28 APRILE, MERCOLEDI
Mattinata di sole in Galilea, mentre rifletto sulle problematiche del kibbutz.
Dunque, stando anche ad articoli ben documentati in materia [1], solo un quarto dei kibbutzim funziona ancora secondo le regole originarie, fondate sull’ugualitarismo (kibbutzim comunitari), mentre gli altri hanno cominciato a pagare stipendi ai loro haverim (membri), a cominciare proprio dal primogenito, Degania Alef. Secondo un’inchiesta sono circa 180 -su 270- i kibbutzim (72%) gestiti secondo un criterio di privatizzazione, criterio all’origine del cosiddetto “nuovo kibbutz” dove sono previsti stipendi differenziati tra i membri; 65 (25%) sono gestiti in comune; e 9 (3%) sono gestiti come kibbutzim “integrati”. In questi ultimi un budget di base, distribuito in modo uguale tra i membri, si combina con lo stipendio percepito da ciascun membro in rapporto alle risorse disponibili (mi pare sia il caso di Lavi). Il kibbutz “rinnovato” o “nuovo kibbutz” sostituisce il budget con stipendi regolari, cui si possono associare altre fonti di reddito. Il kibbutz “privatizzato” comunque mantiene la proprietà comune degli strumenti di lavoro, insieme ad una rete di sicurezza in ordine ad assicurazione sanitaria, pensione, istruzione e previdenza sociale.
D’altra parte -e questo vale in primo luogo per le strutture diciamo così “ricche”, grazie al loro collegamento con industrie portanti, israeliane o straniere- vi è pure la tendenza contraria: un numero sempre maggiore di membri comprende che la “privatizzazione” danneggia la maggioranza di loro, con vantaggi solo per un ristretto gruppo. Poco più di un anno fa è uscito in Israele un volume, del quale sarebbe interessante la traduzione in italiano (o almeno in inglese), dal significativo titolo di “A casa”.
L’Autore, Assaf Inbari, nato nel 1968 nel kibbutz di Afikim (Valle del Giordano, dal quale siamo passati ieri), ricostruisce la nascita, la crescita e, a suo parere, il declino di questa realtà che ha costituito l’intelaiatura dello Stato ebraico. Nel libro sono descritte tre generazioni. Quella “rivoluzionaria” dei pionieri, portatrice dell’ideologia ugualitaria, volta alla costruzione del “nuovo ebreo”, contrapposto a quello della Diaspora: cioè di coloro i quali sfidarono la natura umana, il senso del possesso, addirittura il modo di essere genitori, decidendo di crescere i figli collettivamente, al di fuori dei tradizionali nuclei familiari “borghesi”.
Vi è poi la generazione dei “continuatori”, l’anello debole, a giudizio di Inbari, o, meglio, sottoposto a due difficili compiti: gestire il progetto dei genitori e combattere per l’indipendenza di Israele. Infine la generazione di Inbari (nato nel 1968), quella che lascia definitivamente il kibbutz per realizzare la sua vita altrove.
Egli (che attualmente risiede in kibbutz) riflette: “Se l’individualismo prevale, non abbiamo più speranza”. L’Israele che smantella i suoi kibbutzim, ritiene di seppellire il passato, ma, in realtà, si gioca il futuro. A questa concezione sembra dar ragione la tendenza degli ultimi anni, dopo quelli di crisi, che vedono un “ritorno al kibbutz” da parte dei figli che vi erano nati, ma che se ne erano allontanati per lungo tempo.
A proposito di questi “Figli del Sogno” che ritornano a casa, nota perspicuamente la scrittrice Avirama Golan: “Sfiniti dalla competizione selvaggia che è priva si sicurezza sociale ed esistenziale, ora ricordano il ritmo rilassato della loro infanzia, e il ricordo diventa più acuto man mano che invecchiano. Finché erano molto giovani e non avevano figli, pensavano di avere il mondo ai loro piedi. Ora che riescono a stento a trascorrere un po’ di tempo con i figli, cominciano a rimpiangere quella vita comunitaria che prima sembrava soffocante e limitativa” [2] .
Tengo a mente alcuni dati: gli abitanti dei kibbutzim rappresentano solo il 2,3% della popolazione di Israele, ma, in compenso,  contribuiscono alla produzione nazionale per il 36%, quanto all’agricoltura, e per il 14%, quanto al settore industriale. Vi è poi un’altra, alta, percentuale, di cui essi farebbero volentieri a meno: il 10% degli uccisi a causa del terrorismo provengono dai kibbutzim.
Ad una breve distanza in linea d’aria da noi c’è Nazaret (40.000 abitanti), di evangelica memoria, città a maggioranza araba, accanto alla quale è sorta, a partire dagli anni ’50 del Novecento, la moderna Nazaret Illit (cioè Superiore), centro industriale a maggioranza ebraica.
La verde, rigogliosa Galilea è tale per merito dei pionieri e del Keren Kayemet Leisrael (Fondo Permanente -per Israele-), l’importante istituzione, sorta nel 1901 per riscattare e valorizzare la Terra di Israele e per sostenere l’insediamento ebraico. Dopo la costituzione dello Stato, il Keren, diventò una sorta di ponte -finanziario ma, soprattutto, culturale- tra Israele e la Diaspora. Esso è responsabile per la forestazione del territorio, il che ha mutato profondamente il paesaggio e accresciuto le risorse. Si dice che Israele sia l’unico Paese al mondo nel quale il deserto, anziché avanzare, si contrae. Nella regione in cui ci troviamo ora, la Galilea, osserva Angela, tutto è stato piantato.
Campi di avocado e uliveti, mentre davanti a noi brilla il Lago.
Midgal (Torre), il villaggio natale di Maria di Magdala o Maria Maddalena; il kibbutz Ginosar (la Genezaret dei Vangeli) con l’Yigal Allon Centre, dedicato all’ecologia e all’archeologia della Galilea; a Nof Ginosar la centrale di pompaggio dell’acqua del Lago che viene immessa dell’acquedotto nazionale.
L’acqua del Lago, in origine, è salmastra poiché riceve i contributi di diverse sorgenti minerali solforose.
Oltrepassiamo Tiberiade (40.000 abitanti circa) -dedicata all’imperatore Tiberio da Erode Antipa che la costruì con l’intenzione di farne la capitale del Regno di Galilea- dove ci fermammo brevemente lo scorso anno, una delle quattro città “sante” dell’Ebraismo (le altre sono: Gerusalemme, Hevron e Tzfat) [3] .
Giungiamo al Monte delle Beatitudini, sempre assai affollato, ma ricco di mistica suggestione, propiziata dal vento -forte e dolce al tempo stesso- che vi spira.
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Il Santuario (sorto su una grotta che probabilmente è quella descritta dalla pellegrina Egeria, IV secolo) è ora tenuto dalle Suore Francescane, ma è stato frequentato fin dagli albori del Cristianesimo; la tradizione bizantina qui collocò una prima cappella.

Spirito, Luce. “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”, così si  esprime Giovanni, a proposito di Gesù, nello stupendo Prologo del suo Vangelo (1, 4-5).
“Gesù passava insegnando per città e villaggi….Un tale gli chiese. ‘Signore, sono pochi coloro che si salvano?’ Disse loro: ‘Sforzatevi di entrare dalla porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non vi riusciranno” così Luca (13, 22-30).
La preoccupazione per la “salvezza” non dev’essere improntata a criteri, per così dire, mercantilistici, ma costituire impulso per praticare la giustizia e cercare la volontà di D-o.
In breve siamo a Heptapegon, Sette Fonti (o Tabgha), col ricordo della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci,celebrato dall’antichissimo Santuario custodito dai Benedettini tedeschi, indi alla Chiesa del Primato di Pietro, raccolta e assai suggestiva perché proprio in riva al lago. Già Egeria ricordava che, tramite una scaletta scavata nella roccia, si accedeva al lago per ricordare il toccante episodio dell’incontro tra Gesù e i discepoli, ritornati -in un primo momento-, dopo i tragici fatti dei giorni precedenti, alla loro originaria occupazione di pescatori. La narrazione è presente nell’appendice del Vangelo di Giovanni al capitolo 21 dove, il Maestro, dopo aver mangiato con i suoi, riconferma Pietro a capo della sua Chiesa. Oggi è possibile raggiungere la Chiesa del Primato anche a piedi percorrendo una via pedonale (di 1 Km e ½ ) che corre a fianco della strada ordinaria.
S’impone poi un saluto al “Villaggio della Consolazione”, Kfar Nahum, Cafarnao, il villaggio di Pietro, Andrea e delle loro famiglie; dove anche Gesù abitò ed insegnò; qui tra l’altro pronunciò quel discorso, riportato da Giovanni nel Capitolo 6 del suo Vangelo, che lascia interdette le persone a lui più vicine: “Il pane che io dò è la mia carne per la vita del mondo”.
In ammirazione dell’antica Sinagoga, risalente al V secolo e.v., costruita sopra quella frequentata da Cristo.
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Salutiamo per qualche ora la Galilea: passiamo il Giordano (due sorgenti del fiume sono in territorio siriano, una in territorio israeliano) ed entriamo in Golan, zona amministrata da Israele ed annessa (il solo territorio, non la popolazione) con una legge approvata dalla Knesset nel 1981 [4] .
Le Alture del Golan, in questo quarantennio di amministrazione israeliana (erroneamente chiamata “occupazione”, con la conseguente colorazione negativa, da giornalisti prevenuti e politici frivoli), sono state, nella quasi totalità, bonificate e sminate, dopo il ventennio d’incuria da parte dei siriani, i quali si servivano della zona esclusivamente a scopi militari, per colpire dall’alto la Galilea.
Vigneti di alta qualità, cereseti e meleti si alternano a boschetti di eucalipti (ricordate Elie Cohen?) e piccole basi militari costituite dopo la Guerra di Yom Kippur del 1973.
Incontriamo gruppi di carri armati Merkhava (fotografiamo imperterriti, anche se, a dire il vero, non sappiamo se sia consentito).
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Siamo a poco più di sessanta chilometri da Damasco.
Esercitazioni militari, mucche al pascolo e pale eoliche. Rocce vulcaniche.
Davanti a noi è la città di Quneitra -recuperata dalla Siria a seguito dell’armistizio del 1974, patrocinato, come sappiamo, da Henry Kissinger- e gl’insediamenti delle forze ONU, che stanno a guardia della zona cuscinetto, costituita nella medesima occasione. Tuttavia Damasco, sin da allora, non ha cessato di accusare ingiustamente Israele di aver distrutto la città con bulldozer e dinamite prima di renderla ai siriani. In realtà, dopo la decisione di restituirla alla Siria, la cittadina non fu propriamente bombardata, ma le sue case furono fatte saltare in aria prima del ritiro.
Anziché rimediare ai danni causati da entrambe le parti nel corso degli scontri bellici e dai soli bombardamenti siriani -situazione attestata dai giornali del tempo- nel periodo tra le due guerre (1967 e 1973, entrambe caratterizzate da un attacco siriano), invece di permettere agli abitanti di Quneitra di farvi ritorno come previsto dall’accordo di separazione delle forze -oltre 40.000 siriani furono costretti alla fuga-, la Siria ha lasciato la città in rovina. Hafez Assad fece pure costruire una nuova Quneitra un paio di chilometri ad est della vecchia città e montare pannelli illustrativi, nonché un intero museo che condannano a gran voce i cosiddetti “crimini sionisti”.
Là fu condotto, da Bashar Assad, a scopo propagandistico per mostrargli quanto crudeli fossero gl’israeliani, anche Papa Giovanni Paolo II, in occasione della sua improvvida (in quanto prontamente strumentalizzata) visita in Siria del maggio 2001.
Giungiamo col pullman in cima al Monte Bental a ben 1171 metri sul livello del mare.

Monte Bental

Al di sopra delle nostre teste alcune cicogne volano leggere, sfruttando le correnti d’aria.
Il panorama è incredibile, come incredibile è questo sito nel suo insieme perché riunisce in sé aspetti in opposizione l’uno con l’altro.
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C’è palpabile il ricordo della guerra: lungo il sentiero che gira tutto intorno alla cima e nei resti delle trincee un artista, di cui ignoro il nome, ha costruito sculture con pezzi di missili e di carri armati.

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E non mancano cippi e lapidi in memoria dei caduti. Lacrime e ricordi di ragazzi uccisi nell’adempimento del loro dovere.

Laggiù i resti di una scuola militare siriana.
C’è un grande silenzio che evoca precarietà. A più riprese si torna a parlare, da parte dei politici occidentali, di “restituzione” del Golan alla Siria, come se la legge di annessione, che pure sollevò a suo tempo un putiferio a livello ONU & C., non esistesse, come se il quarantennio di cura e di pace israeliani -lo ripeto, a costo di essere monocorde- nulla valessero in confronto al ventennio siriano fatto di abbandono e piani bellici.
Nel Golan, poi, sarà bene ricordarlo ancora una volta, è concentrato circa il 40% delle risorse idriche di Israele.
Ma ci sono pure il testardo attaccamento alla terra, alla vita, iscritti nel DNA degli israeliani.
Gli abitanti del Golan coltivano il vino più pregiato del Paese, magari boicottato dalle solite anime…brutte, ma chissà quante di loro se ne appropriano di nascosto per trincarselo, lontano da sguardi indiscreti…Vigneti e birrerie…
“Varietà di frutta fresca, succhi di frutta naturali, diversi tipi di pane fragrante, formaggi, olio extravergine di oliva, miele…e tanto altro ancora…” In un bar dove ci fermiamo per un caffè acchiappo al volo un cartoncino che reclamizza tali prodotti e i luoghi in cui puoi acquistarli: Golan Magic si chiama questo mondo, tutto da conoscere e da scoprire [5] .
Accetto l’invito: con Anastasia siamo conquistate da un barattolone di miele “ai fiori selvatici” -squisito, così verificherò ritornata a casa-.


[1] A tale proposito v., tra gli altri, Eli ASHKENAZI, Kibbutz, cento anni ben portati, in Ha’aretz, 7 gennaio 2010, riportato da www.israele.net.
[2] A. GOLAN, Ritorno al kibbutz, in Ha’aretz, 18 aprile 2007, riportato da www.israele.net.
[3] Per quanto riguarda i luoghi intorno al Lago di Tiberiade, vedi anche il Diario 2009, 26 febbraio, dove il tema è trattato in modo ampio.
[4] V. pure, in merito, il Diario 2009, 25 febbraio.
[5] V., in merito, www.magic-golan.co.il oppure, per gli appassionati di birra: www.beergolan.co.il