(Titolo originale Hemingway Ve-Geshem Ha-Tziporim Ha-Metot)

 
Trad. Elena Loewenthal, Ed. Il Saggiatore, 2008,  pp. 193
 
“E l’immenso impero che si chiamava Urss si è frantumato nella betoniera della storia…..Nulla di ciò che lui aveva conosciuto esiste più, a parte il piccolo Tolik-Tolka….che sarà l’unica conoscenza in tutta questa estraneità qui, loro due si riconosceranno subito di sicuro….”
 
Nel variegato universo della letteratura israeliana non mancano gli autori immigrati dai Paesi dell’ex blocco sovietico, con il bagaglio di cultura, amarezze ed ironia, tipici di chi ha lasciato un contesto ancora carico di sogni di grandezza, ma forse già consapevole della propria imminente caduta.
Uno di questi è Boris Zaidman. Nato nel 1963 a Kishinev in Moldavia (allora Unione Sovietica), a dodici anni è immigrato in Israele insieme alla famiglia. Diplomatosi in Comunicazione visuale presso l’Accademia Bezalel di Arte e Design di Gerusalemme, Zaidman ha lavorato per molti anni nel campo della pubblicità e della comunicazione di marketing come grafico, art director e copy writer e insegna Comunicazione presso alcune istituzioni accademiche.
Hemingway e la pioggia di uccelli morti, il suo primo romanzo, compone la terzina di finalisti del Premio ADEI WIZO 2009 (insieme a Perché non sei venuta prima della guerra? di Lizzie Doron e A un cerbiatto somiglia il mio amore di David Grossman) che ogni anno gratifica il miglior romanzo di argomento ebraico pubblicato in Italia.
Il protagonista -alter ego dell’A.- è Tal Shani, uno scrittore israeliano -immigrato con la famiglia dall’Ucraina all’età di tredici anni- invitato dall’Agenzia ebraica, con una sbrigativa telefonata, a partecipare, nel suo Paese d’origine, anzi nella città in cui è nato -Dniestrograd-, ad una sorta di “fiera della cultura israeliana” nella quale tenere incontri e conferenze sul suo primo romanzo pubblicato in ebraico (“con nostro grande orgoglio”). Tal è un tipo difficile, dal carattere scontroso: all’inizio, complice il fatto di aver appena terminato un mese da riservista al valico di Karni, è sul punto di rifiutare, poi accetta di aderire all’iniziativa, il cui vero scopo principale, ça va sans dire, è persuadere quante più persone possibili a compiere l’aliah in Israele. Ovviamente, lo avverte il suo interlocutore telefonico, “acqua in bocca” sul mese al check point di Karni: “I posti di blocco” conclude “avranno modo di conoscerli da soli, se solo riusciamo a spingerli qui con la tua propaganda”.
Ciò che induce Tal a ritornare nella patria di origine non è tanto l’intento, per così dire, patriottico del viaggio, quanto il desiderio, sulle prime forse non del tutto consapevole, di ritrovare il se stesso della propria infanzia; e ricomporre le sue diverse identità.
Dunque: dall’israeliano adulto Tal Shani al piccolo ucraino Anatolij Schneidermann, detto Tolik –o Tolka o Tolinka o Tolijaga- che vive con i genitori in un modestissimo appartamento, dove teme che i tedeschi (i “Fritzi”) lo vengano a prelevare come era accaduto tanti anni prima, durante la guerra, al nonno, che portava il suo stesso nome, sparito ahimé nel nulla.
Riprende così vita Tolik, dedicatario del romanzo, la cui difficile vita in Unione Sovietica ha un sovrappiù nel fatto di essere ebreo.
Tolik assume via via i diversi caratteri: c’è Tolik-Frank, nascosto come Anna in un piccolo ambiente, angosciato di essere scovato dai nemici. Le situazioni di ogni giorno vengono trasfigurate. Ad esempio leggiamo la descrizione minuziosa ed efficacissima, improntata a comicità paradossale, del terrore provato dal piccolo, solo in casa (il padre, chissà come mai, ritarda oltre ogni dire il ritorno dal lavoro) quando vede, proprio diretti verso casa, sua due militari tedeschi su motocicletta fornita di sidecar…. Solo all’ultimo egli comprende che in realtà si tratta dello stesso padre, cui un conoscente militare aveva dato un passaggio su una moto, quella sì “bottino preso all’esercito tedesco”!
Tolik-Venerdì, invece, trascorre memorabili estati nel giardino di Rosa-Robinson. Costei, detta “zia” Rosa, è un’amica della madre del ragazzo: una donna prosperosa, “in piena quarantina”, spesso vestita con una lunga vestaglia a fiori e grembiule, indaffarata in cucina fin dal primo mattino.
Il giardino di Rosa è un’isola ricca di suggestione, un Mar dei Sargassi, dov’è aleggia, anche in pieno agosto, una frescura deliziosa, mescolata ad odore di muffa e ortiche, nonché ad un costante tanfo di urina di gatto….Vi sono altri due abitanti, sull’isola: appunto un gatto, ancora pimpante, di nome Vaška e un pastore tedesco enorme quanto stanco, Šarik (”…Riservava a ciò che aveva intorno uno sguardo schifato e stigmatizzante: ormai non mi stupisce più niente in questo vostro mondo fottuto e dicendolo mostrava a Tolik e a Vaška indistintamente una lingua rosa in movimento”).
C’è un segreto affascinante nella vita di Rosa, dalla “risata eterea intrisa di un densa tristezza”. Il segreto è “lui”, Njuma, lo”zio”Njuma” (corruzione russa di Nahum): il compagno di Rosa, la cui fotografia il ragazzo guarda e riguarda, finendo per animarla e adottando l’uomo come una specie di nonno segreto. Egli era stato un eroe di guerra; tuttavia, in seguito, per una banale vicenda di corruzione, era finito al fresco, da dove non era ben chiaro se o quando sarebbe tornato.
Ovunque i misteri e i tabu con i quali ogni ragazzino deve convivere, quelle porte chiuse davanti alle quali sta scritto, inesorabile: “Lascia stare, è ancora troppo presto per te”.
Tolik sogna il ritorno di Njuma, ora in una prigione lontana, in un luogo freddo al punto che dal cielo piovono uccelli morti. Altro ambiente fatato nella casa di Rosa è la biblioteca, pur in uno stato negletto dopo che “lui” è stato incarcerato. Stiamo a bocca aperta, col piccolo Tolik, che ha imparato a leggere da poco, davanti ai tomi color verde bottiglia delle opere di Čechov, ritti in fila come soldati, appoggiati, sul lato sinistro, alla truppa grigia dei Gogol’, mentre d’un tratto ammicca con il suo sorrisino Mark Twain, in caratteri arancione…..Zaidman ci conduce nel mondo sognante del bambino, che pian piano fa la conoscenza, all’inizio leggendone solo titolo e autore sulla costola, dei classici della letteratura, fino a quel nome nuovo, straniero, che “ispirava suoni acuti e duri, che tirava le labbra in imprevedibili direzioni”: Hemingway. Il preferito di Njuma. Questo Hemingway –Ernest!- ha un valore sacrale per Rosa; e finisce per acquistarlo anche agli occhi di Tolik.
Il romanzo è tutto giocato sull’ironia e la disillusione per un mondo sospeso tra sogni di grandezza -dei quali si avvertono i gravi limiti- e misera esistenza quotidiana (un romanzo del proibitissimo Šolženicyn nascosto da un’opera dell’eterna gloria nazionale Puškin); una realtà trasfigurata dalla sensibilità di un ragazzino, pronto a vedere il tram come un grande tritacarne, dove gli individui entrano “…belli freschi, rosa, ordinati…ma quando vengono fuori sono sudati, nervosi e tutti schiacciati…” O i pensieri che gli ispirano quei monumenti in cui si imbatte un giorno, quando, Tolik-Cristoforo Colombo, fa ritorno da solo a casa, dopo la scuola…..
Il padre di Tolik si ribella sia al fanatismo comunista con battute fulminanti che però, si raccomanda la madre, “non debbono uscire da questa stanza"; sia all’antisemitismo dilagante, di cui fa le spese pure il figlio in varie circostanze, narrate sempre in uno stile pungente ed umoristico, spesso ai limiti dell’assurdo, con la percezione svelta dei bambini nel percepire lo scorrere degli eventi.
Per sfuggire all’antisemitismo, al dover sempre render conto di essere ebrei, anche nelle circostanze in apparenza favorevoli, insomma la goccia di catrame nel barile di miele -ma quale soddisfazione per l’esito della Guerra del Giugno 1967!-, la famiglia si trasferisce nella Terra Promessa; quel Paese dove si deve pensare e parlare “a costo di un perenne raschiamento delle vie respiratorie”!
La Partenza è desiderata e temuta al tempo stesso, oltre che popolata di incubi, alla Vigilia.
Alla frontiera tra Oriente e Occidente, alla fortezza di Schönau, appena fuori Vienna, Tolik assiste inorridito alla trasformazione dei suoi genitori da persone onnipotenti a piccoli esseri spaventati (in fondo essi hanno tradito la grande Patria Sovietica). Egli attende che padre e madre riacquistino quell’onnipotenza, invano. Ma questa presa di coscienza, pur dolorosa, rappresenta un gradino nella crescita, no?
Tutto giocato sulla sorpresa è l’episodio finale del romanzo (Nonno cellulare): l’incontro tra il protagonista e un personaggio imprevedibile, un altro “ritorno a casa” carico di umanità e simpatia.
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