(Titolo originale Ishà borachat mibsorà;       HaKibbutz Ha Meuchad, 2008)
Trad. Alessandra Shomroni, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 2008, pp. 781   
 
“….Migliaia di attimi, di ore e di giorni….un’infinità di gesti, di tentativi, di sbagli, di parole e di pensieri. E tutto per fare un unico uomo al mondo.’ Lesse ad Avram quelle frasi. Andrà tutto bene, commentò lui, vedrai, faremo in modo che Ofer stia bene “.
 
I loro primi incontri avvengono nel buio della notte; anzi si odono solo le voci; voci che riecheggiano nel reparto di isolamento di un ospedale di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni, nel giugno 1967. Voci che esprimono rabbia e concitazione, soprattutto quella di Avram, dall’inconfondibile accento russo; oppure meraviglia, ansia e desiderio di condividere le proprie paure, quella di Orah. Dopo alcuni colloqui a due, in un misto di confidenze e sfide reciproche, ecco una terza voce, Ilan, che indoviniamo come il “bello” del trio. Voci e ombre cinesi.
Sono tre sedicenni che, in quelle drammatiche ore, mentre fuori impazza una terribile battaglia, la cui eco giunge loro lontana, imparano a conoscersi: si provocano, litigano, si riappacificano, si tastano, si sfidano, rivelando l’un l’altro i più reconditi segreti. Gli incontri avvengono nell’oscurità, quindi nessuno pare conoscere l’aspetto dell’altro; forse si sono incrociati in precedenza, forse no. O meglio: Avram e Ilan veniamo a sapere che sono compagni di scuola, mentre lei è l’affascinante sconosciuta, le cui fattezze appaiono per un istante, alla luce di un fiammifero, dopo che ella, in modo scaltro, aveva deciso che era il momento di vedere finalmente l’aspetto del suo interlocutore, Avram, e magari, perché no, di mostrarsi a sua volta: “Un’espressione imprecisa e sonnacchiosa…aleggiava su quel volto chiaro e bello…mentre i capelli corti, color rame, luccicavano, e il loro sfolgorio continuò a balenare negli occhi di Avram anche dopo che il fiammifero si spense e il buio tornò ad avvolgere Orah”. Tra lei e Avram si crea una magica complicità, quella confidenza profonda, che può nascere, credo, solo quando ci si incontra in quegli anni di formazione, e che dà ad entrambi coraggio; in un luogo che essi percepiscono avverso. Favoleggiano sulla guerra all’esterno, in un primo momento uno dei due è addirittura convinto di aver sentito da una radio, piazzata chissà dove, che Nasser e re Hussein stanno cantando vittoria sull’odiato nemico sionista.
Ilan, resta sullo sfondo, lontano e quasi sdegnoso, ed entra davvero in scena alla fine, ma solo riservandoci poche battute.
Dopo il saggio politico Con gli occhi del nemico (2007) e la riproposizione del libro per l’infanzia, datato 1990, La lingua speciale di Uri, David Grossman ritorna con un nuovo grande romanzo, in questi anni segnati, come sappiamo, dalla tragedia. Il suo secondogenito, Uri -21 anni-, il 12 agosto 2006, nelle ultime ore della (infelice) Seconda Guerra del Libano, dopo che la tregua era già stata siglata, resta ucciso poiché il suo carro armato, impegnato nel tentativo di trarre in salvo un altro tank, viene colpito da un razzo lanciato dagli Hetzbollah. Con Uri muoiono i tre compagni: Benaya, Adam e Alexander. David, come egli stesso spiega nella breve, ma significativa, postfazione, aveva iniziato a scrivere il libro nella primavera del 2003 e confessa che nutriva la speranza che la sua opera in divenire proteggesse in qualche modo misterioso il figlio impegnato con il rischioso servizio militare nei “Territori”. Terminata la settimana di lutto lo scrittore è ritornato alla sua storia, la cui maggior parte era compiuta.
“Ciò che era cambiato, per lo più” egli annota “era la cassa di risonanza della realtà in cui è avvenuta la stesura definitiva”.
Una donna in fuga da una notizia si intitola il romanzo nella lingua originale; mentre come A un cerbiatto somiglia il mio amore è presentato nell’edizione italiana: viene infatti ripresa una frase di Orah in cui, oltre a rammentare un versetto del Cantico dei Cantici, ella si diverte con un gioco lessicale tra il sostantivo “cerbiatto” e il nome del personaggio, intorno al quale ruota tutta la vicenda, che in ebraico si dicono allo stesso modo: Ofer.
Dopo la parte iniziale che accompagna la nascita di una grande amicizia, dove siamo coinvolti nel linguaggio fresco e gergale degli adolescenti -ricordate il romanzo-capriccio Qualcuno con cui correre, 2000/2001?-, che sa amare solo chi, come l’Autore, è padre consapevole, facciamo un balzo in avanti di circa un quarantennio.
Orah è una donna di mezz’età, separata dal marito Ilan, madre di due figli, Adam e Ofer.
Mentre Ilan e il primogenito si trovano in Sudamerica, ella progetta con Ofer un viaggio nel nord del Paese per festeggiare il termine della ferma triennale di lui. Sennonché il giovane, proprio all’ultimo, viene richiamato (a dire il vero è lo stesso ragazzo ad offrirsi) per un’operazione militare in Cisgiordania.
La notizia getta la madre nel più profondo sconcerto: ella cova nell’animo un oscuro presentimento di morte da cui non sa liberarsi. Pensa, di continuo, a quando gl’incaricati dell’esercito -la “delegazione di angeli cattivi”-, seguendo il consueto rigido cerimoniale, busseranno alla sua porta, magari di notte, cogliendola troppo debole per “buttarli giù dalle scale” e le declameranno la frase di rito che la schiaccerà. Oppressa da simile angoscia, Orah decide di partire ugualmente; la sostiene un pensiero assurdo: se “loro”, cioè la delegazione di angeli cattivi, non l’avessero trovata, se fosse stato impossibile rintracciarla, la brutta notizia sarebbe stata, in qualche modo rispedita al mittente e…a Ofer non sarebbe accaduto nulla di male. Ella è perfettamente consapevole che tutto ciò non ha letteralmente senso, ma la razionalità ha forse a che fare con l’amore? Specie un amore fortissimo, viscerale che lega la madre a questo figlio, la creatura che sente vicina a sé più di tutti al mondo?
Orah sceglie di non partire sola. Accompagnata in automobile da un autista personale arabo, che conosce da molto tempo, Sami, si precipita a Tel Aviv nel modesto appartamento dove vive, in preda ad un assoluto disordine materiale e psicologico, l’antico amico Avram, con il quale il legame intrecciato da ragazzi si è sempre mantenuto vivo, ma che, negli ultimi anni, aveva un po’ perduto di vista. Ella lo sequestra letteralmente e lo obbliga a seguirla nel suo peregrinare, per i primi chilometri in automobile, indi a piedi, dopo che il malcapitato Sami, a seguito di uno spiacevole episodio, se ne è fuggito a tutta velocità e li ha abbandonati al loro destino.
E fin dove, questo peregrinare? Fin dove finisce Israele. Un viaggio nello Spazio, ma anche nel Tempo.
Essi si incamminano per le strade della Galilea. Orah davanti, agile, motivata (“…non aveva nessuna chance contro di loro, lo sapeva….ma comunque per qualche giorno avrebbe lottato…solo di quello sarebbe stata capace”), che parla, parla; Avram, dietro, invecchiato, appesantito, silenzioso, non ancora cosciente delle motivazioni che stanno alla base dell’avventura in cui è stato trascinato; molto lontano dall’Avram di un tempo -pieno di risorse, sempre pronto a stupire gli altri con mille progetti-, ora concentrato solo sul presente, perché futuro e passato lo angosciano, oppresso da un dramma che ha lasciato su di lui una traccia indelebile; la cui natura il lettore dovrà scoprire da sé, nella lettura del romanzo.
Man mano che i due proseguono col cammino si schiudono davanti a loro -e a noi- le bellezze del paesaggio israeliano, descritte in modo vivido e partecipato: le querce, i terebinti di biblica memoria, i fiori dai mille colori, i cieli, le mucche al pascolo; l’odore pungente di salvia che giunge fino alle narici …Anche David, durante la scrittura dell’opera, non ha potuto fare a meno di accompagnare i suoi personaggi nella natura: ha passato sei settimane alla larga dalla città, dalla vita di ogni giorno, non lontano da dove Uri era stato ucciso.
Rumori della natura: “e grida di uccelli notturni, e fruscii ovunque…coppie di ricci che compaiono all’improvviso nella notte, si avvicinano ai visitatori senza timore, poi spariscono come sono venuti”. Rumori dell’anima: l’incubo di essere svegliata sul far del mattino da tre persone in uniforme…..
Incontri con altri gitanti, alcuni davvero insoliti. Come il gruppo, costituito da personaggi bizzarri -tra cui una donna calva, un’anziana gobba, un uomo zoppo- e guidato da un energico giovane dall’aria ispirata, di nome Akiva, di professione “rallegratore di afflitti”, come risulta dal cedolino paga, rilasciatogli dal moshav che lo ha assunto per tale funzione, che egli mostra soddisfatto. La compagnia passeggia lungo i prati danzando, cantando, tenendosi ciascuno per mano e, dopo una loro iniziale diffidenza, coinvolgono per qualche ora pure Orah e Avram, i quali, specie il secondo, traggono dalla loro vicinanza attimi di serenità.
Di che parla Orah a Avram? Gli parla di Ofer, dal giorno in cui egli è nato: per farlo sentire vivo, per salvarlo. “Sappi soltanto” dice ad un certo punto ad Avram “che quando parlo di Ofer con te va tutto bene, lui è protetto”. A volte, oltre alle parole, usa gesti simbolici. Scrive, perfino: su un quaderno (anch’esso ha una vita tutta sua) annota pensieri su Ofer.
Valore terapeutico della scrittura: ricomposizione di realtà infrante.
Coinvolgenti le pagine in cui pian piano ella comincia a comprendere “come” dovrà parlare del figlio a quest’uomo cui la vita ha riservato tante porzioni di dolore: “….Avram mormorò una frase precipitosa….Orah non sentì bene…Le sembrava che avesse detto: però comincia da lontano”.
Cominciare da lontano? Magari parlandogli di quella ragazza, alla quale pure lei si stava affezionando, anche se poi Ofer…..Più lontano ancora. 
D’altronde, il partire da lontano non era forse un motivo dominante nella vita di Avram, visto che la notte in cui avevano fatto conoscenza egli si era mosso nel buio del reparto di isolamento avvicinandosi e allontanandosi come se si allenasse in segreto ad un percorso di assalto e ritirata?
Ella comincia dunque da lontano, da prima della nascita del primogenito Adam, vicenda che spezzò l’armonia perché….
Adam, che assomiglia tanto a suo padre Ilan, nello sguardo verde intenso, ricco di fascino, e nel carattere intransigente.
Avram, in questo lungo viaggio a piedi, per molti giorni non vuole che Orah gli mostri una fotografia di Ofer, che lei tiene sempre con sé, una foto che ritrae i due figli abbracciati.
Coinvolto nel gioco, chiede a Orah che gli racconti Ofer, ma senza dimenticare affatto Adam!
Con un linguaggio ricco di sfumature, in un continuo intrecciarsi tra passato e presente, l’Autore esprime lo sforzo, l’ansia di vivere in un contesto estenuato dalla durezza della guerra. A volte usa espressioni che richiamano una prosa dagli accenti omerici, primigeni, come quando descrive il letto in legno che Ofer, adolescente, si era costruito per sé, ma che poi aveva deciso di donare ai genitori.
Anche se qualche…sforbiciata qua e là, specie nei dialoghi, non avrebbe guastato, il libro è densissimo, quanto a legami, pensieri, immagini; una prova temo assai impegnativa per il nostro pubblico di lettori, abituati spesso a storie lievi e non problematiche.
Tema principale, espresso con un fine studio psicologico, è il rapporto complesso che lega tre persone -Orah, Avram e Ilan-, al di là del tempo e del vissuto di ciascuna; ci si può perfino separare, nella vita di tutti i giorni e per qualche tempo, ma si resta uniti per la vita.
“Quel doppio rapporto racchiudeva un mistero che nemmeno lei cercava di risolvere e che l’aveva presa alla sprovvista come un lampo….”
Viene spontaneo l’accostamento a Jules et Jim, del francese Henri Pierre Roché, dal quale un altro cantore dell’animo umano, il regista François Truffaut trasse, nel 1962, un incantevole film.
Il romanzo non ha una vera propria trama, nel senso tradizionale del termine; ma contiene tante tematiche, legate l’una all’altra, come i personaggi che incontriamo.
Il dramma di una madre, in ansia per il più “luminoso” dei suoi figli, il centro della famiglia, si rispecchia nel dramma di una Nazione che sperimenta lo scarto tra la vita, in cui ci si arrabatta ogni giorno, e quella che si potrebbe (e vorrebbe) vivere. Anche Orah, Ilan e i ragazzi hanno vissuto insieme per circa 20 anni, zigzagando tra attentati, razzi, bombe a mano, ecc.; la “situazione”, insomma, ha matzav, come si dice in Israele. Ad essa l’A. dedica pagine di plastica efficacia, come quando ad Ilan, dopo aver studiato invano un percorso di ritorno a casa per il giovanissimo Ofer il “meno a rischio possibile di attentati”, non resta che la frase understatement “Sai che ti dico, Oferino? Cammina più veloce che puoi. Corri persino.” E il ragazzo lo aveva fissato con uno sguardo che Ilan non avrebbe dimenticato mai.
Durante quel viaggio, intrapreso “senza voler sapere niente” la “situazione” fa capolino, quando meno te lo aspetti. Ad un certo punto Orah incontra qualcuno che mormora: “…dopo quello che è successo ieri”.. ma lei non vuol domandare, anche se la cosa le costa fatica, assecondata da Avram, anch’egli uomo in fuga.
Le pagine dedicate a Avram in pericolo -durante la guerra di Yom Kippur del 1973- e a Ilan, che si trova in un bunker isolato, è riuscito con un apparecchio a captare la sua voce, ma non può corrergli in aiuto, pur desiderandolo come nulla al mondo, sono degne di un grande scrittore di guerra, tanto sono dense di significato. Tra i due c’è una sorta di dialogo a distanza, memorabile per lo stile, le tematiche, le riflessioni che si snodano in una condizione disperata.
Ma altrettanto mirabile, coerente con il concetto di “necessaria sorpresa”, caro ad Avraham B. Yehoshua, è il contesto nel quale Orah viene a conoscenza di quel drammatico episodio.
Un altro tema è quello della Terra, della Natura, in un approccio di condivisione, magari anche solo di un semplice cibo acquistato nel più vicino supermarket, che caratterizza il viaggio dei due amici. Fin tanto che gli esseri umani si avvicinano con spirito contemplativo e di pace alla terra e alla natura -che pure a volte mostra le sue insidie, come leggiamo in un sapido episodio del romanzo- essi riescono a guardare in se stessi e capirsi; e magari vedere coloro che, nel teatro della vita e della storia, sono i Nemici con occhi diversi.
“Persino il sentiero ha una voce aveva pensato Orah. Come ho fatto a non sentire nulla in tutti questi giorni? Dov’ero?” La natura ti dà forza ed energia. Avvicina gli esseri, umani (Orah e Avram) e non. Come la cagna inselvatichita che, dopo un richiamo fischiato di Orah si placa e segue con fiducia i due viandanti; diventa una sorta di compagna di viaggio, un personaggio del romanzo perché, dal suo comportamento, si evince che anch’essa ha sofferto molto.
C’è il tema dell’Amore per il proprio Paese, espresso senza alcuna retorica, ribadito da Avram a Orah: “Avrebbe voluto dirle che solo qui in questo paesaggio, tra queste rocce, questi ciclamini, sotto questo sole e parlando in ebraico, la sua vita aveva un senso. Ma sarebbe stato sentimentale e insensato. Perciò tacque”.
E non manca l’angoscia per il futuro del Paese stesso, una costante nella vita di Israele.
Durante il cammino essi incontrano molti monumenti, cippi, stele, dedicati a militari morti inazioni di guerra, le diverse guerre di Israele, eretti nei luoghi in cui essi sono caduti. Orah si domanda sgomenta: “Come andrà a finire…..non c’è più posto per tutti questi morti”.
E’ infine un romanzo sull’essere genitori, sulla famiglia nel suo complesso, perché non si può parlare di un membro della stessa senza coinvolgerli tutti.
L’opera è significativamente dedicata ai familiari, che David nomina: a Michal, la moglie, a Yonatan e Ruti, il primogenito e l’ultima nata, a “Uri, 1985-2006”.
Le pagine sulla Maternità sono molto forti: stupisce che un uomo abbia saputo penetrare così profondamente la sensibilità femminile in momenti che una donna / madre difficilmente riesce, anche volendolo, a condividere col compagno.
Ma altrettanto coinvolgente è la voce della Paternità, scoperta pian piano, lungo la strada, su ogni sentiero, in un’ascensione verso il Divino.
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