il nucleo della tragedia. Gli Ebrei, nel nostro caso tedeschi, si sentivano tanto parte del Paese da non vedere, all’inizio, e a non voler vedere dopo qualche tempo, la mostruosità inconcepibile che si stava preparando per loro. Nulla a che vedere con gli odi e le persecuzioni dei tempi passati, qualcosa di ontologicamente inimmaginabile, inedito, mi si passi il termine -salvo la “prova generale” del Genocidio Armeno, dimenticato in fretta e per lungo tempo-.

Le scene che fungono da sfondo al dramma si fanno sempre più inquietanti; come quando un trio esegue in un locale pubblico un brano di musica classica, ma  tace non appena la radio diffonde quella voce ormai divenuta inconfondibile.

Un ritratto della Berlino splendida e drammatica, così bene rappresentata dai dipinti di Georg Grosz, tutta luci e ombre; e personaggi paradossali.

All’orrore che pian piano prende corpo, si intrecciano la vicenda privata della relazione tra Leah e Dieter e il tenero affetto che lega i due coniugi al loro figlio, autentica promessa della poesia tedesca.

Ad un certo punto il Prof. Erdman, per far contento il giovane Spiegel (o forse perché per un attimo, un attimo soltanto, apre gli occhi ), chiede per lettera ospitalità all’Università di Princeton.

Riceve una risposta positiva, anzi entusiasta! Laggiù sono pronti ad accogliere a braccia aperte lo studioso che, nel frattempo, è stato cacciato dall’Istituto che egli stesso aveva fondato anni prima.

Ma…..l’amore per la propria città e il proprio Paese, unito ad un’illuministica quanto fallace fede nella bontà dell’uomo, ha il sopravvento; anche a costo di fabbricare l’illusione secondo la quale, una volta giunto al potere, Hitler non avrebbe certo realizzato i suoi decantati piani estremistici. E poi i nazisti sono gli unici in grado di mantenere l’ordine nel caos che regna sovrano!

Afferma  ad un certo punto Mark: “E’ apparentemente cambiato [Hitler]…Sarà il tempo a dire se è realmente così. Io credo…..che ci sia già stato il caso di uno che vomitava veleno contro di noi mentre stava cercando di arrivare al potere, soltanto per poi difenderci quando c’è riuscito. Uno dei re spagnoli del medioevo, credo”.

Il “lieto fine” è dunque scontato per questi Ebrei, parte integrante della società tedesca, certo illusi ed ingenui, ma, in un continente in preda ad un nazionalismo becero dilagante, gli unici europofili “che avevano dimestichezza con tutto il ventaglio di lingue del Vecchio Continente, che ne declamavano le poesie…che avevano cara la sua eredità….” Come scrive Amos Oz ricordando la figura dello zio paterno David, ucciso dai nazisti nel 1941 con moglie e figlioletto, l’unico della famiglia che non aveva voluto emigrare [1].

Una semplice riflessione: è vero che la Shoah ha spazzato via intere comunità ebraiche, ma è altrettanto vero che ha privato Paesi, come la Germania, di un preziosissimo patrimonio umano e culturale, costituito da medici, scienziati, scrittori, industriali, musicisti, comuni cittadini; cioè -per ritornare al nostro dramma- cittadini tedeschi.

Un appunto, oltre tre anni dopo, un seguito che fa piacere davvero.

Scambio di e mail, con Leonardo Franchini:

Grazie per la notizia! Ne sono davvero felice.

Cordialmente.

                                                                    Mara Marantonio

 

Da: Leonardo Franchini [mailto:leonardofranchini56@gmail.com] Inviato: venerdì 3 febbraio 2017 15:37 A: mara.1948@alice.it Oggetto: libro di Netanyahu

 

Gentile signora Mara,

 

ho il dovere ed il piacere di informarla che il libro “Itamar K.” di Iddo Netanyahu, ha trovato finalmente casa. Due o tre giorni prima di Natale 2016 è stato edito da Besa editrice di Nardò. Quasi subito è stato presentato alla fiera “Più libri più liberi” di Roma, dove a tenerlo a battesimo è stata Lia Levi.

Devo dire che a convincere l’editore pugliese è stata anche la accurata e positiva analisi da lei pubblicata già nel 2013.

Perciò, grazie di nuovo e cordiali saluti

Leonardo Franchini

 


[1] V. il mio commento a A. OZ, Una storia di amore e di tenebra, su questo sito (Settembre 2008).