Ed. Rizzoli, Collana Saggi, Milano, Febbraio 2012, pp. 216,    €.18
“Il nemico sapeva benissimo che colpendo Gerusalemme e cercando di farne fuggire i cittadini avrebbe messo in scena la peggiore raffigurazione del lutto ebraico”     “Ma prima bisogna capire che la città non è pretestuosamente ebraica: lo è nell’anima”
Lo bekhi we-lo nehi” (Niente pianti e niente lamentazioni)
Un’amorosa conquista, “a piccoli passi”.
Così Fiamma Nirenstein ha fatto pian piano sua la Città contesa per eccellenza, Gerusalemme, il luogo del quale si parla sovente senza conoscerlo -né, men che mai, penetrarlo nel profondo con onestà culturale e umana-; lo si attraversa distratti, come una qualsiasi meta turistica, in una sorta di strana apnea tenendo ben ferme sul naso e nel cuore le lenti del pregiudizio.
Fiorentina doc nella parlata e nel ragionare schietti, giornalista attenta anzitutto al Medio Oriente [1], strenua -ed onestissima- sostenitrice delle ragioni dello Stato di Israele, alla diffusione delle quali dedica in prevalenza la sua attività di parlamentare presso la nostra (spesso) fuorviata pubblica opinione, Fiamma ci prende per mano in un cammino difficile, ma ricco di fascino.
Un cammino che parte da un giorno lontano allorché fu ricevuta per un’intervista da Teddy Kollek, il leggendario Sindaco della città, il politico, ungherese di nascita -chiamato Theodor in onore di Herzl, il padre del Sionismo-, il quale l’amministrò per ben ventotto anni (1965 / 1993) e ne fece, a seguito della riunificazione nel 1967, dopo l’abbattimento di muri e la distruzione di fili spinati -che alcuni in Occidente vorrebbero ripristinare-, una metropoli moderna, pur non ricca dal punto di vista materiale, aperta al mondo, a culture e a religioni diverse (finalmente! Questo non dev’essere dimenticato), orgogliosa e saldamente ancorata al proprio imprescindibile passato.
A Gerusalemme, uscito lo scorso inverno ed insignito, tra l’altro, del Premio  Montale Fuori di casa per il giornalismo di viaggio, conferito dalla città di Sarzana, è un libro che va assaporato, meditato. Se poi, come la sottoscritta, sei ritornata nella capitale d’Israele più volte e hai avuto, ad ogni occasione, nuovi incontri con persone e luoghi, è un gioco davvero intrigante confrontare la tua esperienza di visitatore temporaneo e “gentile”, con quella di chi, come l’Autrice, vi abita da -e per lungo- tempo ed ha riscoperto le proprie radici ebraiche percorrendo “quel lido fatale, fra le sue pietre e i suoi cedri, fra il Muro del Pianto e il Quartiere Tedesco”.
Conquista lenta di città, rocce e alberi, antico e moderno insieme, natura selvaggia e deserto; il passato che cede il posto al presente, e viceversa, senza soluzioni di continuità. Valli profonde, vestite di boschi e giardini, dove la sera è bellissimo perdersi, tra i profumi degli alberi, l’abbaiare lontano di un cane. Difficile incrociare qualcuno se non voci nel buio; ma basta che alzi lo sguardo ed ecco le Mura di Solimano illuminate d’oro. Tendi l’orecchio e odi il ronzio continuo del traffico veicolare e una sirena (ambulanza? Polizia?) sullo sfondo, a intervalli.
E’ vero, Gerusalemme “ti inebria e ti confonde”, scrive la nostra Autrice, fin dal momento in cui ne pronunci il nome. Dal punto di vista della grammatica si tratta di un duale, quasi a significare, come afferma la filosofa Donatella Di Cesare, che il Popolo Ebraico è sì un popolo come gli altri, ma è altresì qualcosa di più: è l’apertura verso l’Altro per eccellenza, verso l’Eternità dell’Unico. E tutto questo –lo ritengo comprensibile da qualunque persona di buona volontà, credente o no- lo respiri a Gerusalemme, dove quel “a”, posto come inizio del titolo al presente libro, significa, secondo me, sia uno “stare”, sia un progressivo “arrivare”, una sorta di aliyah mai interamente compiuta.
Fiamma ripercorre la “segreta bellezza” dei luoghi che pure io accarezzo durante i miei viaggi: la Città Vecchia e le diverse anime, fatte di carne e pietra, ricche di vicende, poesia, tensioni.
Le due grandi, splendide Moschee, edificate sulla Spianata dove sorgeva il Tempio ebraico distrutto dai Romani. Avvolte in un silenzio senza tempo.
La Chiesa del Santo Sepolcro, un puzzle lì per lì incomprensibile, che nulla par avere di mistico (almeno per me), ma che ti consente di guadagnarti, sia pure a fatica, un’isola di silenzio; magari nel piccolo, antichissimo monastero etiope posto…sul tetto.
Un luogo assai evocativo per la sensibilità cristiana è, concordo con l’Autrice, Ein Kerem, la Fonte della Vigna, appena fuori del centro città, legato a Maria, Elisabetta e Giovanni Battista, sito carico di misticismo, se ti allontani solo un poco dalla piazza principale dove arrivano i bus coi pellegrini.
La Sinagoga, già soprannominata Hurvah (Rudere), fatta saltare dai Giordani con l’intero quartiere nel 1948, rimessa in piedi due anni fa più bella di prima, ad attestare l’eterna presenza ebraica proprio qui, con rabbia degli antisemiti di ogni risma. Ora risplende di nuovo anche la sua vera intitolazione: a Rabbi Yehuda HeChassid (XVIII secolo), circondata dalla devozione dei fedeli e dalla cura di tanti giovani militari in divisa color verde. Sosti in quella piazzetta all’ombra degli alberi e ti compiaci del suo candido splendore rassicurante.
Il ventre, l’intimo della Città, cioè il Tunnel, l’antico passaggio sotterraneo che si estende lungo il perimetro occidentale del Monte del Tempio, una sorta di galleria sottostante un’antica strada davanti al Hakotel Hama’aravi, il “Muro occidentale”. Quel sentiero nascosto tra pietre millenarie è un luogo di preghiera e di riflessione: mi emozionai profondamente la prima volta e sarei felicissima di ritornarvi.
Le sette porte, ciascuna con una storia avventurosa; la Gerusalemme moderna, preferita da Fiamma (e pure da me); Moshavah Hagermanit, la “Colonia tedesca” fondata dai “Templari” nella seconda metà del 1800, assomigliante ad un “cestino di fiori”, ma oggetto di terribili attentati durante la seconda Intifadah. O Yemin Moshe, il primo quartiere degli Ebrei oltre le mura, il sogno di Sir Moses Montefiore, dove spicca il mulino che, di recente, ha ripreso a funzionare, dopo un sonno che durava dal 1876: la mia diletta meta al tramonto. O il grande mercato centrale di Makhaneh Yeudah, profumi e incredibili botteghe, ma macchiato del sangue di tanti innocenti comuni cittadini attardatisi a far la spesa, magari poco prima dell’entrata di Shabat. Il fascino della parte ebraica moderna -chiudi gli occhi, per favore, su certi “orrori architettonici da corte marziale”- mostra la crescita di questa città -un’area metropolitana vasta quanto quella di Parigi!-, tumultuosa nel suo balagan (cioè grande confusione; è ebraico e non dialetto bolognese, come si potrebbe pensare!) e talora disordinata, ma attesta il suo carattere, come detto, ebraico, in barba alla freddezza e ai distinguo occidentali, ai negazionismi di Arafat & c., nonché al mancato riconoscimento perfino da parte di quei leaders palestinesi che noi, europei anzitutto, ci intestardiamo a definire “moderati”.
“E’ Gerusalemme il cibo più nutriente, senza il quale gli Ebrei sarebbero morti da un millennio, spariti come tanti altri popoli antichi”.
La difficile convivenza con la parte araba. Il terrorismo e gli attentati; il silenzio di morte che, ad ogni scoppio, regna sovrano per una manciata di secondi, il rallentarsi dell’esistenza, come in certi film da Spielberg in poi….Ma qui siamo sul set della vita quotidiana. Fiamma ricostruisce tanti episodi, traccia ritratti umanissimi e, quasi attonita, si domanda la ragione, la causa profonda dell’isolamento di Gerusalemme e degli Ebrei, ad una manciata di decadi dalla Shoah e con lo spreco disgustoso, perché ipocrita, dell’espressione insincera “Never Again”, Mai Più. E ne scrive la risposta. Ma rileva come l’isolamento, certo non solo quello, funga da collante, sia una sorta di lievito per gli Ebrei a restare ben saldi nella loro eterna Città, forti di un legame carnale che le altre due fedi monoteiste non hanno; né hanno mai avuto.
C’è quello che Nirenstein chiama il “calore elettrico [che] ti attrae verso il tuo proprio nemico, vuoi tendere i palmi delle mani e scaldarti, finché la realtà prende il sopravvento. Si cerca il contatto, la cordialità…”. Invito a leggere senza pregiudizi le pagine, dal contenuto scomodo d’accordo, dedicate alla genesi del rifiuto arabo/palestinese e a diversi personaggi noti, introdotte dal ritratto di un defunto maggiorente cittadino, nipote del trucemente noto Gran Muftì, Feisal Husseini, il quale se non altro, in un’intervista rilasciata in Kuwait poco prima della misteriosa morte, ebbe la sincerità -verrebbe da definire “meritoria- di affermare ciò che, in bocca ad un occidentale, sarebbe suonata come una bestemmia, un’imperdonabile razzistica…lesa maestà: tutto il processo di pace, costituzione di uno Stato palestinese compresa, altro non era che un Troyan Horse (disse proprio così) per accaparrarsi ciò che era di altri, cioè tutto Israele. Soffermarsi con serenità sulla matrice nazista della leadership palestinese -e suscita una certa rabbia vedere la relativa bandiera ben esibita nelle celebrazioni del 25 aprile, mentre si contesta, o peggio, la presenza di quella bianco azzurra con la Stella di David della Brigata Ebraica, che combatté a fianco degli Alleati, liberando diverse città romagnole-, potrebbe, se solo lo si volesse, essere un’occasione per esercitare la virtù dell’onestà culturale. Ciò non significa però che da tutti i palestinesi promani lo stesso rifiuto, non così deciso almeno; ci sono infatti coloro che ritengono impossibile “cacciare gli Ebrei sul filo della spada”. Ma, come conseguenza di un lungo processo storico utile da ripercorrere, purtroppo il “tono” lo dà il fronte del NO; le sfumature, poi, si sa, sono numerose. Tanti sono peraltro gli amici palestinesi, come il giornalista Khaled Abu To’ameh o l’attivista per i diritti umani Bassam Eid; quest’ultimo ebbi il piacere di conoscerlo a Roma cinque anni fa, in occasione di un convegno sui dissidenti nei (e dai) Paesi islamici, organizzato proprio da Fiamma, l’instancabile. Evento di enorme rilievo politico, ma con attenzione mediatica ben inferiore a quanto avrebbe meritato. Troppo politicamente scorretto.
Le religioni: da una parte, D-o Padre degli Ebrei e dei Cristiani, dall’altra Allah il Misericordioso, l’Inavvicinabile, che esige sottomissione, imperscrutabile nel suo confonderti e confondersi in mille geometrie astratte.
Il percorso di A Gerusalemme si snoda secondo diverse tematiche, piccoli saggi interdipendenti, legati in modo intimo tra loro. Un libro di storia, che non ha nulla di distaccato, poiché è sofferto, vissuto. La scrittrice coniuga infatti le vicende della Città con la propria esperienza personale. Facciamo così amicizia con papà Aaron (detto Alberto), morto alcuni anni fa, polacco di nascita, nato in una famiglia “parecchio ‘epicurea’ ovvero….appassionata di cultura laica…”, illustre studioso della Shoah, che gli divorò diversi congiunti.
Aaron era un uomo bello anche da anziano, di intenso fascino, assomigliante all’attore Montgomery Clift (“….nello sguardo straniato e preoccupato”): andò giovanissimo a Gerusalemme “…vi abitò alla vigilia della guerra con un gruppo dell’Ha-shomer ha-Tza’ir, la Giovane Guardia socialista, e per vivere costruiva strade, mangiando quasi solo banane”.
C’è un’articolata rete di Nirenstein, residenti in Terra d’Israele, la migliore risposta al programma di morte hitleriano, come la cugina che porta l’emblematico nome di Nili, custode di tante memorie di casa.
E Benny, il figlio, amore e trepidazione materni (in pieno condivisi dalla mamma che scrive qui), specie nella stagione degli attentati: il telefonino acceso, fonte di sollievo e di ansia. Benny, Beniamino, ora trentenne, ha pubblicato sei anni fa un rilevante, corposo volume di studi strategici su Israele e la guerra al terrorismo [2].
Ofer è il marito, roccioso e sicuro di sé, figlio della fantastica Rachel -combattente nella Guerra del 1948-, gerosolimitano autentico, di famiglia e nascita, e per questo persona di pochissime parole. Che bello!
Anni fa gli parlai al telefono: cercavo Fiamma per un saluto ed egli, in quell’italiano gutturale che adoro, mi rispose sereno che lei era andata….a far ginnastica; potevo richiamare, se credevo, dopo un’ora circa. Il giorno precedente c’era stato un attentato spaventoso in città. Bene, pensai tra me e me, dopo averlo ringraziato e salutato, non mi resta che prenderne atto con umiltà: “queste persone” hanno cromosomi diversi dai miei. Per questo le amo tanto.
Andatevi a leggere le brevi righe del loro matrimonio, profumato di rosmarino e di mille essenze. Un sogno.
Ofer è, ed è stato, pure il veicolo attraverso il quale la “nostra” ha pian piano imparato la lingua ebraica, questa sorta di fenice senza la quale “un popolo così provato non potrebbe vivere”; e noi non potremmo leggere Oz, Yehoshua, Appelfeld, Grossman e tanti altri.
Gl’intellettuali ebrei israeliani, quelli del passato e quelli di oggi, alcuni notissimi, sono dipinti con affetto e un filo di ironia: “Salgono su un gradino esageratamente alto ogni volta che si parla di politica e di politici”. Me ne accorgo allorché i nostri quotidiani ospitano un loro articolo, centrato, inevitabilmente, sul conflitto con i Palestinesi; scritto, per lo più, all’insegna di un certo wishful thinking.
Le loro case, piccole, arredate in modo semplice, essenziale, zeppe di libri, come quella dei miei amici Anita e Hanan Olamy in Ramat Sharett.
Il viaggio d’amore termina in un luogo del destino, lo Yad Vashem, dove ogni volta è sempre la prima volta. C’è l’incontro mistico, e nello stesso tempo concreto, con un personaggio sul quale si focalizzò pure il mio sguardo nel 2009. La bimba con le treccine, la cui foto è posta insieme con quella di altri all’ingresso del corridoio dedicato al milione e passa di piccoli uccisi dai nazisti, mi ricordava qualcuno…..Ma chi? Chi??? Lo chiarì Angela Polacco, la nostra insostituibile guida, l’anno dopo, prendendo spunto dal fatto che un compagno di viaggio, quel giorno, non ce l’aveva fatta ad entrare nello Yad Layeled perché un ragazzino raffigurato era, disse, il ritratto di suo figlio alla medesima età: “Avete notato, disse Angela, che c’è una bambina identica a…..Non vedete come le somiglia?”
A tali parole il cuore cominciò a battermi forte di emozione dolorosa. Fu solo un attimo, però. Il prisma incuneato nella montagna, ideato da Moshe Safdie, si aprì ancora sul panorama di Gerusalemme, verde e pulsante di energia, e su di me.
“La vita vale tutto, e deve condurre alla vita, di nuovo”.


[1] V. http://www.fiammanirenstein.com dove, oltre agl’interventi, c’è un elenco completo delle sue opere.
[2] IRDI NIRENSTEIN Beniamino, Israele e la guerra al terrorismo, Ed. Luiss University Press, collana diretta da Carlo Jean, Roma, 2006, pp. 336.