ANTONIA ARSLAN    IL LIBRO DI MUSH
Ed. SKIRA, Collana NarratoriSkira,  Milano, Gennaio 2012, pp. 129,    €.15
“E così nella notte stellata, illuminati da una pallida luna, si muovono tutti, ognuno pensando al passato, ognuno temendo il futuro”
“ ‘Vedi gli angeli?’ chiede Hovsep affascinato. ‘E tu, vedi i leoni?’ Risponde dall’altro lato Kohar. Sono i leoni armeni, quelli sorridenti, con una sciarpa intorno al collo”
In un’intervista di alcuni mesi fa la scrittrice Antonia Arslan confessava di essere una persona a…..maturazione lenta. “Per molti anni ho fatto il professore universitario” ricordava “e scritto numerosi saggi. Ad un certo punto ho capito che la parte armena di me doveva…uscire; e uscire non sotto forma di semplice ricordo, bensì come ‘esplosione di vita’ ”.
Era cioè divenuto necessario per lei raccontare quelle storie udite dai familiari quand’era bambina e le vicende tragiche di un Popolo, quello armeno, da sempre straziato, violato, ma indomito [1].
Ella confessava, tra l’altro, che, dopo l’uscita del romanzo La Masseria delle Allodole (2004), una nutrita schiera di cugini armeni, dispersi in diversi Paesi (tra i quali la Siria ed il Libano), l’avevano cercata per raccontarle vicissitudini diverse; grati che fosse portata alla luce, grazie a lei, una Tragedia dimenticata: il Genocidio degli Armeni, perpetrato dai Turchi negli anni della Prima Guerra Mondiale, in particolare nel 1915, ma con prodromi alla fine del 1800 e con proseguimento fino al 1922. Un programma di annientamento di un Popolo in quanto tale -persone, cultura, storia, monumenti, in primo luogo chiese- attuato con fredda determinazione, non certo un “danno collaterale” del conflitto (1914/1918), come troppi hanno sostenuto e tuttora sostengono. Fu il primo genocidio del XX secolo [2], la prova generale dalla quale Adolf Hitler seppe ben trarre ispirazione.
Del resto, basta osservare con rispetto e trepidazione le fotografie degli uccisi e dei pochi sopravvissuti perché mente e cuore corrano a certe immagini di circa trent’anni dopo. Basta leggere le motivazioni alla base dell’odio antiarmeno per ritrovare lo stesso linguaggio, le medesime maligne radici del (purtroppo sempre fiorente) antisemitismo, nelle sue forme più varie e “fantasiose”.
Quei parenti di Antonia Arslan erano pure desiderosi che fosse finalmente (ri)conosciuta la forza e la dignità di coloro che erano passati attraverso una prova così tremenda.
A inizio 2012 è uscito con l’Editore Skira, specializzato in pubblicazioni dedicate alle arti figurative -e con attenzione alla narrativa-, l’ultima opera della studiosa padovana: uno scritto breve ed intenso, Il Libro di Mush. Dopo aver trattato, nei primi due romanzi, la tragedia armena attraverso le vicissitudini della propria famiglia, con il terzo lo sguardo comprende l’intero Popolo. L’idea di scrivere quest’opera, davvero preziosa, è nata in California in occasione dell’apertura di un’esposizione sul Popolo Armeno, cui l’Autrice aveva partecipato. Le vicende ivi rappresentate, le immagini, i colloqui con le persone presenti (negli USA vive una folta comunità diasporica), le loro sollecitazioni hanno fatto riemergere i ricordi dei racconti uditi tanti anni prima. E ne è scaturita la presente storia.
Il Libro di cui si tratta è un manoscritto medievale (del 1202), consistente in una raccolta di omelie (Msho Charantir, cioè Omiliario di Mush), ornata di stupende miniature che ne fanno un tesoro inestimabile, composta all’inizio del XIII secolo nello scriptorium del monastero di Avakvank (presso Erzynka) su commissione di un sensibile mercante.
Un volume enorme, alto un metro e largo mezzo, del peso di circa ventotto chilogrammi. Di lì a pochi anni tuttavia il mercante fu ucciso durante l’invasione mongola e il libro rubato, come sovente accade in simili circostanze. Qualche tempo dopo i monaci di Surp Arakelotos Vank (Monastero dei Santi Apostoli) di Mush vennero a sapere che l’opera scomparsa era in vendita; dopo lunghe trattative e a caro prezzo lo comprarono e così, per diversi secoli, il prezioso manoscritto vegliò sugli abitanti dell’omonima Valle e su tutto il Popolo Armeno.
Il romanzo si apre con una scena tragica e coerente: siamo nel giugno 1915 e i militari della terza armata turca, reduci dalla sconfitta subita nel Caucaso ad opera dei russi, sfogano la loro rabbia sull’immancabile, prescelto capro espiatorio. I villaggi armeni della Valle sono messi a ferro e fuoco, gli abitanti trucidati, senza distinzione di sesso ed età; l’antico Monastero dato alle fiamme……“Un’eliminazione programmata e precisa, scientifica, per svuotare la valle di ogni sangue armeno…”.
Nello stupendo scenario naturale di Cortina d’Ampezzo ho assisto, lo scorso 11 agosto, alla presentazione de Il Libro di Mush, da parte della stessa Autrice (coadiuvata da un intervistatore d’eccezione, il Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Padova, Giuseppe Zaccaria),grazie ad un’iniziativa, nata alcuni anni fa, dall’entusiasmo e dalla costanza di un giovane, cortinese di nascita, studente di Storia all’Università Roma La Sapienza, Francesco Chiamulera. Francesco ha dato vita, con l’aiuto di alcune personalità che hanno creduto in lui, a Una montagna di Libri – Incontri con l’Autore, appuntamento annuale in grado di mettere a confronto esponenti della poesia, della narrativa, del giornalismo, dell’economia, della politica, in un fecondo scambio di opinioni ed esperienze; detto tra parentesi, nell’ambito sono stati istituiti anche due premi letterari.
Con la sua forte capacità di instaurare subito un rapporto empatico con il pubblico, Antonia Arslan ci ha narrato la storia, frammista (forse) a leggenda, dell’eccezionale manoscritto, il vero protagonista del romanzo, scoperto tra le rovine del Monastero devastato (si trovava nel ripostiglio in cui le galline venivano poste a covare dai monaci) grazie a due donne, risultate tra i pochi sopravvissuti alla furia degli assassini.
Le donne, entrambe giovani, si chiamano Anoush e Kohar. La prima, snella e delicata, è sposata e già madre di tre figli; l’altra, bruna con larghe spalle e florido seno, ha un fidanzato falegname -che comanda a…bacchetta- ed è prossima alle nozze.
In quel caldo, tragico pomeriggio, erano scese al fiume Aratsani per un bagno ristoratore.
Poiché sul fiume c’è sempre un velo di nebbia, esse s’immergono nude, dopo aver lasciato gli abiti sotto un masso. D’altronde “Mush” (così si chiama anche il centro principale) in armeno significa “Nebbiosa”; siamo in una valle, all’epoca dei fatti narrati, fertilissima, con fiorenti paesi, attraversata da due fiumi. Un altopiano isolato, centro rilevante della civiltà armena, con il Monastero, quello appunto dei Santi Apostoli, fondato nel quarto secolo da San Gregorio l’Illuminatore. Il luogo è circondato da montagne, con rari valichi d’entrata. Un piccolo paradiso, che può tuttavia trasformarsi, come accadrà, in una trappola mortale.
Le ragazze scherzano tra loro, ignare di ciò che le attende.
“Per sempre le due donne ricorderanno questo momento, quando il tempo si fermò per loro, e l’acqua, la terra e la luce del paese perduto le strinsero in un ultimo abbraccio”.
L’incanto si spegne allorché odono all’improvviso “un rumore ritmato che si avvicina velocemente”.
Cavalli al galoppo, cavalieri turchi. Tutta la natura pare trattenere spaventata il respiro.
L’attesa che scenda la sera per poter ritornare a casa senza imbattersi in quella presenza nemica; l’ansia che cede il posto alla paura (“paura atavica, insopprimibile, dell’agnello di fronte al lupo”), man mano che esse proseguono nella via del ritorno; poi l’illusione che il silenzio (assai sospetto, per la verità) aleggiante sul loro villaggio sia dovuto al fatto che tutti gli abitanti siano lassù, al Monastero dato alle fiamme dagl’invasori, per dare una mano a spegnere l’incendio. Il Monastero violato era stata la prima, atroce scoperta.
Poi l’Orrore. L’intero villaggio è stato saccheggiato e distrutto, gli abitanti uccisi; compresi i loro familiari, inclusi i bambini, a cominciare dall’ultimogenito di Anush, Krikor. La ricerca spasmodica dei loro cari, il sangue dovunque, la consapevolezza che “sempre le madri armene hanno dovuto far fronte a ciglio asciutto alla morte dei figli, secoli di oppressione e di servaggio glielo hanno insegnato”.
Fin dalle prime pagine il romanzo, declinato secondo brevi capitoli numerati, colpisce per la prosa intensa, drammatica, vissuta nel profondo, dove, alla tragica realtà del presente, si alternano i ricordi solari, i sogni, le illusioni che vi sia ancora qualcuno in vita.
Qualche altro superstite c’è. Tra il tremendo odore del sangue (“molle, dolciastro, vischioso”) e la terribile visione dei corpi oltraggiati dei genitori e della sorellina le due donne trovano Hovsep, compagno di giochi dei piccoli di Anoush, l’unico a salvarsi della sua famiglia.
Con delicatezza, ma con decisione tipicamente materna, esse lo raccolgono e lo inducono a seguirle.
Poco dopo, oltrepassate quelle case, divenute tombe sconsacrate dalla violenza e dalla morte, un altro incontro, con due persone sfuggite appena in tempo prima alla strage. Si tratta di una coppia di greci: Eleni, la levatrice del villaggio, e Makarios, il figlio del ciabattino. Cresciuti insieme nel Paese natale, anni addietro avrebbero dovuto convolare a nozze, ma il carattere irrequieto di lui aveva mandato a monte il progetto. Si erano poi ritrovati, diverso tempo dopo, a vivere tra gli armeni: lei facendo nascere i figli degli altri e lui vivendo in una certa agiatezza, sempre disponibile ad assecondare, dietro compenso, chiunque gli chiedesse un aiuto. Forse, chissà, l’antico sogno di vita insieme avrebbe potuto ancora realizzarsi. Ma prima, secondo l’uomo, era necessario andarsene, fuggire da quei luoghi, poiché la furia vendicatrice dei Turchi questa volta non avrebbe conosciuto limiti. Paura ben fondata.
Il piccolo gruppo si dirige verso il Monastero, dove s’imbatte in altre scene di devastazione e morte e dove, con rispettoso coraggio, raccoglie ciò che può essergli utile nella fuga verso l’agognata salvezza. Non con l’atteggiamento del saccheggiatore, ma con l’affetto del figlio che cerca nutrimento dal petto della propria madre. Prima però è indispensabile dare dignitosa sepoltura ai monaci uccisi dai barbari.
Tra il piccolo Hovsep e Anoush si instaura un rapporto dolcissimo: lui ha perduto i suoi familiari, lei è sola al mondo. Il bambino riflette su quella madre che ha di fronte: “Ha un odore diverso da mia mamma…..Ma è sempre un odore di mamma, caldo e dolce. Questa non la voglio perdere, la curerò io”. L’amore afferma così la sua energia inesauribile.
Poi l’incredibile scoperta, grazie ancora a Hovsep. Un vago sentore amico di pollaio e di uova, pur frammisto a quello di sangue e di morte, attrae il ragazzino. Meraviglia per tutti è il ritrovamento del Libro prezioso; in un luogo -come precisato sopra, nel buio del ripostiglio dove la galline stavano a covare- non certo “sacro”, ma emblematico, perché è una sede dove la vita rinasce, nell’umiltà del quotidiano.
Il Libro, di nuovo risplendente dopo essere stato ripulito con devozione ed affetto, è il simbolo dell’orgogliosa dignità di un Popolo: saranno queste donne semplici a portarlo lontano dai pericoli, su verso le montagne. Ma come fare, dati il peso e la mole? Di nuovo Hovsep entra in scena proponendo di dividerlo in cinque pezzi, tanti quanti sono i membri del gruppo!
Kohar, vera mente organizzativa della compagnia, contropropone di scinderlo in due parti: saranno quindi lei ed Anoush a caricarselo sulle spalle. E così avviene; non prima di aver giurato, tutti e cinque insieme (anche Makarios, sulle prime un po’riluttante), di difenderlo con la vita “da ogni insulto e profanazione”. Emozionante è seguire, pagina dopo pagina, il viaggio, attraverso le montagne impervie del Caucaso, di queste persone che hanno perduto tutto, la casa e gli affetti più cari, ma non la forte coscienza e dignità di Sé. L’Angelo Muto le segue e sa indirizzarle: i tre Armeni e i due Greci, stretti in un’unità inscindibile.
Alle scene tragiche si sovrappone la bellezza della natura in un contrasto struggente: “Il giorno dopo è una bellissima giornata, con nuvole leggere e un vento fresco…Tutti si sono svegliati un po’ rinfrancati”.
E ti commuovi nel pensare come la perduta maternità fisica di Anoush venga recuperata sublimandosi in Maternità simbolica di Popolo. Anche in questo romanzo emerge la “specificità del femminile”, aspetto importante nell’opera di Antonia Arslan.
“E’ come se un vento misterioso in quel momento prendesse a soffiare attraverso la valle, carico di tutti i profumi e gli odori e i colori della gente perduta, che sta diventando cenere e lievito per la terra laggiù, in tutta la valle di Mush. ‘Non periremo finché il Libro esiste’ dice il vento, leggero come un sussurro -o come la voce di Dio-”.
Lascio al “lettore paziente”, come lo chiama l’Autrice, la gioia di scoprire e partecipare alla storia racchiusa in questa..ballata, certo drammatica, ma illuminata da una luce di speranza.
Rivelo soltanto che una delle due donne muore, ottenendo dai compagni di essere sepolta con la metà del Libro di cui era stata custode. Detta metà fu poi recuperata da un ufficiale russo e portata a Tiblisi; l’altra donna, dopo aver raggiunto Yerevan, consegna la propria parte del volume ai monaci di Etchmiadzin. L’Omiliario verrà ricomposto negli anni Venti del Novecento ed oggi si può ammirare nella sala più importante del Madenadaran (in armeno antico: Biblioteca) di Yerevan. Sedici fogli, che erano stati staccati nel secolo XIX, sono custoditi nelle raccolte dei Padri Mekhitaristi di S. Lazzaro a Venezia; mentre quarantacinque si trovano a Vienna, anch’essi nel locale monastero dei Padri Mekhitaristi.
Una vicenda di luminoso significato universale in grado di far comprendere come le persone ed i popoli che rinunciano alla loro Identità siano condannati a soccombere; mentre coloro i quali ne conservano la Memoria -quella autentica, condivisa- vivranno per sempre, nonostante le sofferenze e i lutti. Il Libro Salvato è un simbolo di valore incalcolabile.
Un affettuoso grazie all’Autrice.


[1] Per la biografia dell’A., padovana di nascita e armena di origine, vedi il commento su questo sito (Marzo 2011) a Antonia ARSLAN, ISHTAR 2 Cronache dal mio risveglio, Rizzoli, collana Scala italiani, Milano, Novembre 2010, pp. 111. Per quanto concerne, poi, Metz Yeghern (il Grande Male, il Genocidio degli Armeni) e il complesso rapporto di questo con Storia, Passato e Presente -sia da parte armena che da parte turca- , vedi la recensione su questo sito (luglio 2007) a Elif SHAFAK, La bastarda di Istanbul, Rizzoli, Milano, 2007, pp. 388.
[2] Il termine “Genocidio” fu coniato nel 1944 da Raphael Lemkin (1900-1959), un avvocato ebreo-polacco la cui famiglia fu in gran parte o sterminata durante la Shoah, o imprigionata ed uccisa in aree annesse dall’U.R.S.S.
Prima del secondo conflitto mondiale si era interessato al Genocidio Armeno. Il termine deriva dalla radice genos (in greco: famiglia, tribù) e dal suffisso cidio (in latino: uccisione). Dopo la Shoah egli promosse la promulgazione di leggi internazionali che definissero e proibissero il genocidio e raggiunse il suo obiettivo nel 1951, quando entrò in vigore la Convenzione sulla Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio.
Ritengo indispensabile che all’ONU (e pure presso molti governi occidentali, Europa in testa) si studi questa convenzione e si mediti sulla politica del governo di Teheran nei confronti del Popolo di Israele. Sarebbe assai più utile della celebrazione della cosiddetta “Giornata della Memoria”, divenuta via via, al di là delle serie intenzioni di chi l’ha istituita, un rito vuoto, ipocrita, fuorviante, suscettibile di assurde strumentalizzazioni.