1 MAGGIO, SABATO
Oggi si rientra in Italia.
Abbiamo chiuso e fatto recapitare nella hall dell’albergo le valigie per compiere in libertà una passeggiata sul lungomare, come nel pomeriggio del nostro arrivo.
Va da sé che, per un verso, non vorresti mai tornare a casa poiché sono troppi i luoghi da visitare che ancora ti aspettano; dall’altra ti sembra d’essere qui da una vita e l’Italia appare assai lontana.
Bando alle malinconie. Mauro ed io usciamo nel sole, diretti verso la spiaggia.
Davanti all’Hotel Metropolitan c’è Paolo, l’italiano conosciuto al kibbutz Ein Harod, venuto a salutarci: a presto, buona permanenza in Israele.
Il sabato mattina a Tel Aviv c’è l’usanza di passeggiare lungo la spiaggia ballando o al ritmo delle orchestrine, talora improvvisate, che sbucano ad ogni dove, o magari accontentandosi delle canzoni sparate dagli altoparlanti dei numerosi locali posti sulla Tayelet dove si chiacchiera, si beve, ci si diverte.
Incrociamo Roberto e ci incamminiamo con lui. Contrariamente a Silva, una delle amiche di Padova, la quale vuol godersi Israele fino all’ultimo minuto, anche dal punto di vista…folkloristico, egli non è interessato alla danza e preferisce conversare.
Riprende il filo del racconto iniziato quella mattina in cui, a Gerusalemme, ci siamo recati sul Monte Scopus ed abbiamo dato uno sguardo, sia pure veloce e dall’esterno, all’Università.
Ricorda di quando, nel lontano 1972, giunse in Israele per effettuare delle ricerche utili alla redigenda tesi di laurea, in Diritto Internazionale, dal titolo: La cittadinanza nello Stato di Israele;a tal fine Roberto aveva ottenuto una borsa di studio per la locale Facoltà di Giurisprudenza. Fu per lui un’esperienza affascinante. Reminiscenze degli anni giovanili e conoscenze comuni, giuristi noti soprattutto -ratione materiae, verrebbe da dire- a Mauro, ma non certo sconosciuti a me.
Chiacchieriamo di dialetti, lingue, linguaggi e, da buon valdostano, ci parla del patois -chiamato, in francese, patois valdôtain e, in valdostano, patoué valdotèn- una varietà dialettale della lingua franco-provenzale parlata in quella regione. Il patois è uno dei tre idiomi tradizionali della zona linguistica galloromanza, con l’occitano a sud e il francese (langue d’oil e dialetti) a nord.
C’è il tempo per un’ultima foto.
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Roberto narra delle numerose varianti all’interno dello stesso dialetto, che egli paragona all’argot parigino, dei diversi modi di indicare i giorni della settimana o le Festività, in un intreccio di parole e frasi, pronunciate con quell’accento tutto particolare, dalla “o” cupa. Lo seguiamo con interesse nel suo argomentare, ma ciò che ci piace di più in lui sono la voce e quella passione che sa unire Israele alle alte cime dell’estremo ovest d’Italia.
E’ giunto il momento di partire per l’aeroporto.
Saliamo disciplinati un’ultima volta su un pullman, che ci pare così anonimo….
Per forza: al posto di guida non c’è il nostro caro Elie!
Questa è l’immagine con cui Tel Aviv ci regala il suo SHALOM ULEHITRA’OT
Weiss Beit
E’ la casa di Akiva Aryeh Weiss, uno dei suoi Fondatori.
 
CONCLUSIONE
Mi auguro di essere riuscita a trasmettere a coloro i quali hanno avuto la bontà e la pazienza di seguirmi in questa lunga narrazione, in parte riportata dal vivo nel momento in cui le diverse esperienze erano vissute e, in parte, frutto di riflessioni nate nei mesi seguenti (e condizionate dagli eventi succedutisi in quella parte di mondo così inquieta chiamata Medio Oriente); mi auguro, dicevo, di essere riuscita a trasmettere un po’ di amore, o almeno, di interesse verso Israele, un Paese del quale tanto si parla e si discute, ma la cui storia, certo complessa, drammatica, talora contraddittoria, è conosciuta poco e -per lo più- attraverso la lente deformante del pregiudizio.
D’accordo, la mia ottica è, per così dire, di parte: lo ammetto senza alcun problema.
D’altronde, ho sempre diffidato di coloro che invocano un’assoluta oggettività, peraltro , inesistente.
Tuttavia posso, in tutta serenità, vantare una certa onestà intellettuale e una discreta cura nell’evitare scorciatoie di comodo quando il discorso si fa difficile e/o controverso.
Un’ultima riflessione. Di recente, un gruppo di studiosi ha lanciato quest’idea: Promuovere l’iscrizione del kibbutz nel Patrimonio dell’Umanità tutelato dall’UNESCO.
L’iniziativa ha suscitato interesse e favore, ma anche perplessità e addirittura posizioni contrarie. Alcune voci autorevoli, anche di persone vicine a Israele, temono che ciò significherebbe, in qualche modo, “museificare” tale esperienza, relegandola al ruolo di “specie in via di estinzione”, se non addirittura estinta. Da parte mia, ritengo che non sia così, proprio alla luce del viaggio compiuto e delle persone incontrate.
In primo luogo, aspetto non secondario, verrebbero recuperati edifici storici, che così non sarebbero “irrimediabilmente sommersi dalla dinamica dello sviluppo immobiliare [speculativo]” [1].
Ma vi sono, collegate, pure altre motivazioni, ancora più considerevoli, se possibile.
Il Kibbutz, occorre ricordarlo, non solo ha costituito l’ossatura, l’impianto attraverso il quale è sorto e si è sviluppato lo Stato di Israele -e ciò assai prima ancora che ne fosse proclamata ufficialmente la (ri)nascita-, ma rappresenta ancora oggi una formidabile esperienza di vita sociale democratica e comunitaria.
Ciò, beninteso, nonostante le crisi, i “tradimenti” del modello iniziale, veri o presunti, le problematiche nelle quali anche noi, nel nostro breve soggiorno, siamo stati coinvolti; le trasformazioni, pure dolorose, ancorché necessarie.
Vi è poi un ulteriore  elemento da considerare. Da oltre un decennio, in specie -e paradossalmente- dopo il tragico evento dell’11 Settembre 2001, è in atto una progressiva, impudente delegittimazione dello Stato di Israele. Non mi riferisco, è ovvio, alle legittime critiche a questo o quel Governo di Gerusalemme, ma al pregiudizio antisraeliano “a prescindere”, che ha inquinato, ed inquina, l’opinione pubblica progressista, i partiti della sinistra -specie in Europa-, i movimenti pacifisti, la quasi totalità delle ONG (alcune delle quali vantano origini e un passato gloriosi per quanto concerne la tutela dei diritti umani), molte tra le persone c.d di cultura, nonché una larghissima parte del mondo cattolico, che non ha mai accettato l’esistenza di uno Stato ebraico, al di là dei riconoscimenti diplomatici e degl’indispensabili rapporti, dovuti all’esigenza di regolare interessi non da poco  in quello  che ci si ostina ancora a chiamare, dopo oltre 62 anni, col nome letteralmente inventato di “Terra Santa”, per non pronunciare l’espressione tabù “Stato di Israele” .
Non mi soffermo qui ad analizzare tale fenomeno che altri hanno preso -e prendono- in considerazione in modo assai più approfondito della modesta sottoscritta [2], né il ruolo di guida svolto in tutto ciò dalle ricche dittature petrolifere arabo/islamiche o quello di sconsiderato fiancheggiatore ricoperto dall’ONU -paradossale, poiché Israele, come Stato, è (ri)nato, formalmente, grazie ad una Risoluzione ONU, la n. 181 del 29 novembre 1947-.
Ma ribadisco come, in tale contesto e in un mondo in cui l’individualismo che ignora la persona è un rischio sempre presente, la valorizzazione -tra l’altro, da parte dell’UNESCO, cioè di un organismo ONU, non dimentichiamolo- della piccola comunità solidale in grado di “far fiorire il deserto”, grazie all’impegno congiunto dei suoi membri, potrebbe avere per tutti e, in particolare per le giovani generazioni, un profondo, rilevante significato.
Maggio 2010 – Gennaio 2011                                                                                          http://www.youtube.com/watch?v=72QC8EGnxTw&feature=colike

 


[1] Così l’Editoriale di Ha’aretz del 24 dicembre 2010 dal titolo Il kibbutz come patrimonio dell’umanità, riportato da www.israele.net del 5 gennaio 2011.
[2] Per tutti, da leggere d’un fiato, vedi Fiamma NIRENSTEIN, Gli antisemiti progressisti-La forma nuova di un odio antico, RCS Libri S.p.A., Milano, 2004, pp. 391, con un’istruttiva cronologia in calce, a cura di Marco PAGANONI.