(Titolo originale Scenes from a village life, 2009)

 
Traduzione dall’ebraico di Elena Loewenthal, Feltrinelli Editore Milano, Collana I Narratori, Marzo 2010, pp. 184
 
“Perché si sono inariditi tutti i cuori? Me lo sai dire tu? No?”
 
La vicenda si svolge in un immaginario villaggio israeliano, situato fra le alture della regione di Manasse, chiamato Tel Ilan, costruito circa cento anni prima da un gruppo di intrepidi pionieri, uccisi successivamente a seguito di un attacco arabo. Puoi vederne il piccolo monumento commemorativo, peccato davvero che sia sporco e circondato da erba ingiallita.
Ben visibile è ancora la torre dell’acqua: se hai voglia di salire fino in cima c’è “ una postazione di cemento con dei sacchi di sabbia e degli spioncini, residuo della Guerra di Indipendenza”.
Tel Ilan è un posto magnifico per il quale non è certo sprecato l’appellativo di “Provenza di Israele”, poiché il panorama, i vigneti, il borgo con le case coloniche fine Ottocento dai tetti rossi, ben tenute (ad un primo sguardo), ne fanno una meta privilegiata per i gitanti del fine settimana. Ogni sabato infatti piovono nel centro del paese colonne di automobili, i cui passeggeri visitano cantine, banchetti di formaggi artigianali, olive, miele, spezie e altri prodotti genuini, senza trascurare le esposizioni di mobili (quest’ultimi peraltro provenienti da Paesi dell’Estremo Oriente, come Burma o Bangladesh).
Se però ti addentri per le strade portanti i significativi nomi di Via dei Fondatori o Via del Salice, lentamente ti accorgi di certi muri scrostati, di bacheche per gli annunci per lo più non aggiornate e magari arrugginite; curiosando poi sul retro delle case ti rendi conto che, nonostante vi siano ancora le stalle per i vitelli all’ingrasso o le incubatrici per i pulcini, l’allevamento del bestiame è stato da tempo abbandonato, così come l’agricoltura, malgrado, ad esempio, le colline siano ancora coperte di vigneti.
Soprattutto, al di là dell’aspetto ridente e tranquillo, il luogo comunica, dopo un po’ di tempo, una certa inquietudine. Tel Ilan potrebbe essere definita un “non luogo”, un’entità posta in una sorta di sospensione spazio/temporale, a parte fugaci accenni alla storia concreta di Israele.
L’inquietudine è potenziata dal fatto che non è facile incontrare per strada i suoi abitanti; d’altronde, allorché ti imbatti in qualcuno di loro, ecco storie complesse, inquietanti. Segreti sepolti in cantina o nell’anima, enigmi mai chiariti. Le voci umane e i suoni della natura si odono per un po’, indi si dissolvono, come l’abbaiare nella notte di un cane, cui quello di un altro, a distanza non facilmente commensurabile, fa eco.
Grande, grandissimo Amos Oz. Il suo ultimo romanzo, Scene dalla vita di un villaggio, appena uscito in Italia da Feltrinelli con la sapiente traduzione di Elena Loewenthal, ci conduce in un mondo che ti pare assurdo, dalle domande senza risposta.
La narrazione si snoda lungo otto magistrali racconti (alcuni narrati in prima persona), dipinti con quella profondità psicologica ben conosciuta dai lettori, dove i protagonisti di una storia talora fanno capolino in un’altra; abile accorgimento dell’Autore per consentirci di approfondire la loro conoscenza, grazie ad un certo particolare fisico o ad un pensiero espresso, magari lasciando una frase a metà.
Nell’atmosfera solo in apparenza bucolica diventiamo partecipi di tragici, quanto inspiegabili, episodi, ci confrontiamo con indecifrabili presenze, ci interroghiamo su sparizioni o attese, non soddisfatte, di eventi o di persone.
Certo che mai come leggendo queste pagine mi è venuta alla mente la frase che William Shakespeare mette in bocca al suo Amleto: “Ci sono più cose tra cielo e terra, Orazio, che non ne sogni la tua filosofia”.
Ogni storia raccontata affonda le proprie radici in una ferita, magari rimossa dalla coscienza, suscettibile però di riprendere a sanguinare all’improvviso, quando meno te lo aspetti. In ogni caso la cicatrice non è mai scomparsa.
Prendi, per esempio, la Dottoressa Ghili Steiner, il medico del villaggio, diagnostica infallibile. Nubile, magra, tipo energico dai capelli grigi cortissimi, viso severo, atteggiamento burbero verso i pazienti. Di lei alcuni rammentano che, da giovane, aveva avuto una storia d’amore con un uomo sposato, ucciso durante la Guerra in Libano del 1982.
L’unico legame affettivo è rappresentato oggi dal nipote ventenne, Ghideon Ghet, militare di leva, figlio di sua sorella residente altrove.
In un tardo pomeriggio invernale Ghili aspetta, alla fermata del pullman proveniente da Tel Aviv, l’arrivo del giovane che, reduce da un periodo trascorso in ospedale per problemi renali, è stato inviato dalla madre a casa della zia in campagna, per ritemprarsi.
La dottoressa, prima di uscire, ha cucinato con amore la cena per il nipote, gli ha preparato la stanza a lui riservata da sempre, senza dimenticare giornali, riviste e alcuni libri che si augura siano di gradimento del caro ospite, visto che a lei sono piaciuti.
Purtroppo, però, il ragazzo non giungerà all’appuntamento: non si saprà mai che fine ha fatto Ghideon al quale “lei voleva più bene che a qualunque essere umano al mondo”.
Sparito nel nulla, come Nava, la moglie del Sindaco di Tel Ilan, Benni Ravni, la quale, prima di andarsene, ha fatto recapitare al marito, in Municipio, un biglietto scritto di proprio pugno: “Non preoccuparti per me”.
Quel cane, un po’ curioso e un po’ diffidente, che segue Benni nelle sue peregrinazioni alla ricerca di Nava, è davvero un cane, oppure……?

E che succede ogni notte nella casa, posta in fondo al villaggio, dove abitano due persone solitarie: Rahel Franco, insegnante, vedova ancora piacente, insieme col padre, colui che in anni ormai lontani era stato il deputato laburista Pesach Kedem? Ottantasei anni, a suo modo ancora lucido, pur chiamando talora la figlia col nome della defunta moglie Abigail, questi, simile nell’aspetto ad un uccellaccio del malaugurio (o, come scrive Oz, caratteristico per quella postura ad angolo retto che “conferiva al suo corpo la forma di una forca”), immancabile basco nero calcato sulla testa, è in lite col mondo intero: dai cassetti di casa che si rifiutano di aprirsi, al vento che gli scompiglia le carte sul tavolo, all’elettronica.
Ma la fonte principale della sua ira è che l’uomo non “aveva mai perdonato al partito di essersi dissolto ed estinto, venticinque anni prima”. Anzi, in occasione delle sue interminabili tiritere contro l’immoralità dell’attuale mondo politico, si diverte a storpiare i cognomi di questo o quel membro del governo in carica o ad affibbiare significativi epiteti ad un paio di compagni di partito, defunti da un pezzo (“compagno Onta” e “compagno Fallimento”).
La meravigliosa capacità dello scrittore israeliano nel regalarci tipi umani dove sono mescolate tenerezza e bonaria ironia è particolarmente intensa nell’indulgere su questa figura, ispirata, immagino, da esponenti politici incontrati da lui durante gli anni giovanili.
E ora, che cosa tormenta il vecchio Pesach? Egli è convinto che qualcuno, durante la notte, scavi sotto le fondamenta della loro casa: chi saranno questi…muratori e che cosa cercano? Invano Rahel tenta di persuaderlo sull’inesistenza di presenze ostili. Il vecchio azzarda tutte le ipotesi, compresa quella secondo la quale il responsabile altri non è che un pacifico studente arabo con sogni di scrittore, Adel, ospitato in una piccola costruzione di loro proprietà, posta di fronte, in cambio dell’aiuto a Rahel nello sbrigare piccole incombenze di casa: “Ma certo, è venuto qui apposta con l’inganno, per rivendicare il suo diritto al ritorno, riprendersi il cortile e la casa in nome di qualche…trisavolo che forse stava su questa terra ai tempi degli ottomani! O dei crociati, forse?”
Lascio al lettore il piacere di scoprire l’evolversi degli eventi in questo racconto, il più lungo e forse il più significativo degli otto; oltre naturalmente a formulare ipotesi sulla natura di tale, parrebbe indecifrabile, “scavare”.
Occasioni perdute d’incontro per due solitudini. Kobi Ezra, diciassettenne dall’espressione sul viso come di stupore mesto, è innamorato della Signora Ada Devash, cioè “Miele”, trentenne divorziata, personaggio, ad un primo sguardo, solare, addetta all’ufficio postale e alla biblioteca del paese, dove lavora con impegno fino al tramonto. Kobi è discreto e non osa rivelare i propri sentimenti, ma la donna ha compreso la situazione e lo tratta con una certa delicatezza di modi, senza rinunciare, a tratti, di provocarlo. Alla fine, il giovane abbozza un maldestro approccio, che però conclude con una fuga, poiché gli manca il coraggio necessario per dichiararsi. Ne conseguono inevitabili tormenti e la consapevolezza che, da quell’istante in poi, nessun rapporto sarà più possibile tra loro due: perduta l’occasione, essi si sono trasformati in due estranei.
Anche Ada prova un intimo dolore, un sentimento di vuoto d’amore collegabile ad una ferita risalente a diversi anni prima, un trauma sempre presente.
Si canta a casa di Abraham e Dalia Levin, una serata, preparata con scrupolo maniacale, incentrata su canti ebraici e russi velati di nostalgica malinconia e inni patriottici legati alla Guerra d’Indipendenza del 1948. All’incontro è presente una buona parte delle persone conosciute nelle vicende precedenti: “Era così bello cantare tutt’insieme in cerchio in quella notte tempestosa di pioggia, ripescando vecchie canzoni di un tempo in cui tutto era chiaro a tutti”.
Ma su tutti aleggia, senza che alcuni se ne rendano conto, il ricordo, anzi la presenza palpabile, di una tragedia verificatasi quattro anni prima, proprio in quel luogo.
Chi era stato a chiamare per nome all’inizio della serata il protagonista -voce narrante-, senza che questi riuscisse ad identificarne la voce? E che cosa cerca egli, per tutta la serata e a più riprese, in preda a quell’irresistibile richiamo verso una certa stanza della casa?
 
Il romanzo, adatto anche ad una riduzione teatrale per il suo incentrarsi su caratteri e temperamenti, ci trasmette assai più di quanto il titolo -neutro, ritengo volutamente- lascerebbe supporre. Ringrazio tra me e me l’Autore -pure spesso piuttosto critico nei confronti della politica attuata dal Governo del suo Paese- perché, in un’intervista rilasciata al quotidiano Ha’aretz, ha dichiarato che, nell’ambientazione dell’opera, non è affatto adombrato Israele, come, immagino, sarebbe portato a fare un certo numero di lettori.
Oz si riferisce in particolare all’ultimo racconto in cui è descritto un luogo malsano e paludoso, dominato dalla morte, nel quale ogni opportunità positiva viene lasciata cadere.
Protagonista è piuttosto l’universale fatica del vivere quotidiano, la consapevolezza di come, a causa delle, sovente imprevedibili, vicissitudini che ci sovrastano, la speranza di una vita nuova possa a volte scomparire in un attimo. Non sempre accade ciò, ma è necessario metterlo in conto.
E poi c’è il mistero dell’esistenza, spesso impastato con l’assurdo.
Amos Oz ci dona un sorprendente affresco di vita vissuta, stupendo proprio perché striato di mille e mille incongruità.
D’altronde, come afferma convinto un autorevole giurista padovano, la bellezza non è forse un’armonia sull’orlo del caos?
 
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