[Segue 29 Aprile]
Afarsemon” Angela sorride “Sapete che cos’è?”
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La nostra “Stella Polare” ora ci fa orientare in un mondo dai cento nomi e profumi.
E’ un arbusto (il termine scientifico è commiphora gileadensis) dal quale i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme ricavano gli unguenti e gl’incensi necessari al culto. Anche Plinio il Vecchio e Giuseppe Flavio ne esaltano le proprietà medicamentose.
Pare che perfino gli Esseni lo coltivassero e ne traessero l’unguento, pur ritenendolo cosa impura.
La leggendaria regina Cleopatra, poi, lo ricercava con spasmodica insistenza: la sua bellezza andava valorizzata con i balsami ricavati dalla preziosa pianta.
Quando scoppiò la ribellione contro i Romani, gli Ebrei decisero di distruggere, appiccandovi il fuoco, la mitica essenza -bene prezioso, quasi sacro- perché non cadesse in mano nemica. Anzi, alle pareti di una sinagoga fu anche scritto un tremendo avvertimento in aramaico: una maledizione contro chi avrebbe svelato i “segreti della città al nemico”. Quale segreto più rilevante di quello concernente una pianta miracolosa?
L’afarsemon entrò ancor di più nel mito.
Una storia degna di Indiana Jones, anche perché, “si sapeva” che, nonostante i secoli trascorsi, forse “qualcuno” nella zona conosceva il segreto della coltivazione.
Ma anche nel resto del mondo c’era chi non aveva rinunciato a far rivivere l’arbusto.
Per farla breve, alcuni anni fa, una équipe di ricercatori israeliani è riuscita ad importare dalla Gran Bretagna (!!??) semi di afarsemon; questi sono stati immessi nel terreno a Ein Gedi -e dove, sennò?- ed ora in loco c’è un autentico giardino botanico con piante -di afarsemon- disposte a “terrazza”.
Sarà possibile dagli arbusti ricavare ancora il mitico balsamo della bellezza? Chissà, ma Israele è terra di miracoli, specie se propiziati dalle persone giuste; e dunque attendiamo una nuova rivelazione.
Torme di gitanti in bicicletta contemplano insieme a noi il gioco geologico operato dalle stratificazioni dei terreni argillosi, operate nei millenni dagli agenti atmosferici; qua e là spuntano piccole “alture” simili a castelli di sabbia.
Ecco Masada [1] .
Vediamo che, a poca distanza dalla fortezza, si sta allestendo il palco per rappresentare il Nabucco; mentre nel 2011 sarà il turno dell’Aida.
Giunti a destinazione, saliamo in cima con la rapida funivia.
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Quest’anno il clima è ideale: non ci sono né il soffocante caldo del 1996, né il vento insistente del 2009. L’atmosfera è limpidissima: laggiù, in lontananza, la lingua azzurra del Mar Morto.                                                                                    DSC01725

             Sostiamo in alcuni ambienti, di cui sono rimaste alcune pareti affrescate, davvero suggestive, che non ricordavo dalle precedenti visite.
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Questi sono i resti, mi pare, della sinagoga.                                                                                             DSC01733

Angela ci ricorda gli studi e gli scavi del giovane Dan Bahat, futuro celeberrimo archeologo e custode di quel meraviglioso scrigno che risponde al nome di Gerusalemme, il quale trovò 11 ostraka -con incisi i nomi verosimilmente di coloro che, quel 15 di Nisan, non avendo più speranza di salvezza, preferirono darsi la morte l’un l’altro anziché finire prigionieri dei Romani-, anziché 10, come invece riferisce Giuseppe Flavio, nella sua descrizione, a posteriori, della storia di Masada.
L’idea forte della morte onorevole verrà ripresa venti secoli dopo dal nuovo eroe che sostituisce Eleazar Ben Yair: Mordechai Anielewicz, cui è intitolato il kibbutz che vedremo domani.
Dopo essere scesi da quel luogo bellissimo e tragico, ecco una pausa marina non lontano da Ein Boqeq,: l’immancabile bagno nelle acque del Mar Morto; una concessione al conformismo turistico, ma anche un’occasione per ridere e scherzare tra noi.
Peccato che i rapporti si facciano più confidenziali quando il viaggio volge ormai al termine.
Poco dopo ci fermiamo davanti ad una collinetta di sale, significativamente nota come la moglie di Lot (Gn: 19,26), mentre Angela rileva ironica che ve n’è più di una, di collinette di sale, portanti quel soprannome. Raccolgo con Mauro alcuni ciottoli, da portare in dono ai figli.
Caratteristica di queste zone è il fatto che, mentre nella maggior parte dei luoghi il sale si dissolve e scompare, nella regione del Mar Morto le rocce saline resistono poiché l’acqua che si raccoglie in superficie scava un sistema di buche che la fanno defluire in una ragnatela di grotte.
Lungo la strada gli stabilimenti delle industrie di estrazione dei fosfati, di potassio per fertilizzanti agricoli (attività che danno lavoro a 35.000 persone complessivamente, peraltro altamente meccanizzate), trasportati a Eilat via camion o tramite una ferrovia costruita ad hoc.
Di fronte sono visibili gli omologhi stabilimenti giordani (pur costruiti un trentennio dopo quelli israeliani).                                                                                         DSC01747

 

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Siamo a Sedom, di biblica memoria: Abramo umile, ma deciso, chiede al Signore che abbia pietà di Sodoma e Gomorra, le città immerse nella dissolutezza; ma non vi si trovano nemmeno dieci giusti (Gn: 18,20-32) da giustificare la misericordia divina.
“Il sale è dappertutto. A Sedom gli stati delle pareti di roccia sono perfettamente verticali, qui c’è stato davvero un evento catastrofico immenso, chiunque l’abbia deciso. A nord c’è il Mar Morto, a sud c’è, oltre i canyon rosati, un’immensa spaccatura della terra, che prosegue fino al Mar Rosso e al di là in una faglia che fende il grande continente africano, chissà fin dove. La vastità dello scenario dà un’idea dell’immensità dei tempi”. Così scrive A. Levi (v. supra, Settima Puntata, nota 2) nel suo volume autobiografico, mentre ricorda i giorni da lui vissuti durante la guerra del 1948.

Incrocio con la Aravà, la lunga valle desertica che giunge fino alla cittadina di Eilat (ricordo bene entrambe dal 1996). Per quanto desertica, l’Aravà è stata tuttavia valorizzata da un’agricoltura di avanguardia, che si avvale delle risorse naturali -terreno salino, acqua salata e sole splendente pressoché tutto l’anno- per produrre peperoni, datteri, fichi, meloni, pomodori, basilico e fiori di ottima qualità: verdura e frutta dolcissime, destinati sia all’uso interno che all’esportazione.
La dolcezza, com’è noto, è dovuta al fatto che la pianta sviluppa una grande qualità di zuccheri per difendersi dai sali.
L’acqua salata utilizzata per l’irrigazione dei terreni viene pompata in pieno deserto.   Proprio nell’Arava sono stati scavati pozzi a 1000 metri di profondità.
Gli agricoltori locali israeliani collaborano con i vicini giordani: la condivisione di tecnica e di esperienze ha permesso la creazione di stazioni di ricerca agricole e di un centro studi che accoglie allievi da tutto il mondo. A breve distanza da noi c’è il moshav Ein Tamar, sorto nel 1982, in cui si allevano pesci (nel deserto!) e si coltivano meloni.
Vi sono anche progetti e programmi di sfruttamento dell’energia solare con un numero incredibile di pannelli.
Imbocchiamo una strada laterale ed ecco laggiù Dimona (poco più di 30.000 abitanti).
Essa è stata una delle “Città di sviluppo” create negli anni ’50 per iniziativa di David Ben Gurion ed è cresciuta soprattutto grazie all’apporto di nuovi immigrati provenienti dall’Africa Settentrionale.
Il nome di Dimona è legato al programma nucleare israeliano, sulla cui esistenza ed entità i vari governi di Gerusalemme hanno sempre osservato una posizione, come dire, diplomaticamente ambigua. E quanto mai responsabile
Certo, come nota Ari Shavit in un recente articolo apparso su Ha’aretz, Dimona non ha impedito le diverse guerre cui Israele è stato costretto, né, men che mai, le varie campagne terroristiche contro lo Stato, o gli errori commessi dai vari governi israeliani via via succedutisi,  ma, finora, essa ha funzionato da deterrente nei confronti di una guerra totale. Non solo Israele non ha mai usato le armi nucleari, né ha imperniato la sua difesa esclusivamente sulle stesse -a differenza di Gran Bretagna e Francia- ma neppure ha esibito la sua forza attraverso spettacolari test -a differenza della stessa Francia, di India, Cina o Pakistan-. Ha serbato un saggio, eloquente silenzio su una questione nata in anni assai più responsabili di quelli attuali, nei quali era chiaro che se lo Stato ebraico, circondato da un oceano di odio prima ancora di nascere, non fosse stato garantito e protetto da una sorta di “muraglia trasparente” (l’espressione è di Shavit), l’esito sarebbe stato un’ indubbia seconda Shoah. Ora la comunità è assai meno responsabile, nonché, come precisa sempre l’Autore dell’articolo, impegnata a preferire il “moralismo rispetto alla morale”, il politicamente corretto alla responsabilità storica. Con la conseguenza di non saper (o voler) bloccare i programmi atomici e genocidari (che non sono affatto una prerogativa occidentale, come taluno, peraltro versato in discipline storiche, pensa sciaguratamente) dei signori di Teheran. Stabilire “un collegamento fra l’armamento nucleare invasato…che si profila all’orizzonte e l’ambiguità misurata di Israele….è un tentativo al contempo stupido e vergognoso”.
Se la comunità cercherà di imporre i suoi frivoli precetti al reattore di Dimona finirà per procurare all’intera umanità un danno incalcolabile. E’ necessario valutare con razionalità la situazione prima che sia davvero troppo tardi.
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Attraversiamo ora una zona in cui vi sono spesso esercitazioni militari; infatti non è possibile uscire dai tragitti segnalati.
Guarda, laggiù a terra, un dirigibile…Macché dirigibile: si tratta di un radar!
Il deserto è più verde del solito, data l’abbondanza di precipitazioni in quest’ultimo periodo.
Dopo aver percorso una strada stretta e tutta curve -“Questa è niente a paragone di quella volta…Ricordi, Angela?” osserva Mirella, una veterana di questi viaggi, rievocando altre emozionanti avventure-, ci fermiamo per una breve sosta in una zona un po’ scoscesa, degna di un romanzo o film di fantascienza: una collinetta dove vi sono sabbie dai mille colori: rosso, bianco, giallo, un luogo silenzioso che mi rammenta il Sinai; fiori del deserto dai colori incredibili.                                                                                      DSC01757

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                    Yeruham, che attraversiamo poco dopo rapidamente, è un’altra delle “Città di sviluppo, sorte allo scopo di valorizzare le zone periferiche del Paese (il Neghev in primis) ed incrementarne la popolazione. Fondata nel 1951, popolata da immigrati dalla Romania, dai Paesi arabi, dall’India e dall’Iran, oltre che da reduci della Shoah, divenuta insediamento fisso nel 1959 (riconosciuto come moazà mekomit),  oggi è un grazioso centro di circa 10.000 abitanti -c’è anche un gruppo di italiani-, ricco di verde, con un bel laghetto. Gli abitanti ci lavorano e ci vivono, non è un…dormitorio.

Durante il riordino dei miei appunti di viaggio, mi sono imbattuta in un interessantissimo contributo di Pia Jarach, apparso sul Bollettino della Comunità Ebraica di Milano il 29 novembre scorso, scritto in merito alla missione svolta in Israele dal Keren Hayesod Italia nel periodo 27 ottobre / 1 novembre 2010 [2].
Nell’articolo si dà notizia di un libro di fotografie e storie delle donne di Yeruham. Esse, provenienti da diversi Paesi del mondo in questa cittadina per anni “afflitta dal più alto tasso di disoccupazione dell’intero territorio”, così precisa l’Autrice, nell’ambito di un più ampio programma statale di sostegno dell’economia, aprono le proprie case e propongono succulenti pranzetti ai turisti che visitano il deserto. L’iniziativa, oltre che simpatica, è pure assai utile a tutti, non solo alle donne interessate, specie se si tien conto che in loco non esiste un vero e proprio ristorante.
Sempre a Yeruham, scrive Pia, è sorto di recente un centro rivolto ai bambini in difficoltà.
Esso accoglie ragazzi (circa 170) fino ai 14 anni e si avvale dell’opera dei cosiddetti “neeman”.Costoro non sono né psicologi, né assistenti sociali, né maestri; non corrispondono a nessuna figura da noi conosciuta del settore. Gli “neeman” studiano per divenire una sorta di “angeli custodi” dei ragazzini a rischio. Per un triennio ciascun operatore segue alcuni di questi bambini e diviene la loro figura di riferimento nei rapporti con la famiglia, la scuola, la società.
I neeman riescono a ricostituire personalità ferite, a dar loro fiducia nella vita e nel futuro.
Il programma di recupero di ognuno viene costruito insieme al test volto a individuare i suoi problemi: il tutto, all’insegna di una rigorosa professionalità, si svolge sotto la responsabilità degli specialisti dell’Università di Be’er Sheva.
Non lontano di qui vi sono diverse comunità di Beduini. Essi lentamente muovono, dalle profondità del deserto, verso luoghi abitati e di benessere. Tuttavia la loro integrazione è piuttosto problematica: vivono praticando la pastorizia e una piccola agricoltura di tipo assai primitivo; hanno costumi sociali e familiari piuttosto arretrati -tra l’altro praticano la poligamia-, ma, soprattutto, sono nomadi.
In breve eccoci alla meta di oggi, il kibbutz Mashabei Sadeh, uno dei tre kibbutzim sorti in queste zone (nord Neghev) nel periodo intercorrente tra gli anni precedenti la Guerra di Indipendenza e quelli immediatamente successivi alla (ri)nascita dello Stato; gli altri sono Revivim (lett.:Piogge, il primo avamposto sionista nel Neghev, nato il 7 luglio 1943) e Sde Boker (costituito il 15 maggio 1952).
Il kibbutz fu fondato nel 1947 da un gruppo di giovani con il nome di Halutza (da Halutz, Pioniere), in un sito a ovest di Revivim. Dopo la Guerra del 1948 e con l’afflusso di nuovi membri, il kibbutz si è trasferito nella sua sede attuale. Il nome originario era Mashabim (lett.: Risorse). Il nome divenne Mashabei Sadeh in memoria di Itzhak Sadeh, il leggendario fondatore del Palmach, “il Vecchio”, come lo chiamavano, morto nel 1952. Nella guerra del 1948 l’insediamento fu attaccato dalle forze egiziane, ma resistette.
Ecco alcune parlanti immagini storiche, tratte dal sito web del kibbutz [3]                                                                                        Mashabei INIZI I°
MASHABEI INIZI II°


Mashabei III

MASHABEI Nel 1994

Nel 1994, l’immagine di sopra
E oggi: un edificio di rilievo e un campo coltivato.
MASHABEI Campi coltivati OGGI

MASHABEI OGGI Una casa

Attualmente vi abitano 270 persone, tra membri effettivi e residenti, e altrettanti bambini.

Sono stati accolte persone singole e gruppi di varia provenienza: Nord Africa, Europa, Sud America, USA, Paesi dell’ex Unione Sovietica, oltre, beninteso, Israele.
Vi si praticano un’agricoltura di avanguardia, sfruttando l’acqua salata (il che consente il rapido arrivo dei prodotti nei supermercati), coltivazione di palme e conifere (!), allevamento del bestiame e, dopo la scoperta -anni addietro- a grande profondità di acqua salmastra, piscicoltura.
C’è una piccola industria manifatturiera altamente specializzata (Sagiv, che produce montaggi a sfera e valvole d’ottone con applicazioni in diversi campi).
Molto accogliente la struttura ricettiva, che utilizza anche l’abolita “casa dei bambini”: il luogo è ideale non solo per meeting e incontri culturali di livello, ma anche per trascorrere, magari un fine settimana, tra cultura e natura; tra deserto e vegetazione lussureggiante.
Anche le opportunità scolastiche sono eccellenti: ad esempio, la scuola superiore, situata nella vicina Be’er sheva, riunisce ragazzi provenienti sia dal kibbutz che da città vicine in un piacevole ambiente.
Ci sistemiamo nelle rispettive stanze, poste in graziose, piccole costruzioni lungo vialetti alberati. L’ambiente è funzionale, curato, privo di orpelli ed ostentazioni; una semplice eleganza, tipica di Israele e dei suoi cittadini: questo è uno dei motivi per cui il Paese mi è congeniale.
Ritorniamo presto nei nostri alloggi, dopo la cena nel grande ristorante self service situato in uno degli edifici principali, seguita da una piacevole chiacchierata con Maria Pia, Evandro e altri.
Proprio davanti alla nostra porta, uno spettacolo insolito.
Un cane da caccia, un bell’esemplare di setter color marrone, fronteggia un gatto bianco e nero.
I due si studiano l’un l’altro: il cane, coda ritta e posizione del corpo distesa alla Usain Bolt sui blocchi di partenza; il gatto, sguardo da tigre, corpo raccolto di chi sta per spiccare un salto.
Silenzio assoluto.
Immobili, li osserviamo, noi alloggiati in palazzine adiacenti -Mauro ed io; Roberto; Daniela; Maria Pia; Giovanna-; passano poi Vincenzo e Mirella, i quali, a loro volta, si fermano ad osservare la scena senza proferir parola.
Restiamo lì, per diversi minuti, senza…muovere un muscolo.
Peccato che data l’ora ormai tarda, non sia possibile immortalare questo momento. E poi chi oserebbe far rumore nell’aprire la porta, prender la macchina fotografica, ecc….? Meglio di no.
Dopo un po’ Vincenzo e Mirella, salutando con un cenno della mano, se ne vanno.
Alla spicciolata, anche noi abbandoniamo il campo, l’uno dopo l’altro, augurandoci un muto buona notte.
Rientrata nella nostra stanza, ho un’idea. Conto fino a dieci, poi, con somma circospezione, apro la porta. Fuori non c’è nessuno; non c’è traccia né di cane, né di gatto, voglio dire.
La spiegazione è chiara: allorché i due compari si sono accorti che il pubblico era scemato, hanno terminato lo spettacolo in stile “sfida all’OK Corral” ad uso e consumo dei turisti e se ne sono andati per le loro faccende; magari facendosi una grassa risata alle nostre spalle!


[1] Non mi dilungherò sull’argomento, visto che il sito è stato visitato con cura l’anno scorso: v. in proposito il Diario 2009 (pp. 62/65).
[2] V. www.mosaico-cem.it, come specificato sopra, del 29.11.2010.