(Titolo originale BEAUFORT; Im Yesh Gan Eden)

 
Trad. Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Ed. Rizzoli; Prima edizione: Ottobre 2007, pp. 376  
 
"Ziv se ne stava disteso lì, con le sue mutande corte, scure; finito. River sapeva che era perso, che era stata l’onda d’urto ad averlo ucciso, tutti gli organi interni e i vasi sanguigni gli erano scoppiati dentro, come un sommozzatore che ha i polmoni compressi e poi basta un piccolo sbalzo di pressione ed esplode…..Ma sul campo non si può stabilire la morte di qualcuno. Solo il dottore dell’avamposto lo può decidere. Mi sono voltato……e ho visto che i miei soldati iniziavano a…. perdere la testa. Ho gridato: ‘Emilio, guardami subito! Guardatemi subito tutti!’ "
 
Ron Leshem, classe 1976, nato a Ramat Gan (vicino a Tel Aviv), ha iniziato giovanissimo la sua carriera di giornalista, dapprima facendosi apprezzare per una serie di réportages sull’Intifadah, scritti per Yedioth Ahronoth, indi (negli ultimi quattro, cinque anni) collaborando con Ma’ariv.
Nel 2005 ha pubblicato in Israele, col titolo "Se esiste il Paradiso" (Im Yesh Gan Eden), il suo primo romanzo che ha riscosso un notevole successo; tanto da aggiudicarsi sia l’importante Premio letterario Sapir, sia lo Yitzhak Sadeh Prize per la Letteratura a carattere militare, oltre che suscitare l’interesse del regista Joseph Cedar, che vi ha tratto un film Beaufort, vincitore dell’Orso d’Argento al 57° Festival di Berlino.
Ora questo romanzo è uscito in Italia, edito da Rizzoli, col titolo Tredici soldati.
L’ambiente: il castello crociato di Beaufort, alture del Libano meridionale, conquistato dall’esercito israeliano nel 1982 e nel 2000 rimasto l’ultimo avamposto in quella zona martoriata.
Beaufort è un luogo paradossale, per diverse ragioni. Anzitutto l’ordine, dato inizialmente di conquistarlo, fu, in seguito, annullato, ma detto contrordine non giunse mai a destinazione; la bandiera israeliana venne issata sul fortino ed esso fu mostrato con orgoglio a Menahem Begin e ad Ariel Sharon.
All’epoca della nostra storia -siamo alla vigilia del ritiro unilaterale israeliano del 2000- Beaufort è un luogo in cui il tempo non passa mai, per i soldati. Essi stanno come in una sorta di trincea, a prendere colpi di mortaio sparati da un nemico, Hetzbollah, invisibile, che non ha il coraggio di misurarsi a viso aperto, ma che cerca di fiaccare il loro morale con i messaggi lanciati dalla sua Tv, al Manar ("..per noi la pace è un incubo, la guerra un sogno. Per questo vinceremo!").
Un giorno giunge al forte Liraz Liberti, detto Erez, un ufficiale poco più che ventenne; un tipo duro, che ha subito numerosi richiami disciplinari (compreso qualche mese di gattabuia), deciso come non mai a combattere. Erez ha la responsabilità di tredici soldati, suoi coetanei, che fanno la guardia alle postazioni ed ispezionano la strada di accesso all’avamposto per controllare la presenza di mine. Si vive; ma si muore, anche, mentre si attende l’ordine del ritiro dall’establishment politico/militare, stretto tra esigenze tattico/strategiche, iniziative pubbliche (come sembra lontano dal Beaufort il Paese, con le sue manifestazioni pacifiste!), vari "desiderata" dell’ONU. Erez, che sa guadagnarsi la stima ed il rispetto dei suoi, ha assicurato che li condurrà fuori dal Libano tutti vivi. Ma ci si può fidare di lui?
Nella storia, ormai sessantennale, dello Stato di Israele (sappiamo però che Ha’aretz, il Paese, è assai più antico), le tante guerre che esso ha dovuto, suo malgrado, combattere, hanno lasciato tracce profonde nel comune sentire, nella vita politica e nell’espressione artistica. Un’eccezione a ciò è rappresentata dalla guerra che portò l’esercito israeliano in Libano per diciotto lunghi anni, dal 1982 (operazione Pace in Galilea) alla primavera del 2000 (col ritiro unilaterale); un’esperienza della quale si parla malvolentieri, peraltro gravida di conseguenze negative: per limitarci agli effetti immediati, quel ritiro, certo inevitabile e magari indispensabile, ma attuato "tardi, in fretta e male", fu dipinto, dai nemici fondamentalisti islamici, come una fuga; indi sfruttato da Yasser Arafat come pretesto per tenere, di lì a poco, un atteggiamento intransigente negli incontri estivi di Camp David e per scatenare, a partire dal settembre di quell’anno, la guerra terroristica nota come Intifadah al Aqsa.
La causa di tale rimozione in Israele risiede, a parere di Ron Leshem, nel fatto che le vicende militari vengono inquadrate, per lo più, nell’ottica della cultura di sinistra della media borghesia, pacifista e contraria alla guerra. Quell’humus che, a suo tempo, sfociò del c.d. Movimento delle Quattro Madri, determinante nella campagna per indurre il Governo a chiudere l’esperienza libanese.
"Da un decennio a questa parte", afferma poi lo scrittore " (l’esercito) è diventato l’esercito dei poveri e dei più deboli. I soldati vengono dal nord e dal sud. Sono i nuovi immigrati….i giovani religiosi [non ultraortodossi, n.d.r.] che ritengono valga la pena di lottare per la terra, educati sin da piccoli ad amarla e ad essere sionisti. I figli dell’élite invece fanno il servizio militare a Tel Aviv, in un ufficio. Ciò che conta per loro sono il danaro e il successo" Anche Ron fa parte di questa élite, non è mai stato in guerra; ma in compenso ha saputo dare voce ad una generazione che pareva, per così dire, invisibile.
Aspetto imprescindibile -almeno secondo la mia sensibilità- di un romanzo, o di un saggio in genere, sono le motivazioni che inducono l’Autore ad iniziare la sua avventura; nel nostro caso furono le vicende cui Ron, giovane cronista, assistette nella Striscia di Gaza, a fine settembre 2000, dove era stato spedito dal suo giornale, lo Yedioth Ahronoth, a seguito dell’uccisione della prima vittima della c.d. Intifadah, un infermiere combattente della Brigata Givati, David Biri, 19 anni, colpito da un ordigno esplosivo sulla strada che portava all’insediamento di Netzarim. E’ lì, nel cuore della Striscia, che lo scrittore incontra, per la prima volta, il…Libano; annota sul taccuino con scrupolo ogni parolaccia e tenta invano di penetrare la corazza di malcelata ostilità del comandante della compagnia, che mal sopporta la presenza dei media. Lì impara il gioco del "MAI PIU": quando un soldato muore, i compagni, in una sorta di paradossale ed esorcizzante omaggio, pronunciano il suo nome, poi ciascuno, a turno e magari a distanza dagli altri, completa la frase e comunica loro che cosa il defunto non farà mai più; dall’andare ad una partita di basket, all’amoreggiare con la prima ragazzotta rimorchiata al bar durante una licenza, all’ascoltare l’ultimo disco del cantante preferito. Si lavora pure di fantasia, naturalmente.
Fa la conoscenza di Rotem Yair, un giovane ufficiale coraggioso ma "triste, stanco", indurito, che gli parla del Libano, di cui ha una sorta di nostalgia e che paragona alla Striscia; poi, nel prosieguo del tempo, incontra tanti militari che avevano combattuto anche nel Paese dei Cedri e trascorso periodi nell’avamposto di Beaufort, nel Libano del Sud, epicentro del romanzo, luogo fisico, ma anche sito dell’anima. Il romanzo è nato da questi incontri, caratterizzati dall’iniziale diffidenza dei militari (ah la mediocrità degl’imboscati!) nei confronti del coetaneo che non è mai stato nella mischia. Scrive Ron: "La sensazione di inutilità incisa sulla sorte delle vittime e sulle loro cicatrici;…….la sensazione personale di aver perso un’occasione perché non sono stato lì e non ho vissuto quell’esperienza, e il desiderio di sopperire alla perdita con l’aiuto della fantasia, per capire veramente, sono le ragioni fondamentali che mi hanno spinto a scrivere questo libro…….Sono stati i personaggi di questo racconto ad aprirmi il cancello del Libano".
E’ davvero un peccato che le mie scarse conoscenze della lingua ebraica non mi consentano di leggere la vicenda nella freschezza originaria; il linguaggio è vivace, zeppo di espressioni gergali, spontaneo, giustamente sboccato e crudo, come si conviene tra giovani militari.
I caratteri dei personaggi sono tratteggiati in modo vivido, con interessanti e sfumate tipologie. C’è il sionista religioso; l’ipercritico; quello in grado di mettere sulla carta ciò che anche gli altri provano, ma non sono in grado di esprimere in modo chiaro: "Mentre ce ne stavamo lì sdraiati ero soprattutto curioso….se la prossima esplosione mi avrebbe spappolato una gamba….o maciullato del tutto…L’incertezza…….In quel momento non pensi ad altro….solo se vivrai o no; preghi che capiti finalmente qualcosa che ti hanno addestrato ad affrontare, che arrivi un terrorista, che inizi una battaglia, perché a quello che ti sta succedendo non hai modo di reagire…..Quella notte, per la prima volta, ho sentito la morte….." La paura c’è, eccome, occorre guardarla in faccia ed affrontarla "Prova ad immaginarti il tuo primo bungee jump, moltiplica l’ansia per cento o per mille, apri il moschettone, e forse riuscirai a farti un’idea della sensazione". Forte desiderio di combattere -e magari di vendicarsi per la morte dei commilitoni uccisi- e domande ansiose sul perché della missione. Tensione claustrofobia. Voglia di chiudere quell’esperienza, che si sa essere alla fine, e contemporaneo dolore all’idea di lasciare un luogo dove hai trascorso momenti importanti della tua vita.
Dalla magica sintesi tra la figura di Rotem Yair e quella di Avi Dahan -25 anni, ultimo comandante del Beaufort, cui spettò la missione di eliminare diciotto anni di presenza israeliana dalle pareti, far esplodere il fortino e abbandonare il monte- nasce il protagonista, Erez.
Erez, il duro in apparenza (“Non sono nemmeno uno di quelli che piangono ai funerali"), ma di intensi sentimenti -il pensiero della sua ragazza è sempre sullo sfondo-, sa creare un gruppo affiatato e solidale; l’uno per tutti, e viceversa, che rappresenta una caratteristica di quell’Arte occidentale della guerra, raccontata in modo mirabile da uno studioso illustre della Grecia classica e storico militare, lo statunitense Victor Davis Hanson.
Coinvolgente è il rapporto di amicizia che si crea tra Erez e Ziv Farran; dopo una evidente ostilità iniziale, poiché Ziv solidarizza con il Movimento pacifista delle "Quattro Madri" ed Erez teme che ciò mini il morale degli altri, tra i due nasce un forte sentimento di solidarietà. Anzi da una certa T shirt che Ziv aveva portato con sé nasce una vicenda emblematica, tutta israeliana……
"Non sono stato solo nemmeno per un momento con i tormenti di questa storia; a quanti mi hanno accompagnato vanno i miei ringraziamenti e il mio affetto” scrive nelle ultime pagine della postfazione Ron Leshem, che ora è al lavoro sul suo secondo romanzo.
Lo aspettiamo.
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