ALMA MATER STUDIORUM

UNIVERSITA’ DI BOLOGNA

GIOVEDI 5 NOVEMBRE 2009, ORE 17,
Palazzo Hercolani, Strada Maggiore 45, AULA JEMOLO
 
PRESENTAZIONE
del nuovo libro di Georges Bensoussan,
Israele, un nome eterno.
Lo Stato d’Israele, il sionismo e lo sterminio degli ebrei d’Europa,

                                                                                        UTET 2009

Introduce e modera ARRIGO PALLOTTI (Università di Bologna)

Ne discutono con l’Autore:
LUCA ALESSANDRINI (Istituto Parri, Bologna),
ALBERTO CAVAGLION (Università di Firenze),
MAURA DE BERNART (Università di Bologna-Forlì)

Segue dibattito

Lo Stato di Israele è davvero nato per compensare il popolo ebraico della tragedia della Shoah?
E’ vero che lo Stato ebraico deve la sua creazione al senso di colpa del mondo occidentale per non aver impedito il genocidio? E il mondo arabo è davvero innocente, senza responsabilità rispetto allo sterminio di 6 milioni di persone?
 
GEORGES BENSOUSSAN – già autore di una monumentale storia del sionismo (Il sionismo. Una storia politica e intellettuale. 1860-1940, Einaudi, 2007) e uno dei massimi specialisti della Shoah – pur non negando l’esistenza di un legame intrinseco tra Shoah e Stato di Israele, dimostra in questo suo ultimo studio come la natura di tale relazione sia essenzialmente politica e non storica, ovvero non di causalità lineare, poiché il primo evento non legittima né costruisce il secondo.
 
Il titolo si richiama a un versetto della Bibbia. Il nome eterno è quello che Dio, secondo il libro di Isaia, attribuisce agli Eunuchi, quegli uomini condannati a morire senza discendenza e ai quali Dio dona, « meglio che dei figli o delle figlie » “un nome che non morirà mai ». La stessa espressione che Israele sceglierà per intitolare il suo memoriale della Shoah del 1953, che si chiama appunto Yad Vashem, dall’unione di Yad (Un monumento, una casa) e Chem (un nome), con l’obiettivo di dare una discendenza a coloro che non possono più averla, tramite il ricordo perenne per coloro che furono privati del diritto di vivere.
Scegliendo, dunque, questo titolo, Un nome eterno, Bensoussan ci propone, con uno studio molto ben argomentato e documentato, una riflessione attorno all’intenso rapporto sulla memoria della Shoah che attraversa la coscienza ebraica e israeliana. Il sotto titolo del libro, “Israele, il sionismo e la distruzione degli ebrei d’Europa" evoca tre eventi distinti, di importanza enorme a livello internazionale, e annuncia la trattazione di un campo molto vasto, denso di implicazioni e complessità, tuttavia affrontati non nell’ottica di ripercorrerne la storiografia – d’altronde Bensoussan è uno storico delle idee – ma di riprenderli in una prospettiva critica e dal punto di vista del processo di costruzione della memoria di ognuno di essi.
Un tema certamente ambizioso e complesso per gli intrecci e le contraddizioni che lo caratterizzano, eppure è compito dello storico non indietreggiare di fronte alla complessità di un evento e di tentare di sbrogliare anche le matasse più aggrovigliate, tanto più che Bensoussan si è scelto il compito di smontare una serie di miti e luoghi comuni su Israele, talmente radicati non solo nell’immaginario collettivo, ma anche nell’opinione di molti storici e opinionisti, da risultare quasi dei dogmi.
 
Il primo di questi è certamente quello secondo il quale la “creazione” dello Stato di Israele del 1948 non sarebbe che il prodotto della Shoah, vale a dire una conseguenza quasi diretta della catastrofe ebraica del XX secolo. Questa convinzione – certo rassicurante poiché conferisce alla storia un significato di redenzione e, in particolare, alla Shoah un carattere teleologico di riscatto finale – è avvalorata dalla prossimità cronologica dei due avvenimenti, dal momento che solo tre anni separano i due eventi.
Così scriveva, ad esempio, nel 1958 il celebre scrittore François Mauriac, pur animato da buoni sentimenti : “Sion è resuscitata dai crematori e dai carnai. La nazione ebrea è resuscitata dai milioni di morti”, traducendo quindi un’idea già molto diffusa nel dopoguerra che questo Stato sia nato da una tragedia e da un gesto compassionevole dell’Occidente.
Ed è proprio questa falsa evidenza che lo storico francese contesta con forza, ricostruendo un contesto molto più ampio del periodo solitamente citato 1945-1948. Partendo dall’assunto che “qualunque cronologia esprime un giudizio”, Bensoussan allarga lo sguardo della sua analisi, tracciando un vasto quadro che va dal 1933, avvento del nazismo, fino ai giorni nostri.
 
Il libro analizza con grande rigore e con esempi tratti da una molteplicità di fonti -che spaziano dagli archivi del sionismo, dai discorsi di politici e intellettuali, israeliani e non, alle opere di altri storici e ricercatori, ma anche dalla poesia e dalla letteratura- la complessità di questa relazione che è frutto di una costruzione mentale ben posteriore al 1948, mettendo in luce l’incomprensione di fondo e i diversi errori di analisi che hanno nutrito il mito estremamente coriaceo di una catastrofe all’origine dello Stato ebraico.
 
Non soltanto la Shoah non ha “causato” la fondazione dello Stato ebraico, ma -al contrario – ha rischiato di far fallire la nascita stessa di questo progetto.
E’ falso sostenere, ad esempio, che il genocidio abbia avuto come conseguenza il rafforzarsi del sionismo perché è vero, invece, esattamente il contrario: la Shoah ha seriamente minato le basi del sionismo, segnandone la disfatta, seppur parziale, e questo non solamente sul piano strettamente politico, ma anche sul piano morale e demografico.
Fallimento politico, perché il movimento sionista non riuscì a convincere la maggioranza degli ebrei a raggiungere la Palestina prima che si chiudessero in Europa le porte dell’emigrazione. Fallimento morale, perché nel corso della guerra lo Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina prima della costituzione dello Stato, fu incapace di salvare gli ebrei perseguitati d’Europa. E infine, fallimento demografico, in quanto la Shoah, con le sue spaventose perdite umane, ha minato le basi stesse del progetto sionista, accentuando quella debolezza demografica che ancora oggi pesa nel conflitto arabo-israeliano. Del tutto consapevole di questa perdita demografica come minaccia mortale per l’esistenza di Israele era lo stesso Ben Gurion, capo dell’esecutivo sionista in Eretz Israel (nome ebraico della Palestina prima del 1948) il quale, il 6 dicembre 1942, quando anche in Palestina era maturata la consapevolezza che quello che stava accadendo in Europa non era un pogrom ma un vero e proprio genocidio, così dichiarava “Lo sterminio dell’ebraismo europeo è una catastrofe per il sionismo, non ci sarà più nessuno con cui costruire il paese!”.
 
D’altro canto, incalza Bensoussan nella sua analisi, se anche la Shoah fosse veramente la causa che ha prodotto la creazione di Israele, come spiegare allora l’accoglienza fredda riservata ai sopravvissuti arrivati in Israele? Solamente un anno dopo la sua creazione, un terzo della popolazione israeliana è costituita da ebrei sopravvissuti o con un legame familiare diretto con la Shoah.
E’ vero che nei primi 15 anni di vita, lo Stato ebraico fu impegnato nella duplice opera di costruzione e di difesa dalle aggressioni dei Paesi arabi circostanti, dunque la priorità non era data all’ascolto dei sopravvissuti; tuttavia, fino al processo Eichmann del 1961, la Shoah non venne occultata come comunemente si crede, ma venne vissuta come un qualcosa di disincarnato e astratto, come un evento di cui si parlava molto, onnipresente sulla scena politica israeliana, ma senza integrare nella memoria la parola dei testimoni. Perché tacere che i sopravvissuti, anche nello Stato ebraico, e non solo nell’Europa del dopoguerra, trovarono indifferenza e furono costretti al silenzio? In Israele erano inoltre percepiti come un fastidioso ricordo della diaspora e come un’immagine che i sionisti più ideologizzati disprezzavano : quella dell’ebreo vittima e umiliato, simbolo di una presunta viltà di fronte alla deportazione e alla morte, in pieno contrasto con l’immagine forte e vitale del nuovo Israeliano, il fiero pioniere della propaganda sionista, il cui destino andava costruito in continuità con gli Ebrei dell’antichità.
Bensoussan analizza con coraggio le contraddizioni di una situazione in cui la Shoah è costantemente al centro del discorso pubblico israeliano degli anni Cinquanta, ma appare quasi una memoria astratta, una narrazione senza nome e senza volto, svincolata com’è dalla parola di chi veramente l’ha vissuta. Il periodo 1945-1967 fu caratterizzato contemporaneamente dalla rimozione e dall’onnipresenza della tragedia nella coscienza israeliana.
L’analisi dello storico procede per mettere in luce come lo Stato di Israele ha gestito la memoria del genocidio dal dopoguerra a oggi, soffermandosi a lungo sulla tappa fondamentale del processo Eichmann, che non solo libera per la prima volta la parola dei sopravvissuti, finalmente ascoltati in pubblico, ma che assegna a Israele il ruolo di portavoce universale del mondo ebraico. Un ulteriore cambiamento di percezione della Shoah avviene con il traumatismo della guerra dei Sei Giorni del 1967 e, ancor più, con la guerra di Yom Kippur del 1973, quando Israele avverte profondamente il senso della propria precarietà. L’angoscia e la paura di scomparire letteralmente dalla terra riattivano il ricordo del genocidio e provocano un mutamento nella coscienza israeliana. Ma il ricordo della tragedia si risolve essenzialmente nella celebrazione della rinascita nazionale dell’ebraismo, attraverso la forza del suo esercito e la solidità, malgrado tutto, del suo Stato. La Shoah, i sopravvissuti, diventano pertanto un evento da commemorare allo stesso modo dei soldati israeliani morti in guerra difendendo la propria patria, poiché “Lo Stato ebraico dei primi decenni sembrava (..) non poter concepire la memoria della Shoah senza associarla al concetto di eroismo, (…) come se si trattasse di due parti complementari: la morte  ‘onorevole’ degli uni riscattava la morte ‘ vergognosa’ degli altri
Ma riappropriarsi e impossessarsi della memoria del genocidio – avverte Bensoussan – non è solamente volontà di commemorare per Israele, ma è anche un modo, quando la fede religiosa da sola non basta più, per creare un’identità nazionale, in un Paese vede triplicare in pochi anni la propria popolazione, con immigrazioni di comunità diversissime tra loro come gli Ebrei originari dal mondo arabo-musulmano, profondamente disprezzati dagli esponenti dello Yishuv, a maggioranza ashkenazita.
Dalla seconda metà degli anni Settanta, la Shoah diventerà una vera e propria religione civile in Israele, una sorta di cemento ideologico che unisce tutti gli Ebrei.
Ed è qui che Bensoussan, rispetto ad altri storici, si distingue per la lucidità spietata della sua analisi, segnalando il pericolo di una simile memoria trasformata in religione civile. Perché la memoria della Shoah, se, da un lato, unisce tutti gli Israeliani in un unico destino, dando loro la possibilità di ricompattarsi in un unico popolo, superando diversità spesso fortissime tra le comunità, dall’altro li imprigiona nel perenne ricordo del genocidio,  in una memoria angosciante dalla quale non si esce.
Con il moltiplicarsi di monumenti (400 in Israele dedicati alla Shoah), commemorazioni, iniziative di studio e, soprattutto, viaggi-pellegrinaggio ad Auschwitz-Birkenau, afferma lo storico, gli Israeliani si sono riscoperti profondamente Ebrei, identificandosi totalmente in quell’immagine della diaspora a lungo rimossa e disprezzata. Con il problema, però, di occultare completamente l’immagine positiva di quel mondo ebraico scomparso nella Shoah, cioè la vita delle comunità prima della catastrofe e, dunque, con la conseguenza di rinchiudersi ossessivamente nel ricordo del genocidio e nella consapevolezza di un destino difficile, pesantemente segnato dalla sindrome dell’assedio e dell’abbandono.
 
Bensoussan riprende il mito della “creazione” di Israele come dono dell’Occidente alle “vittime ebree” -oppure nella variante, ugualmente diffusa, di Israele nato come rivincita degli Ebrei di fronte all’antisemitismo assassino dei pogrom russi di fine Ottocento- per dimostrare come un’interpretazione così superficiale rischia di sottovalutare tutta la storia e l’importanza del sionismo e della forza dello Yishuv, che nel corso degli anni Trenta possiede tutte le infrastrutture necessarie per il funzionamento di un organismo statale: le organizzazioni economiche e agricole, i sindacati, la sicurezza sociale, un esercito, delle biblioteche e delle scuole dove si insegna, si parla, si scrive in ebraico.
Nemmeno la questione del tanto sbandierato senso di colpa come elemento decisivo per Israele tiene, a ben guardare i fatti, poiché non corrisponde alla realtà del dopoguerra. Gli archivi degli anni 1945-1948 di Londra e di Washington non lasciano trasparire nulla al riguardo: negli undici mesi del processo di Norimberga la Shoah resta relegata in secondo piano; infine, nella stessa decisione dell’Onu del 1947, il senso di colpa ha meno importanza della consapevolezza dell’inizio della guerra fredda e della colonizzazione.
Bensoussan sottolinea che la Gran Bretagna scelse di astenersi dal voto del 29 novembre 1947 e che la posizione degli Stati Uniti fu a lungo influenzata dall’antisionismo del segretario di stato George Marshall, fermo oppositore all’idea di costituire uno stato ebraico in Palestina.
 
Infine, lo storico si attacca a rileggere due varianti delle teorie cosiddette negazioniste che negano la legittimità di Israele come Stato nato dalla Shoah, sulla base del fatto che sostengono la non esistenza del genocidio ebraico, il quale sarebbe un’esagerazione, frutto dell’invenzione e delle manipolazioni degli ebrei, usate per ottenere la conquista della terra e del diritto a essere nazione.
Dietro questa teoria, ammonisce Bensoussan, sta qualcosa di molto più pericoloso di un’opinione. Perché chi nega il diritto all’esistenza di Israele agita lo spettro del complotto ebraico mondiale, “un delirio antisemita ricorrente”, oggi particolarmente fecondo in molti paesi arabo-musulmani.
E ancora: Israele ha usufruito della colpa occidentale a discapito dei popoli arabi? Secondo questa interpretazione, che rispetto alla precedente costituisce una variante ancora più pericolosa, l’Occidente avrebbe scaricato sui Palestinesi e, più in generale, gli Arabi il “problema” degli ebrei, assegnando loro il diritto a costituirsi come stato su di un territorio non loro. Una forma di negazionismo che, secondo Bensoussan, occulta completamente il legame tra il popolo ebraico, la terra e la lingua che ne è scaturita. Lo storico moltiplica gli esempi, suffragati da numerose fonti documentarie, per rimuovere l’idea che il mondo arabo non abbia nulla a che vedere con la Shoah. Quanti conoscono la storia di profonda emarginazione delle comunità ebraiche vissute nei paesi arabo-musulmani che proprio per affrancarsi da una situazione di umiliazione e di paura costante per la propria vita si allinearono alla causa sionista? E chi ricorda ancora che il Libro bianco britannico sulla Palestina del maggio 1939, che chiudeva le porte a centinaia di migliaia di ebrei che cercavano di scappare da una morte certa in Europa, fu la conseguenza della sola pressione araba su Londra?
 
Con Un nome eterno Georges Bensoussan conduce il lettore in una storia dalla lettura avvincente, dando un’analisi lucida e appassionata che si legge come un’opera di natura storica e politica, ma anche psicanalitica e profondamente letteraria. Sessant’anni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, il peso della Shoah nella vita politica israeliana è più forte che mai e influenza l’atteggiamento e il comportamento di tutti. Israele è oggi percepita e riconosciuta come il centro mondiale dell’ebraismo. Ma, nella battaglia dei simboli che imperversa ai nostri giorni, la memoria della Shoah come elemento fondante può arrivare persino a delegittimarne subdolamente l’esistenza. Perché nel momento in cui Israele pone la propria legittimità su una tragedia, cancella il carattere veramente politico del progetto sionista che era innanzitutto quello di liberare la condizione ebraica dalla maledizione del “popolo che dimora solo”.
 

 
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