(Italia, Francia, Irlanda 2011;   Genere: Drammatico)

“And you’re standing here beside me….I love the passing of time….Never for money…Always for love…Home is where I want to be…But I guess I’m already there..I come home…..Guess that this must be the place “

(“E tu sei qui vicino a me….Amo il passare del tempo….Mai per danaro..Sempre per amore…Casa è dove voglio essere…Ma mi sa che ci sono già…Vengo a casa…Sento che questo dovrebbe essere il posto”)”Conosci l’Olocausto?”  “In maniera approssimativa”  “E tuo padre, lo conoscevi? “In maniera approssimativa”

 
Cheyenne è stato, alcuni decenni or sono, una celebre rockstar. Ormai cinquantenne, si veste, si trucca, si muove come quando si esibiva sul palcoscenico davanti a folle di adolescenti urlanti.
Grazie ai guadagni ed ai diritti d’autore, può permettersi di vivere senza preoccupazioni economiche in un lussuoso castello con parco, arredato in stile minimalista, situato nella campagna irlandese, vicino a Dublino.
E’ un uomo che ogni mattina si trasforma meticolosamente in maschera. Lo vediamo truccarsi gli occhi, pitturarsi le labbra di rossetto scelto con cura, pettinarsi la parrucca di capelli corvini cotonati, indossare il costume nero attillato, in stile dark, completato da calzature Dr. Martens, come si conviene ad un cantante rock dei plumbei anni ’70.
Esce. Passa dal supermercato alla casa della madre di John, un suo fan -da tempo scomparso nel nulla e da lei, ex ragazza dallo sguardo intenso, atteso con trepidazione-, trascinando vuoi il carrello della spesa, vuoi un trolley da viaggio; ad essi si appoggia di continuo, in cerca di un’introvabile sicurezza. E’ una contraddizione vivente, questo personaggio che parla in falsetto e stupisce per le sue osservazioni sulla vita e le persone. Da una parte non vuole essere riconosciuto da chi lo incrocia; dall’altra, se qualcuno si permette di non ricordarsi di lui o lo osserva con ironia, magari lasciandosi andare a risatine canzonatorie, è capace di scherzi atroci. Per poi osservare, tra sé e sé: “Qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato…..”.
Uno strano Peter Pan, legato in modo ambivalente al proprio glorioso passato, che non si rassegna a vivere nella realtà comune; il mascherarsi e il castello in cui vive sono due aspetti della medesima condizione. Unico elemento fermo della sua vita: la moglie Jane, una donna concreta e generosa che lo ama senza riserve da trentacinque anni, la quale esercita un lavoro insolito, se vogliamo, ma emblematico: il pompiere. E’ lei che cerca di salvarlo da se stesso, riacciuffandolo allorché è lì, sul punto di cadere nel baratro di un’inguaribile depressione.
Cheyenne prova ricorrenti, pur indefinibili, sentimenti di colpa nei confronti di un paio di giovani che avevano preso troppo sul serio le sue tematiche musicali e ne erano morti; visita le loro tombe e riflette.
Ma c’è dell’altro, lontano nel tempo.
Non è irlandese di nascita, bensì statunitense; il suo vero nome è Eran. Proviene da una famiglia ebraica: suo padre è un sopravvissuto di Auschwitz, trasferitosi negli USA dopo la Shoah.
Il rapporto difficile col genitore è alla base dei tormenti e delle nevrosi del protagonista, il quale, tanti anni prima, non sentendosi amato da lui, né capito nelle proprie scelte, aveva preferito andarsene in Irlanda per iniziare una nuova esistenza.
All’improvviso Cheyenne viene avvertito che il padre sta per morire. Senza esitazione parte per New York; imbarcandosi su un transatlantico, però, visto che non prende un aereo da trentacinque anni ed ora teme perfino il volo!
Giunge a destinazione quando tutto si è compiuto. Forse ritornerebbe indietro subito, ma un parente gli confida quella che era stata l’ossessione del defunto per tutta la vita: ritrovare un ufficiale tedesco, Aloise Lange, che, durante la prigionia, l’aveva umiliato e “fargliela pagare”.
L’ex deportato aveva compiuto accurate ricerche ed individuato la moglie americana del suo nemico, fuggito in America subito dopo il conflitto; c’è perfino un diario, scritto con grafia minuta, arricchito da disegni. Una vita alla ricerca della giustizia, interrotta dalla morte. Il testimone passa dal padre al figlio, il quale all’inizio appare riluttante, ma poi si lascia coinvolgere nell’avventura.
Lo accompagna, da un certo momento in poi, Mordechai Midler, una sorta di versione casalinga e, solo in apparenza, scalcagnata di Simon Wiesenthal, un burbero dal cuore d’oro.
Paolo Sorrentino, giovane regista italiano di nascita, ma ben poco nostrano nelle modalità espressive, ci presenta una storia affascinante, da lui definita, in un’intervista, una sorta di “romanzo di formazione” su una persona di cinquant’anni, su un bambino che ha raggiunto…la mezza età.
Sullo sfondo, la grande tragedia della Shoah. La  “molla”  principale che ha fatto scattare l’interesse è stata la curiosità a proposito del dove si nascondessero i criminali nazisti sfuggiti alla cattura; da lì sono partite le altre tematiche.
Per dar corpo e anima al suo protagonista Sorrentino sceglie Sean Penn, tra le più celebrate icone progressiste di Hollywood, regista cinematografico, duplice Premio Oscar nonché ottimo e versatile interprete.
E’ operazione difficile mettersi nei panni di Cheyenne. Un passo falso, una battuta pronunciata fuori tono, un gesto sbagliato ti possono far sprofondare nel grottesco o nel ridicolo; o, peggio ancora, nel patetico.
Invece l’attore riesce a donarci una figura affascinante e ricca di sfumature, un uomo che, in questo viaggio lungo una vasta porzione degli States, guidando uno scuro (va da sé) pick up, alla ricerca del Nemico, fa i conti con la propria vita. Al solito non confesserebbe mai simile stato d’animo. In una delle brevi telefonate con Jane rassicura: “Non sto cercando me stesso. Sono in New Messico, non in India”.
Le musiche per This Must Be the Place sono state composte da David Byrne dei Talking Heads. Anzi il celebre cantante e compositore britannico fa una breve apparizione nel film, un cammeo, in cui è significativamente vestito di bianco, in contrasto con il nero Cheyenne; anche se, tra i due, il più “diabolico ” sembra essere il primo.
Il titolo riecheggia una canzone dello stesso gruppo rock, le cui parole sono in perfetta sintonia con la storia raccontata. Giusto lasciare alla pellicola il titolo originale, lasciando perdere sbiadite traduzioni.
La vicenda si snoda attraverso paesaggi incontaminati, dal deserto alle nevi, con rari e insoliti incontri, una umanità varia e sorprendente. C’è l’insegnante in pensione, sedicente vedova di Lange, che Cheyenne avvicina spacciandosi per suo ex alunno. Dopo un’iniziale diffidenza la donna è incuriosita e accetta volentieri di far quattro chiacchiere. Alla domanda dell’ospite se, nelle sue lezioni, avesse trattato l’Olocausto, risponde in modo un po’ evasivo, ma sereno, non lasciando trasparire imbarazzi. Sarà a conoscenza o no dei trascorsi del marito?
Ecco l’anziano pellerossa che compie un tratto di strada in compagnia dell’inconsueto viaggiatore, poi scende per proseguire a piedi nell’immensa prateria; la giovane madre con figlio grassottello e simpatico, ben introdotto alla musica rock, e l’incontro con, guarda caso, l’inventore del trolley.
La pellicola, grazie a Sorrentino e a Penn, ti conquista man mano perché non lascia nulla al caso e lascia che sia lo spettatore a far propri pensieri e situazioni, attraverso un linguaggio sobrio, ma di notevole efficacia; ricco di battute del più saporoso spirito yiddish.
Sorprese, come quando scopriamo le radici ebraiche del protagonista allorché egli giunge alla casa paterna: in primo piano, dal lenzuolo funebre, sporge il braccio tatuato del defunto.
E il confronto con il vecchio ex militare tedesco. Un confronto il cui esito non racconto per non privare chi legge della scoperta.
Ma è vivere tale esperienza, così dura e inimmaginabile, il compiere l’opera iniziata dal padre che ridà consapevolezza del proprio valore al figlio fuggitivo. E’ ora possibile gettare la maschera e lasciare Cheyenne nel mondo passato.
E finalmente imbarcarsi su un aereo per ritornare ad essere, in pace con se stesso, Eran.