(Titolo originale Méguilat zkhuyot hayaréa’h

2009, by Ron Leshem)
 
Traduzione di Cinzia Bigliosi, Casa Editrice Cargo, Collana Narratori di Cargo, Napoli, Febbraio 2012,  pp. 384, €. 20,00
“Una lunga strada dritta mi inoculava sotto la pelle l’aria selvatica della città, mi catapultava per la prima volta sulla via della mia nuova vita”
“Ho scritto ai miei amici laggiù: non mettetevi in pericolo. Ma erano abbastanza forti per pensarla diversamente. Lo ho descritti pensando a me stesso, qui, a Tel Aviv”.
Nel mondo multiforme della giovane letteratura israeliana mi piace pensare Ron Leshem come l’Autore delle imprese impossibili, capace di immedesimarsi in modo totale nell’Altro, a cominciare da chi veste lo scomodo abito del Nemico. “D’istinto” egli confessa “sono attratto da luoghi in cui non posso recarmi”. Il suo primo romanzo -Beaufort   Im Yesh Gan Eden (Beaufort Se esiste il Paradiso), uscito in Italia nell’ottobre 2007 col titolo Tredici soldati- era ambientato in Libano  [1] .
Underground Bazar
(Casa Editrice Cargo, marzo 2012) si svolge nel Paese avversario di Israele per eccellenza, l’Iran.
Suscita sempre una certa curiosità conoscere la genesi di un’opera, quali motivazioni -affettive, razionali o magari casuali- abbiano indotto un Autore a narrare quella storia, a preferire quei personaggi e quell’ ambiente. Nel nostro caso  siamo davanti a un romanzo nato grazie a..face book. Forse si tratta di un escamotage per introdurci in un mondo tanto diverso da Israele nelle condizioni generali di vita e nel rapportarsi alla situazione internazionale, ma piuttosto assomigliante per quanto riguarda la sensibilità delle persone. O forse è andata davvero come Ron ci ha raccontato. Lasciamo a lui la parola.
“Quando sono a corto di ispirazione, a volte mi siedo davanti al computer e inizio a ‘chattare’ Poco più di tre anni fa, una notte, io, che non avevo mai incontrato coetanei iraniani, ho inviato loro un centinaio di ‘richieste di amicizia’. Al mattino, quando mi sono collegato, ho visto che tutti avevano accettato il dialogo. Il che non succede, se non di rado, con palestinesi o arabi in genere. Ho scoperto così una realtà che non conoscevo. Hanno cominciato a trasmettermi messaggi, filmati e così ho scoperto un nuovo mondo. Con due, poi, è nato un rapporto particolarmente stretto, tanto che in seguito ci siamo incontrati di persona, clandestinamente, all’estero e li posso considerare coautori del mio romanzo. Sono stati loro a scegliere i nomi dei protagonisti”.
Allo scrittore non interessavano gli esuli, i rifugiati politici o magari gli ebrei (i perseguitati per antonomasia), bensì le persone comuni: grazie a questi amici egli ha iniziato a conoscere via via la lingua farsi, il gergo, le abitudini, le ossessionanti norme religiose; chiedendosi inevitabilmente quale sarebbe stato il suo comportamento, come avrebbe reagito lui, se gli avessero “rubato il suo Paese”; e constatando quali profonde somiglianze leghino israeliani ed iraniani!
Sul piano culturale, e non solo, non vanno dimenticati gli antichi rapporti tra mondo ebraico e mondo persiano.
Afferma Leshem: “La scrittura mi offre l’occasione di evadere verso le esperienze che ho mancato o che mi è vietato vivere, verso luoghi che non ho avuto il privilegio di visitare e che forse non visiterò mai, verso esseri ai quali non ho accesso e, alla fin fine, mi chiedo: come sarebbe stata la mia vita nei loro panni?… Per questo ho descritto i miei amici iraniani scesi in piazza per le elezioni del giugno 2009 pensando a me stesso”.
Ne è nato racconto originale, ricco di spunti, di situazioni imprevedibili, di colori.
Vediamone in sintesi la trama.
Il giovane studente Kami Sahil, il protagonista ed io narrante, lascia la vita di provincia per la capitale, Tehran. Va ad abitare presso la zia Zahra Khazouri, vedova di Aryan, fratello di sua madre (ufficialmente morto durante la sanguinosa, quanto inutile, guerra Iraq-Iran), stella del cinema e cantante ai tempi dello Scià, poi caduta in disgrazia e censurata dal potere religioso. Ella conserva ancora molti tratti dell’antico fascino: i folti capelli corvini e quell’eccitante “profumo d’infanzia” che incanta il nipote. Vive nel rimpianto del luminoso passato in un modesto appartamento insieme con l’inseparabile gatto Hamad. Quest’ultimo è un rilevante personaggio del libro, che non ha nulla da invidiare agli umani; saggio ed astuto psicologo come ogni felino che si rispetti, vanta un’avventurosa biografia, raccontata da chi di gatti se ne intende, a quanto pare.
Il condominio -piccola, immensa realtà, tanto cara agli Autori israeliani- in cui Zahra risiede è popolato da persone le quali, per un verso o per l’altro, sono al di fuori delle regole ferree imposte dal regime islamico. Come Babak Tiban, giovane omosessuale che vive la propria condizione in modo travagliato. Ciò è spiegabile: l’omofobia, in Iran, ha assunto un tale livello patologico (grottesco, se l’argomento non fosse serio) che se, per un verso, il Presidente Ahmadinejad dichiara al mondo che, nel suo Paese, “non esistono” omosessuali, per altro verso, le autorità religiose/governative incoraggiano gli stessi omosessuali a sottoporsi all’intervento per il cambiamento di sesso! Così i ruoli sono ben definiti; l’apparenza è salva e la pubblica moralità….idem.
C’è pure la signora Safoureh Mahdis, donna anziana, dal carattere difficile, con un che di astuto e misterioso, che non perde occasione per sciorinare all’interlocutore tutta la sua pretesa sapienza. Per vivere vende biglietti della lotteria illegali, accompagnati, nei mesi estivi, da un consistente gruzzolo degli stessi per spettacoli al prezzo di mercato nero. Appena conosciuto Kami, ella si vanta con lui di aver fatto parte, durante il regime Pahlavi, della Corte Suprema di Giustizia, suscitando peraltro dubbi nell’interlocutore a tale proposito. Emana “un forte odore di bucato e di…vecchiaia”, ma si tiene ben aggrappata alla vita. Tuttavia non perde occasione per sciupare, con la sua aria sprezzante e il carattere negativo, qualsivoglia momento di gioia nel prossimo.
Ma anche questa donna, in apparenza arida e scoraggiante, può riservare sorprese.
Allorché Kami si procura un computer, ecco che Internet spalanca le porte di un universo di libertà a questi nuovi amici, soffocati da una miriade quotidiana di proibizioni e divieti, in un oceano di “oscurantismo morale e tenebre religiose”.
Attenti, però: a curiosare sulle abitudini e frequentazioni di tutti c’è la famiglia Najifian, residente nel medesimo stabile; in particolare il Sig. Massoud, quell’infernale grassone, occupato a sbirciare ogni movimento altrui con cura, mentre, fermo sulle scale a qualsiasi ora del giorno (e magari della notte), lavora a maglia lentamente, “sospettoso e avido di una preda”.
Il richiamo della scintillante novità è però irresistibile. “Alle diciassette, di ritorno all’appartamento, ho acceso il computer fine ed elegante, poi mi sono connesso alla rete. Da quel momento il palazzo non è più stato lo stesso”. Internet è dunque figura di rilievo della storia: apre ai protagonisti le porte di una realtà sorprendente, pare condurli in ogni parte del mondo. Ma si tratta di un’illusione e talvolta spetta proprio a Kami riportare tutti, sia pur recalcitranti, alla grigia realtà di ogni giorno.
Consapevole dell’abbaglio in cui può farti cadere la rete, il giovane non si ferma al web, vuole conoscere la grande città, quella vera: va in giro e scopre una Tehran tumultuosa e piena di vita, nella quale basta girare un angolo ed ecco che il “proibito” (dai mullah) si esprime: “Foulard volteggianti nella brezza, motivi rap in fondo ai vicoletti, vivaci vetrine che illuminavano le gallerie, negozi e bancarelle di fiori”. E qua e là segni più precisi di contestazione, come un graffito sulla facciata dell’Associazione dei feriti di guerra che grida: “Qui siamo sepolti vivi”.
Deliziose pennellate di angoli: “Finalmente [Nilou] ha parcheggiato in una stradina sonnolenta del bazar dove vagabondavano una lepre inzaccherata e delle anatre”.
Il protagonista è in frequente dialogo, a distanza e altresì di persona (sia pure in modo saltuario), con l’amico più caro, il coetaneo Amir, restato in provincia, ad Anzali, nel suo piccolo mondo in cui la religione occupa un posto di primo piano. Amir è immaturo, non ha voluto seguire Kami nell’avventura, come in un primo momento aveva progettato: nella vita esige quella sicurezza che solo una religione conservatrice e dogmatica può assicurare. Quando i due si incontrano a Tehran, Kami, ansioso di conoscere il mondo, teme che tra loro si stia scavando un incolmabile fossato. Ma il rapporto di amicizia che li lega è più solido di qualunque contrasto.
L’iniziazione all’età adulta, il poter soddisfare il gusto del confronto, della sfida, si realizzano grazie all’incontro di Kami all’Università, nella Facoltà di Ingegneria frequentata da entrambi, con Niloufar Khalidian, ragazza stupefacente, bellissima, della quale il protagonista si innamora al primo sguardo. Ella proviene da una ricca famiglia, è una femminista convinta, amante del rischio, nonché pilota da corsa. Purtroppo ad impedirle di gareggiare sono le ferree ed assurde regole del regime; quel regime che vanta con la Cina il triste primato delle esecuzioni capitali e secondo i cui principi le donne non hanno diritto di camminare a passo svelto perché ciò sarebbe troppo conturbante per i maschi!  Allora Niloufar (per brevità, Nilou) cerca di fabbricarsi una vettura da sola, magari procacciandosi uno sponsor; per la sua impresa chiede aiuto a Kami. Poi lo coinvolge nella vita clandestina della città, a feste dove circolano alcool e droga e fanno la loro apparizione libri proibiti. Colori, suoni, promiscuità.
Luoghi in cui tutto ciò che è haram, cioè proibito, è nascosto subito sotto il “lecito”; dunque a portata di mano, disponibile: basta cercarlo! “In Iran non tutti i sì significano sì, e non tutti i no significano no. E’ su questo confine tra il lecito e il vietato, tra le aperture e le chiusure che si muovono i creativi” così Viviana Mazza in un suo recente servizio, scritto per il Corriere della Sera, sui giovani artisti iraniani dal titolo La vera bomba siamo noi.
Tuttavia la ragazza disillude il suo innamorato: le autorità fingono di tollerare questi ritrovi underground tra giovani perché così essi evitano di scendere in piazza e di ribellarsi al regime: “..La città si muove su questo sottile margine: noi viviamo la nostra vita in basso e loro fanno quel che devono fare in alto”. Il passare del tempo, il lavoro, la famiglia faranno il resto affinché “gli splendidi ribelli” rientrino nei ranghi.
Nell’affascinante sottobosco il nostro giovane incontra pure Mohammad, insolita figura di dissidente, il quale gli sbatte sotto il naso la cruda realtà di oppressione in cui tutti sono costretti a sopravvivere: impiccagioni di minori ed omosessuali, lapidazioni di pretese adultere, torture, scomparse improvvise di persone sospette per il regime….Una realtà che l’Occidente sedicente democratico -traditore incallito dei tanti Babak e Niloufar- si ostina ad ignorare, al di là di ipocrite dichiarazioni, perfino più di quanto non facesse coi dissidenti nell’URSS e satelliti. Nella sua ansia di libertà Nilou si spinge troppo oltre la soglia del rischio e ne pagherà le tragiche conseguenze. Non racconto il prosieguo del romanzo -non c’è lieto fine, com’è intuibile- perché spetta a chi legge scoprire le diverse tematiche, in apparenza contraddittorie tra loro. In un’incessante dialettica: Vita/Morte; Libertà/ Costrizione; Desiderio di fuggire chissà dove / Orgoglio di essere Persiano. Constatazione amara che nulla sembra poter cambiare, ma insopprimibile ansia di libertà.
Il pericoloso tarlo dell’individualismo, che rode la vita -in primo luogo- dei giovani, sia in Israele che in Iran, pur nell’abissale differenza, va da sé, dei due contesti.
Qui Kami è davvero un alter ego di Ron.
Il raccontare di Leshem è coinvolgente, con una capacità notevole di giocare con i diversi caratteri; lo stile svelto, vibrante, ironico -anche quando la situazione è tragica o almeno drammatica- immediato, non ti annoi mai. E quando pare che un simile rischio si profili all’orizzonte, la cifra espressiva cambia, a favore del thriller, del mistero, delle mille domande. E affiorano, qua e là, spunti istruttivi di storia iraniana, o persiana, se preferite. Nella politica e nella tradizione; come certe antiche feste di grande richiamo, amate dalla gente comune, come quella che prevede l’accensione di falò e la distribuzione di dolci, detta Chaharshanbeh-suri, considerata dai mullah pericolosa manifestazione di idolatria e disprezzabile espressione di oscurantismo -sic!-.
Preziose le pagine in cui s’intrattiene sugli stati d’animo di zia Zahra (una sorta di Nilou entrata nella mezza età). Come quando ella, dopo aver imparato in fretta a destreggiarsi usando il mouse tra le diverse pagine web, ritrova con profonda emozione, stralci dei suoi vecchi filmati.
Ma ad ammaliarla è la scoperta, tramite Internet, che molta gente si ricorda ancora di lei.
Grazie alla “rete” numerosi fans -tra i quali tanti giovani- le esprimono ammirazione; e ciò fa nascere nella donna sentimenti contrastanti: gioia, dolore, nostalgia, uniti al desiderio di liberarsi degli oggetti, memoria del passato, come i numerosi capi d’abbigliamento che ancora conserva, ma che vorrebbe cedere ad altri (sicura?).
E’ un libro crudo, talora surreale, giovane, che può essere compreso e vissuto con identica partecipazione da persone mature. Non riesci a staccarti dalla lettura, perché t’invita a continuare, pagina dopo pagina, e a non fermarti. Un atto d’accusa, va da sé, non tanto contro l’Iran -e, men che mai, contro il suo popolo- ma contro tutti i regimi totalitari, stupidi, ma potenti. Vi sono descrizioni da favola di un immenso Paese, come: “deserti acquatici e deserti salmastri. Vigne e foglie di tè, noci e tabacco, cotone…canna da zucchero e mais…Sui pendii scoscesi, pastori nomadi vendevano latte e pelli….”. Un libro che merita amore ed attenzione: mie recensioni  -più brevi della presente- sono comparse su alcuni siti web e blog letterari, quali:
 La Stamberga dei Lettori
                  Lankelot
                 SoloLibri.net

Lo scrittore ha deciso di realizzare la traduzione italiana del romanzo partendo dalla versione francese, poiché, come confessa egli stesso, non è facile trovare bravi traduttori dall’ebraico all’italiano in grado di mantenere intatta la freschezza del testo; quei pochi che ne sono capaci erano “molto occupati”. Poiché Ron aveva alquanto apprezzato l’editing francese, ne è scaturita la decisione di partire di lì per far conoscere al pubblico italiano questa originale storia.
Infine, una considerazione breve ma doverosa, di questi tempi. Sarebbe ozioso e fuorviante vedere nel presente romanzo risvolti politici e/o porsi domande del tipo: l’A. e l’opera come si collocano di fronte al problema di un eventuale intervento di Israele contro i siti nucleari iraniani? A Leshem interessano le persone, la loro palpitante umanità, non le questioni strategiche, che restano fuori della porta, anche se non puoi fare a meno di pensare quale rilevante contributo potrebbe dare all’umanità, qualora fosse libero, l’antichissimo popolo persiano, dal quale la nostra civiltà ha avuto origine.


[1] A tale proposito vedi: 1) La mia recensione (novembre 2007) al romanzo che ha fatto conoscere lo scrittore al pubblico italiano; 2) La bellezza ci ha salvato? (Giugno 2008), Diario sulle Giornate dedicato al Salone Internazionale del Libro di Torino, ed. 2008 –Israele era il Paese ospite-, contenente, tra gli altri, un incontro con Ron Leshem.