(Titolo originale Aravì Tov; Kinneret Tel Aviv, 1983)

Trad. Elena Loewenthal, Ed. Giuntina, collana Israeliana, 2012, pp. 226, €.15,00
“Volevo separare il deserto bianco giallo da quello rosso, ricomporre la linea viola, verde o rossa”
Di notevole forza ed attualità è questo romanzo, scritto da Yoram Kaniuk nell’ormai lontano1983, pubblicato di recente da Giuntina , nella collana Israeliana.
Kaniuk, uno dei più illustri rappresentanti della letteratura di Israele [1], personalità dal carattere aspro, tormentato, dissacratorio, com’è aspro, tormentato e dissacratorio è l’amore per il suo Paese, ci fa partecipi di una vicenda eterna, non certo limitata al contrasto tra Ebrei ed Arabi, il dramma cioè che colpisce chiunque viva una doppia identità, si trovi sospeso tra due mondi, all’apparenza inconciliabili.
Un arabo buono richiama la prima parte di una frase dolorosissima che sovente ritorna tra le pagine: “Un arabo buono è un uomo morto”; e che ne può ricordare un’altra: “L’unico ebreo buono è quello morto” -pur essendo, la veridicità di quest’ultima espressione, messa alla prova dalla profanazione dei cimiteri ebraici in diverse località europee-.
Protagonista ed io narrante della vicenda è Yosef: Yosef Rosenzweig, dal cognome della madre ebrea, così si legge su un passaporto; ma anche Yosef Sherara, dal cognome della famiglia araba del padre, come risulta dal secondo documento d’identità.
Tutto è paradossale in lui. Nato a Parigi, vive a Haifa, ma ha nel cuore anche Akko, la cittadina araba posta a breve distanza. Pur con padre arabo, a suo tempo ha fatto il bar mitzvah, divenendo così a pieno titolo membro della comunità ebraica; ma non gli sarà consentito di svolgere il servizio militare, a causa di quell’altra metà di sé.
In una lunga complessa confessione Yosef, uomo dal sensibile temperamento artistico, rivive la propria sofferta storia, gli affetti, le amicizie, le rotture dolorose, sempre in bilico sul baratro della follia.
Follia che ghermisce due persone a lui care, con conseguenze irreparabili.
Kathe, la nonna materna, giunta in terra di Israele da Berlino nel 1936, col marito medico chirurgo Franz, ed Eva, la madre, eroina nella Guerra di Indipendenza del 1948, che aveva sposato l’arabo Azury, uomo bellissimo, di inebriante fascino e profonda cultura, scrittore, assai più anziano di lei, il quale, tempo addietro, aveva aiutato Franz e Kathe a salvarsi dall’incubo nazista.
Intreccio di passioni nel quale il lettore è inevitabilmente coinvolto. Come il legame d’amore (sia pure non confessato) tra Franz e Azury, tra Kathe e quest’ultimo (rimasto a livello platonico), o quello tormentato tra Eva e lo stesso Azury -figura che è, in un certo senso, il perno di tutta la storia-  o magari tra Yosef e l’ebrea Dina, imprescindibile presenza femminile della vita di lui.
La lettura ci suggerisce che il protagonista è più coinvolto e partecipe della storia ebraica, rispetto alle vicissitudini arabe, ma paradossalmente è proprio dagli Ebrei che egli viene respinto con maggior forza; come quando, recatosi a far visita alla famiglia di un amico ucciso in battaglia, Ghiora, è cacciato in malo modo dal padre dello stesso con motivazioni ingiuste, pur facilmente intuibili.
Leggiamo queste riflessioni: “Akko è in me e la Germania è in me e la terra di Israele e la Palestina e io sono dappertutto e in nessun posto. Mi trovo a Parigi, sto scrivendo una confessione”.
“….Tutti mi parlavano, Azury e Franz ed Eva, nessuno escluso, ero ebreo e sono ancora ebreo, scrivo con il loro dolore ma con dell’altro in aggiunta”. E quest’ “altro” pesa, D-o sa quanto….Una divisione che è una cicatrice profonda destinata a non scomparire, una ferita sempre aperta.
Mentre ci fa rivivere la storia dell’Europa e del Medio Oriente, Kaniuk scandaglia senza infingimenti le storie e le contraddizioni dei personaggi, simbolo della lotta di due popoli per la stessa terra, ma lo fa, per lo più, in modo intimo, personale, spesso duro, ma senza paraocchi ideologici. Un andirivieni tra passato e presente, come ci ha abituati con i suoi libri.
Il romanzo, ricco di suggestioni e colori, è un tassello rilevante nell’opera dell’Autore israeliano, anche se non tocca certo i vertici poetici di 1948, scritto circa un trentennio dopo, che ha il fascino del vissuto diretto, poiché scrittore ed io narrante coincidono.
L’unica illusoria via d’uscita per Yosef ebreo/arabo è dipingere, con il supporto di un amico pilota, il deserto di rosso. Come il sangue che simboleggia la storia intrecciata di Ebrei e Arabi.
Una storia destinata dunque ad essere per sempre tragica o forse, da questa realtà divisa, può nascere una, sia pur difficile, speranza?


[1] Per notizie sull’opera e la vita di Yoram Kaniuk vedi mio commento a 1948, su questo sito (Giugno 2012).