(Titolo originale Un désir fou de danser, Éditions du Seuil, 2006)
Trad. Giulio Lupieri, Garzanti Libri S.p.A., 2008, pp. 267   
 
“Lei è con me da parecchio tempo, vero?” “Sì, in analisi, come si dice.” “Si sente solo quando è con me?” “Le parlo, l’ascolto. Questo dovrebbe rendermi meno solo?” “Meno folle?” “O piuttosto il contrario?”
 
E’ un aspro scontro con la realtà della follia e della solitudine l’ultimo romanzo di Elie Wiesel, apparso due anni orsono in Francia con le Éditions du Seuil ed ora uscito, nel nostro Paese, con Garzanti.
Lo scrittore -nato a Sighet, Transilvania, il 30 settembre 1928- fu deportato nel maggio 1944 con l’intera famiglia ad Auschwitz (dove vennero uccisi subito la madre, la sorella minore Tzipora, i nonni), poi a Buchenwald (là morì il padre Shlomo).
Dopo la guerra ha studiato in Francia ed intrapreso la carriera di giornalista. A seguito dell’incontro con lo scrittore cattolico François Mauriac ha raccontato la sua terribile esperienza in La notte, opera tradotta in oltre trenta lingue e fatta conoscere in Italia da Daniel Vogelmann.
La notte è stato il primo titolo (1980), nella casa editrice Giuntina, della collana Schulim Vogelmann, dedicata da Daniel -che ne è pure stato il traduttore nella nostra lingua- a suo padre, anch’egli sopravvissuto ad Auschwitz.
Emigrato poi negli Stati Uniti (di cui ha conseguito nel 1963 la cittadinanza), Elie Wiesel vi ha scritto oltre 40 tra romanzi, opere teatrali, saggi, nonché una corposa biografia in due volumi (Tutti i fiumi portano al mare e …e il mare non si riempie mai, Bompiani, 1996/1998).
Per l’instancabile opera in difesa dei diritti umani in tutto il mondo e, in particolare, per il diritto degli Ebrei russi ad emigrare in Israele dall’(allora) Unione Sovietica, è stato insignito, nel 1986, del Premio Nobel per la Pace. Successivamente ha costituito, insieme alla compagna di una vita, la moglie Marion, la “Elie Wiesel Foundation for Humanity” (www.eliewieselfoundation.org).
Il protagonista del nostro romanzo si chiama Doriel Waldman, un sessantenne ebreo polacco che vive a New York. Solitario, prigioniero dei fantasmi del passato, ossessionato dalla follia verso la quale nutre un sentimento di repulsione / attrazione, ad un certo punto egli decide di affidare la propria vita tormentata ad una “guaritrice d’anime”, la psicanalista Thérèse Goldschmidt, segnalatagli da un altro medico, suo conoscente. Sarà lei, afferma Doriel con diffidente ironia, che, “ben pagata”, lo guiderà nei più intimi recessi del suo io per aiutarlo a vivere con se stesso e liberarlo dal suo dibbuq, lo spirito maligno che si è impossessato del suo essere, della sua identità e gli avvelena l’esistenza, spingendolo alla follia.
Fin dall’inizio il rapporto medico/paziente non è affatto facile, come talora succede. L’uomo non intende sottomettersi alle rigide regole che inquadrano tale rapporto e cerca in mille modi di provocare la sua interlocutrice. Thérèse -anch’ella ebrea e figlia di deportati, sposata (senza figli, con suo grande dolore) con Martin, direttore di una biblioteca- non cade nei tranelli verbali che Doriel le tende con diabolica abilità dialettica, intervallati da ben studiati silenzi; ma, ad un certo punto, contravvenendo all’aurea regola secondo la quale il terapeuta nulla deve dire di sé, accetta, a sua volta, di farsi conoscere e di mettersi in discussione.
Le sedute si trasformano spesso in duri scontri, quasi dei “corpo a corpo” verbali perché l’uomo tende a nascondersi -“…appena mi dà una chiave,” scrive la dottoressa nei suoi appunti “cambia la serratura”- e a sfuggire lo snodo principale della sua vita, che è il rapporto coi genitori, morti, dopo la guerra, in un incidente stradale in Francia, quando egli è ancora un ragazzo.
Doriel entra a fatica nel proprio passato e ripercorre una vita tormentata, a cominciare dagli anni dell’infanzia trascorsi in un piccolo villaggio della Polonia, nascosto, per sfuggire ai nazisti, nel granaio di un contadino, insieme al padre, con il quale ha una forte solidarietà, cementata dalla vita dura di clandestini ricercati.
La madre, Lea, è una donna bionda, molto bella e coraggiosa, che trascura la famiglia per intraprendere la lotta partigiana. L’amore del piccolo Doriel verso di lei è striato di dolore e costituisce il nucleo di quell’ “ascesso” psichico che egli, adulto, non intende far scoppiare, nonostante l’impegno della D.ssa Goldschmidt. Anzi, quando la terapeuta insiste su questo tasto, egli ha una violenta reazione, accusandola di essere una “freudiana”, cioè di interpretare la realtà alla luce di veri o presunti problemi sessuali irrisolti, originati nell’infanzia.
Le parla anche dei fratelli: il piccolo Jacob (Jankele), ucciso a Treblinka; e Dina, la sorella, a sua volta entrata nella Resistenza; poi uccisa da un fanatico antisemita una settimana prima della liberazione.
Tutta l’esistenza di Doriel è marchiata dalla tragedia della Shoah, che egli non ha vissuto, diciamo, in prima persona (contrariamente all’A.), ma che ha fatto di lui un uomo sradicato, la cui lucida follia -gabbia e rifugio ad un tempo- nasce come estrema reazione al male del mondo e all’impotenza di D-o di fronte all’orrore. Se il Creatore ha permesso lo sterminio di un milione e mezzo di piccoli innocenti, ciò significa che Egli preferisce un mondo senza di loro; e dunque meglio non sposarsi, non generare. Solitudine come protesta e sfida alla crudeltà degli uomini, ma soprattutto al colpevole silenzio di D-o. “Auschwitz” ribadisce l’Autore in una recente intervista “deve restare una spina nella coscienza dell’umanità e nella memoria di D-o”.
Elie Wiesel si esprime in un linguaggio a volte arduo, intervallando i dialoghi tra Thérèse -talvolta ci lascia intuire le domande e le risposte di lei dal parlare di lui, secondo un modulo espressivo sempre efficace- e il protagonista sia con le riflessioni di quest’ultimo, che spesso assumono la veste di lettera aperta ai genitori, sia con gli appunti scritti dalla stessa dottoressa, che vede le proprie sicurezze professionali ed esistenziali messe in crisi dalla pervicace ostinazione del paziente di aggrapparsi alla malattia.
Come uscire dal tunnel? “Le affido degli appunti che la riguardano…non le ho dato il sostegno e l’aiuto ai quali aveva diritto. Adesso però tocca a lei giocare. E con un po’ di fortuna, si guarirà da solo”.
Ad un certo punto il medico, nella certezza che è giunto il momento, lascia il campo al paziente. E Doriel, dopo una vita di peregrinazioni, di impegni in istituzioni umanitarie, in viaggi di studio nel mondo, costellati da incontri i più vari e da delusioni sentimentali nella vana ricerca di una donna dal “sorriso di bambina spaventata”, una mattina si trova a camminare lungo la Madison Avenue innevata.
Si ferma davanti alla vetrina della sua pasticceria preferita e…..
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