(Titolo originale By Fire, by Water, 2010)
 
Traduzione di Chiara Brovelli, Neri Pozza Editore, Vicenza, collana I narratori delle tavole, Aprile 2011, pp. 320, €.17,00
 
“Quella notte impararono entrambi che, anche nei momenti più angosciosi, c’è sempre un barlume di speranza e di consolazione. Basta saperlo scorgere, permettere a se stessi di vederlo”.
 
Nel XV secolo, durante il regno di Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona, la Spagna vive uno dei periodi più drammatici della sua storia. Il domenicano Tomàs de Torquemada, capo della cosiddetta Nuova Inquisizione (si tratta dell’Inquisizione spagnola, costituita nel 1478, a partire dalla Castiglia, che assume una posizione peculiare non essendo sottoposta come in altri Paesi alla giurisdizione diretta di Roma: l’Inquisitore generale infatti è di nomina regia, poi convalidata dal papa), muove una persecuzione durissima contro i Conversos (o Anusim, cioè costretti, o Cristianos nuevos), gli Ebrei convertiti, per paura o convenienza, al Cattolicesimo.
Essi vengono sottoposti a stretto controllo, perché costantemente in odore di accusa di praticare in segreto la religione degli antenati.
Luis de Santàngel -personaggio realmente esistito, scribano de raciòn, cioè cancelliere e sovrintendente della famiglia reale, uomo di notevole fascino e cultura, vedovo da alcuni anni, con un figlio adolescente (l’amatissimo Gabriel)- gode della fiducia dei sovrani (tra l’altro aveva propiziato il loro matrimonio), ma vive un’esistenza caratterizzata da costante preoccupazione.
Infatti egli proviene da una famiglia di Anusim, la cui conversione è fresca di sole tre generazioni, mentre, per ritenersi al sicuro, occorre aver raggiunto il numero di sette, secondo i cosiddetti "Statuti della limpieza del sangre". Tace quindi a tutti le proprie origini; così come non confida a nessuno lo studio, intrapreso da qualche tempo, di antichi testi ebraici che, nel corso dei secoli, hanno causato agli Ebrei odio e tormenti senza limiti.
In particolare oggetto del suo interesse sono misteriosi manoscritti, giuntigli grazie a un capitano di vascello nativo di Genova, il quale, nel 1481, aveva accompagnato lo stesso Luis a Roma in un infruttuoso viaggio volto a convincere il Papa affinché intervenisse presso Torquemada per attenuarne la terribile condotta. Il navigatore si chiama Cristoforo Colombo e coltiva il grande sogno di raggiungere un giorno via mare le Indie, per maggior gloria del regno (e magari propria).
Quei manoscritti erano stati consegnati, qualche tempo addietro, a Colombo da un cartografo di Lisbona con la precisazione che, tra essi, era compresa una pergamena di incalcolabile valore, chiamata Toledòt Yeshu, già nota nel secondo secolo della nostra era.
Ritornato nella sua Saragozza, Luis cede alla tentazione di approfondire la fede degli antenati con l’aiuto dello scrivano ebreo Abram Serero. In questi incontri, ovviamente segreti, partecipano anche l’assistente e uomo di fiducia di Luis, Felipe de Almazon, e il sacerdote Diaz de Càceres.
Santangel, pur consapevole del pericolo mortale che corre avendo in sue mani simili documenti, scopre un mondo a lui pressoché sconosciuto, fondato su una rigorosa, ma libera, ricerca. “Se volete delle risposte” spiega ad un certo punto Serero “non cercatele nel Giudaismo. L’intero edificio [del giudaismo] splendido e contorto com’è, si fonda sulle domande”.
Ci sono certo i testi ufficiali, costituiti dalla Torah, ma, per molti aspetti, il loro significato non è sempre chiaro. C’è il Talmud, un aiuto ad interpretare la Torah, ma anch’esso è ricco di discrepanze.
Questo clima di fervida discussione è interrotto da un grave fatto di sangue: l’uccisione, nel 1485, all’interno della Cattedrale di Saragozza (la Seo, cioè la Sede; così sono sempre state chiamate le cattedrali in Aragona e Catalogna), di Pedro de Arbués, il locale inquisitore, canonico agostiniano, distintosi nella persecuzione contro i Conversos. La situazione precipita: poiché ritiene che Santangel sia coinvolto nell’assassinio -chi mai avrà tradito il cancelliere?- Torquemada fa catturare il fratello minore di quest’ultimo, Estefan -che sarà ucciso sul rogo, non senza aver riscoperto la fede avita- e, episodio, se possibile, ancora più grave, organizza il rapimento del giovanissimo Gabriel, cui, con opportuno lavaggio del cervello, vengono fatti rinnegare il padre e le sue radici, rinchiudendolo poi in un convento ad Avila. Variazioni sul medesimo tema, che vediamo ripetersi lungo i secoli nella storia, grande e terribile, della Chiesa.
Il nostro protagonista trova rifugio nella taifa  (città-stato) di Granada, ultima roccaforte musulmana dopo la Reconquista; luogo, per varie motivazioni, più tollerante nei confronti degli Ebrei. Qui incontra un’affascinante argentiera ebrea, Judith Migdal, la quale, dopo l’uccisione misteriosa di Yossi e Naomi, rispettivamente suoi fratello e cognata, si prende cura del figlio della coppia (Levi) e dell’anziano padre di Naomi, Baba Shlomo, uomo colto e di profonda fede.
Tra Judith e Luis nasce un amore tanto intenso, quanto impossibile a realizzarsi.
Ma anche nell’isola relativamente felice della città andalusa giungono le truppe dei “Re cattolici”. Il 2 gennaio 1492 Isabella e Ferdinando entrano in città vestiti in abiti cerimoniali arabi.
Proprio dalla stupenda fortezza dell’Alhambra (il Castello Rosso), già centro del potere musulmano, viene proclamato, il 31 marzo 1492, l’Editto di Espulsione, la cacciata degli Ebrei dalla Spagna, fortemente voluta dall’Inquisitore generale Torquemada. Non c’erano solo motivazioni economiche alla base di tale decisione; era necessario troncare le radici dell’albero: allontanare i Cristianos Nuevos dagli Ebrei, recidere quel legame, ritenuto pericoloso, che in tanti (troppi!) resisteva, al di là dei massacri, dei roghi e delle persecuzioni
Il primo maggio 1492 inizia il periodo di tre mesi, concesso alle 50.000 famiglie ebraiche spagnole (circa 250.000 persone), per abbandonare il Paese nel quale avevano vissuto per secoli, dando un formidabile contributo in ogni ramo del sapere. Il breve termine lasciato loro costringe gli Ebrei a liquidare a prezzi assai vili beni ed attività.
Decine di migliaia di persone muoiono nel tentativo di raggiungere la sicurezza: i capitani delle navi -insomma, gli scafisti dell’epoca- esigono somme esorbitanti per trasportare i passeggeri ebrei, ma, una volta riscosso il danaro, li buttano in mezzo al mare. Davvero il mondo non cambia.
Negli ultimi giorni prima dell’espulsione si sparge la voce in tutta la Spagna che gli Ebrei in fuga abbiano ingoiato oro e diamanti; per questa folle ragione molti tra loro sono accoltellati a morte da briganti speranzosi di trovare chissà quali tesori nei loro stomaci.
A seguito di questi tragici eventi Luis de Santangel si ritrova solo -per qualche tempo addirittura finisce in prigione su ordine dell’Inquisitore generale, ma sarà liberato grazie alla propria abilità e all’intervento del re-, abbandonato da tutti, compresa Judith, convinta che egli l’abbia tradita, poiché ad un certo punto, era scomparso nel nulla. La donna, disperata, costretta ad andarsene dalla Spagna perché non vuole rinnegare il suo mondo, si sposa con un amico medico che non ama, Isaac Azoulay, da sempre innamorato di lei. Questi è uomo sincero e sensibile, in grado di essere un buon padre per il bambino in procinto di nascere, concepito dall’amore tra Judith e Luis. Essi partono alla volta del Marocco per iniziare una nuova, più serena, esistenza.
Nostalgia e rimpianto per Luis: chissà quante volte avrà pensato all'amore perduto, negli anni successivi.
                Ma anche per il cancelliere sorge qualche speranza: l’abile capitano, genovese di nascita, Cristoforo Colombo, impegnato nel progetto di raggiungere per mare le Indie, cerca sostenitori per la grande impresa, che a molti appare irrealizzabile.
E sarà proprio Santangel, ritornato persona influente a corte, ad offrirsi di finanziare in notevole misura il viaggio lasciando tutti i benefici alle Corone. La regina Isabella è stupita e gli chiede perché mai una persona sana di mente dovrebbe “pensare di fare una cosa simile?”
Egli le risponde: “Perché è venuto il momento, Vostra Altezza, perché così dev’essere”.
 
Mitchell James Kaplan, laureato a Yale, ha vissuto e lavorato a Parigi e Los Angeles, come traduttore di classici (soprattutto della letteratura francese), sceneggiatore e consulente editoriale. Poiché i suoi genitori erano entrambi professori universitari -l’uno viveva nel Sud della California, l’altra in Germania, a Monaco- egli è cresciuto a cavallo tra due universi culturali.
Ora vive a Mt Lebanon (Pennsylvania) con la moglie Annie e i due figli.
Per mare e per terra è il suo primo romanzo. Uscito in Patria nel 2010 col titolo di By fire and by water, è stato tradotto in diversi Paesi, tra i quali la Spagna -particolare di rilievo- e l’Italia. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti e recensioni positive, sia in Patria che all’estero, Israele compreso.
Il titolo -quello originale, tal quale riprodotto nell’edizione spagnola, è assai più perspicuo- è tratto da un piyyut (pl. piyyutim), poesia liturgica ebraica, risalente all’epoca del Tempio di Gerusalemme, scritta seguendo uno schema poetico, magari un acrostico, come alcuni Salmi, in cui l’inizio di ogni verso presenta, nell’ordine, tutte le lettere dell’alfabeto (ebraico). Nel nostro caso si tratta di una meditazione sul destino e sulla morte, recitata in occasione delle feste più solenni, come Rosh Hashanà e Yom Kippur: “Chi vivrà e chi morirà….chi per il fuoco e chi per l’acqua….”.
Nelle riflessioni poste in calce al libro l’Autore confessa che l’idea di scrivere il romanzo gli venne anni fa riflettendo sui rapporti esistenti tra quattro eventi di rilievo che, alla fine del 1400, avrebbero cambiato il mondo: 1) L’istituzione della Nuova Inquisizione nei regni di Castiglia e di Aragona; 2) La riconquista di Granada a inizio gennaio 1492; 3) L’espulsione degli Ebrei dalla Spagna, a seguito del famigerato editto; 4) La scoperta dell’emisfero occidentale da parte di Cristoforo Colombo.
Questi fatti, scrive in modo chiaro Kaplan: “costituirono un vero e proprio cataclisma, che presagì il crollo del sistema economico, governativo e religioso dell’età medievale e la nascita del moderno stato-nazione” [1]. Il protagonista, Luis de Santangel, è, come spiega lo scrittore, il prototipo dell’uomo moderno, con dubbi e contraddizioni; un animo combattuto tra il fascino della cultura dei padri (affiorano qua e là i ricordi d’infanzia, come le tradizioni, mantenute in segreto, legate, per esempio, alla morte di un familiare) e l’esigenza di fedeltà alla Corona. E pure l’amore nei confronti di Judith si inserisce in tale contesto: appassionato, ma senza speranza, perché prigioniero di contraddizioni: “Era tanto compassionevole quanto intelligente, dotata di una grande forza di volontà…” riflette Luis a proposito di lei “Ma era ebrea. Anche se avesse accettato di farsi battezzare, la scelta di una simile compagna avrebbe gettato un’ombra sull’autenticità della sua fede, distruggendo tutto ciò che suo nonno, suo padre e lui erano riusciti a costruire. Avrebbe compromesso anche il futuro del suo adorato figlio”. Allorché egli si sentirà pronto ad abbandonare la sua posizione prestigiosa e a lasciare tutto per la donna amata partendo con lei verso lidi incerti, sarà, ahimé (complice il susseguirsi degli eventi), troppo tardi.
Il romanzo, basato su accurate ricerche, sa mescolare con sapienza realtà storica e fantasia: chi, come me, ha compiuto meno di un mese fa un viaggio nell’affascinante Spagna sefardita, non può che apprezzarne l’impianto raffinato, simile ai preziosi oggetti d’argento usciti dalle mani abili e dalla sensibilità di Judith Migdal.
Tante sono le tematiche incontrate. La vita difficile, e sovente tragica, dei Cristianos nuevos, molti dei quali mantengono in segreto le loro abitudini ebraiche: come la famiglia di origine di Luis o quella del suo principale collaboratore, Felipe de Almazon, ucciso dall’Inquisizione: “…In mezzo a una confusione di calici e piatti d’argento spuntavano due candelabri d’ottone e una caraffa di vino, davanti alla quale c’era una pagnotta intrecciata secondo l’inconfondibile usanza ebraica”.
L’opera dell’Inquisizione, disumana oltre ogni malata fantasia -opera che ritroviamo, sfogliando le pagine di Storia, in contesti diversi, solo all’apparenza lontani-, che si avvale di abili meccanismi psicologici per distruggere la resistenza dell’accusato e fargli confessare colpe mai commesse, confessione che peraltro non ne salverà la vita (pensiamo ai trucemente celebri autodafé). Inquisizione che sa agire con eccezionale efficacia sulla personalità acerba e plasmabile di un bambino per distruggerne la volontà e i riferimenti affettivi, come vediamo riesce in modo egregio a Torquemada col giovanissimo Gabriel de Santangel.
Bellissimi i quadri d’ambiente. Come la descrizione di Granada (“Il Melograno” per antonomasia) e del suo quartiere ebraico: “La regione più meridionale della penisola iberica, separata dal mondo cristiano dalla Sierra Nevada, ospitava i resti di un emirato islamico che un tempo era stato grandioso. Annidate…..all’ombra del castello dell’Alhambra, le strade strette del quartiere ebraico di Granada si arrampicavano tortuose sulle basse colline. I muri imbiancati, coperti da gelsomini, riparavano i cortili delle case dall’acciottolio dei carri….”.
O le pagine dedicate agli Ebrei costretti, in ottemperanza dell’Editto, a lasciare la Spagna verso un avvenire carico d’incertezze. Ecco l’indimenticato scenario che si para davanti agli occhi di Santagel: “Lungo una stradina di campagna…migliaia di ebrei camminavano a fatica in direzione del porto [Salubaña, il porto di Granada]…In quel gregge enorme e disordinato alcuni pregavano, canticchiando sommessamente tra sé o in piccoli gruppi…Altri ancora avanzavano a fatica, in silenzio…Le madri allattavano al seno. I giovani studiosi del Talmud portavano cartelle ricolme di libri. I musici strimpellavano liuti e viole d’amore, accompagnando con i gesti i lamenti di Tisha B’av…”. I canti della tradizione sefardita, intonati in lingua ladina, conservano un’intensa malinconia nostalgica verso quel Paese perduto; luogo in cui gli Ebrei non erano certo persone libere del loro destino, ma nel quale erano oggetto di una (sia pur relativa) tolleranza; anche se non sono da dimenticare periodici, tremendi pogromi, sia  da parte musulmana, che da parte cristiana, come quelli che, istigati dagli Ordini mendicanti, nel 1391, si diffusero da Siviglia in numerose altre città.
Altro aspetto, collegato a quanto sopra, sul quale Kaplan si sofferma nelle serate di studio tra Luis, Felipe, Serero e Càceres, è pure la precaria situazione degli Ebrei, privi di una loro Patria, la Terra di appartenenza nella quale stabilirsi per libera scelta, ma pure rifugiarsi nei momenti duri della Storia. “In esilio, sì, ma non per sempre…..Questo popolo [paragonato a una cerva che anela ai corsi d’acqua] sta urlando di dolore. Come una femmina che sta partorendo. Che cosa sta partorendo? chiese Felipe. Stiamo parlando, disse Serero, delle doglie dell’era messianica. L’era in cui Israele tornerà dall’esilio e tutte le nazioni vivranno in pace”.
Una stupenda sintesi tra tristezza, dolore, speranza; sogni d’amore e drammatica realtà; ansia di riscatto della Terra Promessa mai dimenticata. E orizzonti infiniti che ancora non si conoscono bene, ma che si riescono ad intuire, al di là del vasto oceano.



[1] Segnalo un’opera sintetica, ma di rilevante efficacia, su questi temi, uscita nei mesi scorsi: Adriano PROSPERI, Il seme dell’intolleranza. Ebrei, Eretici, Selvaggi: Granada 1492, Editore Laterza, Bari, Gennaio 2012, pp. 171.