30 APRILE, VENERDI
Ultimo giorno di viaggio.
Il tempo è volato, ma abbiamo compiuto un’esperienza davvero formativa.
C’è comunque ancora tanto da fare e da vedere, oggi.
Lungo il nostro percorso vediamo alcune basi dell’esercito, con militari ambosessi.
Angela – tra l’altro madre di una ragazza, la quale, l’anno prossimo, inizierà la Tzavah, cioè il servizio militare, subito dopo le scuole superiori, tre anni per i maschi, due per le femmine -dà voce ai pensieri di questi giovani: “Anche a noi piacerebbe molto, come i nostri coetanei di tutto il mondo, viaggiare, studiare, divertirci, senza la preoccupazione del questo periodo di ferma che si frappone ad ogni progetto. Ma questo è l’unico Paese che abbiamo e dobbiamo difenderlo”.
La campagna è coltivata con cura, attualizzando tecniche già in uso presso i Nabatei, il popolo di commercianti provenienti dall’Arabia (ma la loro origine è controversa), che vivevano nell’area tra la Siria, l’Arabia, l’Eufrate e il Mar Rosso: la loro città più importante e conosciuta è Petra. Essi furono i grandi trasportatori di merci e spezie dall’Arabia fino a tutto il Mediterraneo.
Popolo nomade, avevano costituito lungo le strade una serie, per così dire, di “stazioni di servizio” utili al loro vasto commercio, distanti l’una dall’altra quanto il percorso che può compiere in un giorno un cammello, sorta di…unità di misura. Furono poi resi stanziali dall’Imperatore Traiano, indi, si confusero pian piano con i bizantini.
Grazie alla creazione di una sorta di “piccole dighe” in grado di fermare l’acqua piovana è possibile dar vita a coltivazioni di diverse specie vegetali, tra cui la vite: sembra incredibile da queste parti! Il deserto è ancora verde, poiché siamo a fine aprile ed è piovuto abbastanza; ma tra poco preverrà il secco.
In questi luoghi si va costituendo da tempo una sorta di “Nuovo sionismo”: gruppi di giovani danno vita a nuove comunità, all’insegna della multiculturalità e di un elegante amore per la natura.
Il Neghev, questo triangolo con il vertice nel Mar Rosso (Eilat), i lati confinanti a est con la Giordania, a ovest e nord / ovest con Egitto / Striscia di Gaza, è sempre stato considerato dal Sionismo una grande risorsa da sviluppare e valorizzare.
Il principale sostenitore di tale politica è stato, come ben sappiamo, David Ben Gurion (דוד בן-גוריון), il più importante tra i cosiddetti “Padri della Patria”. E siamo proprio diretti al kibbutz Sde Boker (non lontano dall’affascinante città nabatea di Avdat, visitata con cura nel 1996), sua residenza anche dopo il ritiro dalla vita politica.
David Grün, nato a Płonsk (Polonia zarista) il 16.10.1886 e morto a Sde Boker l’1 dicembre 1973, emigrò molto giovane, con la IIa Aliyah, in Terra di Israele, dove assunse il nome di Ben Gurion (“Figlio del Leone”). Non mi soffermerò sulla sua biografia, interessante ed intensa. Solo poche osservazioni.
Com’è noto, non era religioso, ma conosceva profondamente la Bibbia, in specie la letteratura profetica; nel settembre 1947 raggiunse con il partito religioso Agudath un accordo in base al quale il costituendo Stato di Israele, pur essendo in sostanza laico, si impegnava sia ad osservare come Festività nazionale lo Shabat di origine biblica, sia a non consentire la celebrazione di matrimoni civili (di quest’ultimo tema, tuttavia, si sta discutendo da tempo nel Paese); mentre l’Ebraismo ortodosso avrebbe avuto piena autonomia per quanto concerne l’insegnamento religioso.
Nel 1952 un gruppo di militari congedati, che bene conoscevano queste zone poiché vi avevano combattuto durante la Guerra d’Indipendenza, dettero vita ad un insediamento che, nel 1955, diventò un kibbutz, Sde Boker, cioè Campo del Mandriano (o del Cowboy, secondo una terminologia più…cinematografica).
Il luogo suscitò un certo interesse in tutto Israele poiché, come detto, vi si stabilì proprio il Primo Ministro e Ministro della Difesa, David Ben Gurion, insieme alla moglie Paula: ivi rimasero a far tempo dal 1953, anche dopo il ritiro di lui dalla vita politica.
Ben Gurion, originario del remoto Impero russo, nutriva una forte passione per il deserto; lo sognava fiorito e coltivato, considerandolo come luogo di punta per la crescita del nuovo Stato.
Oggi Sde Boker è un ancora un kibbutz nel senso tradizionale del termine, con 165 membri (una sessantina di famiglie), per la maggior parte nati in Israele (e qui giunti da città o da altri insediamenti); vi è pure una piccola percentuale di immigrati (Nord e Sud America, Paesi già facenti parte del blocco sovietico); nonché un gruppo di soldati Nahal [1]che svolgono il loro servizio qui.
L’economia del kibbutz, punto di partenza per stupende escursioni in zona,è fondata essenzialmente sull’agricoltura -viticoltura compresa; infatti c’è una pregevole enoteca-, praticata sfruttando la salinità del terreno; vi sono pure una piccola fabbrica di nastri adesivi per imballaggi (Davik); una galleria d’arte, un museo di sculture del deserto e un allevamento di cani.
In occasione del viaggio del 1996 visitammo la casa di Ben Gurion, un’esperienza davvero emozionante. Una casetta il cui fascino sta nella semplicità: tutto è rimasto come allora, comprese le pantofole ai lati del letto, lo scrittoio, le seggiole, una biblioteca privata di 5000 volumi. La capanna adiacente, dove stava la sua guardia del corpo, è stata trasformata in un museo dedicato alla passione che lo Statista nutriva per il deserto.
Come nelle case degli Aaronsohn, qui non vi è nulla di polverosamente celebrativo.                                                                                         Casa D_B_G

Mi dispiace molto che oggi non vi sia il tempo di ritornare e sostare: quattordici anni fa fu uno dei momenti più rilevanti del viaggio.
Ricordo una celebre fotografia, scattata nel 1966 appunto a Sde Boker, nella sala da pranzo del kibbutz; la scena fermata dall’obiettivo rappresenta quanto di più emblematico si possa immaginare. Seduti intorno ad un tavolo (sul quale sono posati alcuni bicchieri e una bottiglia di vino) vi sono Ben Gurion e un giovane, forse l’interprete, chissà: al centro, tra loro due, il Cancelliere tedesco Konrad Adenauer, in visita privata in Israele.
Adenauer ascolta con attenzione i suoi interlocutori, mentre, dalla finestra, altri due giovani osservano quasi stupiti la scena che si svolge all’interno [2].
La Germania ora democratica e il giovane Stato (ri)nato dopo il Genocidio.
Rammento anche un incontro avvenuto nel 1960 tra lo Statista e il nostro giornalista più illustre, Indro Montanelli [3].
Scrive, il Grande Toscano, in un brano dal titolo Ben Gurion, col vento del deserto nei capelli sembrava un Mosé: “Ma non ama [D.B. Gurion], della politica, questo aspetto minore…del piccolo cabotaggio..E ogni tanto pianta baracca e burattini e se ne va. Dove? In mezzo al deserto del Neghev, si capisce. La sua riviera è lì, in un kibbutz poco distante da Beersheba, circondato dalle dune di sabbia e dai cammelli dei beduini. Ci resta tre giorni, una settimana, due, senza che nessuno osi disturbarlo. E fra quelle dune e quei cammelli batte a piedi, dall’alba al tramonto…..dai quindici ai venti chilometri” e più avanti : “ ‘Un popolo israeliano che parlasse una lingua diversa da quella del Tempio e della Legge…cosa sarebbe? Un popolo come gli altri…tanto valeva accettare l’offerta di un settlement in Uganda….Noi non possiamo essere come gli altri’ dice con ferma convinzione, ‘perché se lo fossimo, non saremmo nulla e vorrebbe dire che il mondo non ha bisogno di noi’….E Ben Gurion riprende: ‘Mosè, quando si accorse che il suo popolo stava dimenticando l’impegno ad essere qualcosa di diverso dagli altri, lo condusse nel deserto e ve lo tenne a pascolare quarant’anni di seguito’    “. E prima ancora: “Ma cosa sono i millenni, per Ben Gurion? Discorrendo con me, egli ne disponeva come si fosse trattato di settimane. ‘Vede’, mi ha detto ad un certo momento, parlando della redenzione del Neghev e dell’avvenire di Beersheba ‘avevano già un precedente: Abramo, che vi scavò un pozzo e vi piantò un albero…’ Per lui Abramo è un ‘precedente’ “.
Nella parte sud del complesso vi è il Memoriale dei coniugi Ben Gurion.
Paula, nata Munweis -nel 1892- anch’ella nell’Impero russo, era cresciuta negli USA; fu proprio in quel Paese, dove svolgeva la professione di infermiera, che conobbe David.
Lo seguì nella Terra dei Padri, lei che non era nata sionista.
Ecco una loro foto giovanile, del 1915
Paula_and_David_Ben_Gurion_Giovani
 

Paula morì nel 1968, cinque anni prima del marito.
Entrambi sono sepolti sotto due sobrie lastre tombali (solo i nomi e le date: quella della nascita, quella della morte e quella dell’immigrazione nella Terra dei Padri), in un punto dominante che si affaccia sull’incredibile Deserto di Tzin.                                                                             TOMBE
Turisti, scolaresche, appassionati come noi….Tanta gente, ma un rispettoso parlare a voce bassa.
Andiamo per gradi.
Il nostro autobus ci lascia all’ingresso dell’Istituto (o meglio: Istituti) Jacob Blaustein per le Ricerche sul Deserto, facente capo all’Università Ben Gurion del Neghev, con sede a Be’er sheva.
Istituto Ricerche sul Deserto
Il complesso è bellissimo, una perfetta sintesi di natura rigogliosa, deserto, opera dell’uomo.
Numerosi scienziati, politici, operatori diversi, provenienti da ogni parte del mondo (a cominciare, come ci sarà confermato, da quei Paesi che non intrattengono rapporti diplomatici con lo Stato ebraico; anzi, ne auspicano rumorosamente la scomparsa), vengono sovente qui per dibattere sulle condizioni delle “terre aride”, sulle cause di ciò e sul come affrontare e cercare di risolvere il problema della desertificazione, partendo dalla consolidata esperienza israeliana in materia di bonifica delle aree degradate.
Percorriamo il viale d’accesso a queste strutture
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e giungiamo alla terrazza su Tzin per soffermarci davanti alle tombe dei due illustri coniugi.
Anche oggi, come sempre -e come vidi nel 1996-, una variegata umanità, a cominciare da giovani in gita scolastica
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Poco dopo, il primo notevole personaggio di oggi: in carne e ossa, voglio dire, poiché il vero primo appuntamento l’abbiamo avuto con la figura di David Ben Gurion, il Nume Tutelare del Paese.
Aaron Fait, nato a Bolzano nel 1972, è figlio della mia inimitabile amica Deborah: buon sangue non mente. Ha compiuto l’aliyah molto giovane, dando così l’esempio alla mamma. Si è laureato in Biologia a Tel Aviv nel 1996, ha conseguito il Master in Scienze Ecologiche ed Ambientali tre anni dopo, nonché, successivamente, il Dottorato in Biochimica delle piante.
Ora, qui al College Ben Gurion, nella sua qualità di Senior Lecturer (qualifica, ritengo, simile alla nostra di Professore Associato confermato), si occupa di Biotecnologie e Agraria delle zone aride e, in specie, di Fisiologia molecolare delle piante.
Ha scritto, insieme con Rav. Michael Beyo un libro, che confesso di non aver (ancora) letto, ma che dal titolo e, soprattutto, dall’argomento, mi sembra quanto mai notevole: “In principio l’uomo creò il clone: uno scienziato e un rabbino discutono le incognite (e i dilemmi) dell’era biotecnologica”.
Avevo incontrato Aaron un paio di volte, in passato, e mi aveva sempre colpito per la notevole competenza, la passione e la cordiale semplicità con la quale espone le tematiche difficili di cui si occupa.
Rammento in particolare l’ultima occasione prima di questa. Fu sette o otto anni fa; io facevo, allora, parte dell’Associazione Italia/Israele di Bologna e avevo organizzato, per i nostri Soci, un dibattito a due in tema di bioetica tra lui -in Italia per studi e un ciclo di conferenze- e il Prof. Luca Gianaroli, Consulente Scientifico della Società Italiana Studi di Medicina della Riproduzione. Nonostante avesse l’influenza (tra l’altro eravamo in inverno), con febbre alta, Aaron mantenne l’impegno assunto e ne uscì una serata interessantissima. Dopo di allora, so che ha avuto diverse esperienze universitarie, tra cui, ultima, presso il celebre Istituto Max Planck di Berlino, che ha lasciato per stabilirsi qui, insieme alla moglie, una bella ragazza bionda di nome Silvia, e i tre figli, orgoglio di nonna Deborah; è sufficiente un’occhiata alle foto che la ritraggono insieme con loro per leggerne l’immensa gioia.
Aaron racconta del sistema universitario israeliano, di quanto la ricerca sia finalizzata a scopi applicativi, dell’importanza, nella carriera accademica, fin dai primi gradi, degli stages all’estero, indispensabili.
Ecco un quadretto, con Piero, sulla destra, che sembra corrucciato, ma, che in realtà, mentre sta registrando le parole del nostro amico, lo segue con la massima attenzione; anche perché si tratta di argomenti complessi, pur dipanati attraverso il linguaggio semplice e piano di chi con tali questioni ha quotidiana confidenza.
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Alla domanda se abbia notato boicottaggi anti israeliani negli Atenei europei, risponde, stando alla peraltro propria esperienza, in modo negativo; ritengo, precisa, che tale situazione sia prevalente nell’ambito umanistico.
Peraltro, occorre tener presente il ruolo, per così dire, di mediazione svolto dagli USA: nelle ambasciate statunitensi presso i Paesi che non hanno rapporti diplomatici con lo Stato ebraico vengono firmati contratti di ricerca per aggirare così ostacoli politici, anche se ciò non toglie che vi siano irrigidimenti e/o difficoltà burocratiche.
Insieme ad Aaron opera circa un centinaio di giovani ricercatori, richiamati dal fascino per l’avventura e dall’amore nei confronti della scienza. Egli si occupa, tra l’altro, dell’estrazione di una sostanza, la Astaxantin, dalle alghe appartenenti alla famiglia dei carotenoidi; tale sostanza è in grado di colorare di rosso il pomodoro e di rosa la carne dei salmoni qui allevati in grandi vasche.
Inoltre egli studia come sfruttare come “biofuel” l’olio prodotto dalle alghe. Alcune di esse sono in grado di accumulare fino al 60% della loro biomassa[4], offrendo, come si può leggere sul sito web di Aaron[5] “l’unica soluzione, nel campo del biodiesel, capace di liberare l’umanità dal..triangolo acqua-cibo-energia”.
Il deserto dunque è un luogo di grandi speranze per l’umanità: negli istituti di ricerca in cui ci troviamo vengono studiate le caratteristiche molecolari e fisiologiche delle piante desertiche, al fine di isolarne i componenti ed ottenere piante resistenti ad un’irrigazione limitata o a base di acqua riciclata.
In Israele il 70% del territorio è arido: grazie agli studi compiuti qui è possibile crescervi grano, orzo, vite (quest’ultima coltivata nel punto più a sud dell’Emisfero nord), ecc., trasformando la regione “in una serra fruttuosa e fiorita”.
Vi sono piante che, per vivere, hanno sviluppato particolari strategie: ad esempio specie annuali che esauriscono il loro ciclo prima dell’arrivo della stagione secca; o specie perenni che dispongono di un apparato fotosintetico nel quale è coinvolto anche il fusto e che espellono il sale dalle foglie. Il deserto è non solo un bellissimo paesaggio per l’appassionato escursionista, ma anche un inesauribile laboratorio per lo scienziato, afferma convinto.
E rileva: occorre ritornare alle varietà vegetali esistenti in natura; perché i “gusti” sono andati perduti? Siamo stati noi a…demotivare le piante a produrre le proprie caratteristiche positive, coltivandole per lungo tempo su larga scala, difendendole ossessivamente dagli attacchi esterni e rendendole perciò fragili ed uniformi. Dobbiamo ritrovare gli originali, i prototipi e ripristinare l’antico vigore. Aaron Fait come Aaron Aaronsohn: magici personaggi usciti dalla penna di uno scrittore sommo!
Aaron riserva poi un accenno polemico -sia pure espresso con il suo consueto stile ironico e lieve- a quella sorta di “terrorismo mediatico” che, da anni, ammanta l’argomento OGM, mentre, al contrario, da tempo immemorabile, vengono effettuate modificazioni transgeniche sulle piante! Anzi, proprio attraverso l’ibridazione si può recuperare la varietà degli organismi vegetali, specie tramite l’incrocio con specie selvatiche ricche di qualità. Passeggiamo tra i viali di questi splendidi Istituti:                                                                                               DSC01771(2)
ogni aspetto esprime la cura di un luogo vivo ed autorevole. Il nostro giovane scienziato conferma che esso è frequentato da circa 350 studenti (di cui il 50% proviene dall’estero); la lingua di lavoro è l’inglese.
Non mancano strutture recettive per le famiglie dei ricercatori, come, ad esempio, la scuola materna ed un Liceo nel quale si dà rilievo prevalente a temi legati all’ecologia.
A proposito di ecologia, le costruzioni sfruttano le ultime scoperte in tema di energie alternative, a cominciare da quella fotovoltaica.
Vi sono, come anticipato sopra, molte persone provenienti dai Paesi arabi, quelli, insomma, che ritengono, dichiarandolo palesemente o limitandosi a pensarlo, Israele la…”disgrazia dell’umanità” (la battuta è mia); dunque: Egitto, Giordania, Autorità Palestinese “-perfino Hamas manda qualcuno”, sogghigna Fait-.
Si studia pure “Antropologia del deserto”, anche beduina. Qua attorno, egli prosegue, ci sono numerosi insediamenti beduini, tutti illegali: il Governo, come tale, non ha ancora una chiara politica circa questa minoranza.
A poca distanza c’è Be’er Sheva (assai cresciuta dopo il 1948, oggi conta 200.000 abitanti), la cui Università, intitolata a David Ben Gurion, conta 40.000 studenti.
Salutiamo il nostro Aaron: arrivederci a presto e “Felice Ricerca Scientifica”!
Risaliamo a bordo, immersi in un mondo silenzioso ed operativo. Queste terre, quando furono acquistate da proprietari beduini all’epoca dell’Impero ottomano, erano deserto, nient’altro che deserto; ora, insieme col deserto, convivono bellissime coltivazioni, irrigate con acqua riciclata, come ci stanno ad indicare le tubature color viola.
Indispensabile è l’opera incessante del Keren Kayemet Leisrael nella cura del terreno e nella creazione, attraverso tecniche avanzatissime, di boschi, parchi, foreste con costante ricerca dell’equilibrio tra ambiente e popolazioni, comprese quelle beduine.
A lato, nel giallo ocra del deserto sbuca all’improvviso un trenino coloratissimo, simile ad un giocattolo, diretto a sud.
Poco dopo passiamo da Bet Qama; davanti a noi, ad una distanza di circa 20 chilometri, la Striscia di Gaza, Hamasland.
Un battito d’ali ed eccoci a Ruhama.


[1] V. Diciannovesima Puntata.
[2] L’immagine è visibile alla pag. 62 del volume ISRAELE, 50 anni nelle fotografie di Magnum, con prefazione e postfazione di Elena Loewenthal, Federico Motta Editore, Milano, 1998, pp. 202.
[3] Indro MONTANELLI, Gli incontri, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, collana Saggi, Milano, 2004, pp. 474.
[4]  Con il termine di biomassa si intende un materiale di natura vegetale che non ha subito nessun trattamento o condizionamento chimico. In questa definizione rientrano una enorme quantità di materiali, molto differenti tra loro, ma tutti aventi in comune una matrice di origine organica. In campo energetico, la biomassa è rappresentata da tutte quelle sostanze di origine vegetale, non fossili, che possono essere usate come combustibile (V. anche, per una trattazione esaustiva, il sito: http://www.rinnovabili.it/definizione-biomassa) 

[5] V. http://fait-site.blogspot.com/