Ed. Mondadori, Collezione Frecce, Maggio 2007, pp. 206

Immagino che, nelle ultime settimane, vi sia chi, dato uno sguardo, magari distratto, alla vetrina di una libreria e letto il titolo dell’ultima fatica di Magdi ALLAM, VIVA ISRAELE, abbia provato una sorta di infastidita perplessità.

Certo, difendere la democrazia contro l’integralismo islamico, soprattutto ad opera di un arabo musulmano, comporta una discreta dose di coraggio, (far finta di) sostenere Israele, specie all’indomani di un attentato con un certo numero di uccisi, può essere, diciamo così, legittimo, ma…Ma arrivare a intitolare un libro in quel modo, via: è eccessivo! Come si fa a proclamare Viva Israele?!
Ascoltati conoscitori di cose mediorientali parlanodi “autoflagellazione” incomprensibile, assurda: gli Arabi, nessuno escluso, “debbono” odiare lo Stato di Israele perché, da almeno quarant’anni, opprime i palestinesi e la sua autodifesa dal terrorismo è eccessiva e ingiustificata. Israele è un paese piccolo, ma imperialista (basti pensare alle circostanze della sua nascita), roso, non c’è niente da fare, da una sorta di revanscismo che vorrebbe far scontare a tutto il mondo le ingiustizie patite, nei secoli, dal popolo ebraico.
Da parte mia confesso che ho sempre provato una certa perplessità di fronte a coloro i quali, magari animati dal legittimo desiderio di partecipare il proprio stato d’animo, decidono di raccontare in un libro l’esperienza della loro, più o meno recente, conversione: da una vita all’insegna dell’agnosticismo, o peggio, alla scoperta di valori spirituali su cui fondare l’esistenza, accompagnata magari dall’abbandono di agi e sicurezze materiali. Una siffatta trasformazione mal si concilia con la ricaduta, inevitabile nella nostra società dell’apparenza, in termini di riflettori accesi sul protagonista e/o di conversazioni nei salotti televisivi; meglio il silenzio riflessivo e operoso, che saprà dare i suoi frutti.
VIVA ISRAELE non è l’autobiografia di chi desidera mettersi in luce sfruttando una sorta di conversione, in questo caso, “al rovescio”; nulla di tutto questo. Si tratta invece del punto d’arrivo di un percorso che l’A. ha intrapreso diversi anni fa attraverso la sua professione di giornalista, caratterizzata da una forte dimensione etica e da costante condivisione della sofferenza altrui. Questo percorso assomiglia, almeno secondo la mia sensibilità, ad un sentiero di montagna; quanto più la meta è vicina, tanto più la strada si fa sì ripida, ma ti dona anche panorami e suggestioni non immaginabili trecento metri più sotto.
Seguo questo cammino da alcuni anni, con la partecipata lettura dei suoi libri e articoli: confesso che mi ha profondamente coinvolta la progressiva presa di coscienza, come non mi era mai accaduto con altri.
“Dall’ideologia della morte alla civiltà della vita: la mia storia”. Il sottotitolo è eloquente. Magdi, nella prima parte, ci introduce nel mondo in cui è nato e cresciuto: quella società egiziana fiorita da fine Ottocento alla prima metà del Novecento, che sapeva coniugare valori tradizionali di solidarietà con l’apertura all’Occidente e a culture diverse. Un universo denso di profumi e colori, fecondo di stimoli e contributi (ricordiamo, ad esempio, quanti studiosi italiani, giuristi in testa, si sono formati in Egitto), del quale egli conobbe, da ragazzo, gli ultimi fuochi, e che cedette di fronte all’ideologia panaraba di Gamal Abdel Nasser. Di questa ideologia, nata e cresciuta nei primi decenni del secolo scorso ad opera di due siriani laureati alla Sorbona -il cristiano greco-ortodosso Michel Aflaq e il musulmano sunnita Salah al Din Al Bitar, affascinati dal totalitarismo messianico nazista, fondatori del pensiero del partito Baath- Allam sviluppa un’analisi profonda e snella al tempo stesso.
Attraverso diversi passaggi ci mostra come il panarabismo riesca a coalizzare le masse, dopo averle abilmente manipolate, contro un unico obiettivo: la distruzione di Israele, l’odiata “entità sionista”, definita “cancro conficcato dal colonialismo occidentale e dall’imperialismo mondiale per dividere la nazione araba e impedire l’unità dei suoi popoli”. Ma è invece questa dottrina di odio a costituire, essa sì, una sorta di tumore che invade il corpo sociale, bloccando non solo qualsivoglia sviluppo ed impedendo, in sostanza, il contatto con la realtà. La popolazione infatti conosce con un certo ritardo ciò che realmente accadde a seguito della fulminante vittoria israeliana, all’inizio di giugno 1967, come, con alcuni particolari grotteschi, ci narra l’A., allora poco più che un ragazzo. Facile, quindi, e solo in apparenza paradossale, che, pian piano, nell’ideologia panarabista, definita laica dalle analisi occidentali improntate alla consueta superficialità, sia (ri)emerso, anche grazie a diversi avvenimenti succedutisi sullo scacchiere mondiale, il fondamentalismo islamico, con tutta la sua virulenza antisemita e genocidaria.
Anzi, è proprio nel testamento politico di Nasser che si possono rinvenire quei tratti ideologici (a cominciare dal concetto di “martirio”, istish’had), che mostrano il passaggio dall’ideologia della morte in ambito panarabista a quella di ispirazione panislamica.
Nel libro Allam ripercorre gli ultimi quarant’anni del conflitto arabo/israeliano/palestinese in parallelo alla propria vicenda personale (e dei suoi pregiudizi nei confronti di Israele).
La sua lenta maturazione -che lo ha portato a ripudiare la strada che conduce dalla negazione del diritto alla vita di Israele alla conseguente autodistruzione di Tutti, per imboccare la via della consapevolezza che il diritto alla vita di Israele coincide col diritto alla vita di Tutti- ha un punto d’appoggio solido e paradossale al tempo stesso. Paradossale perché colui che ha rappresentato il momento di partenza verso la nuova concezione, prima su Israele e/o gli Ebrei, indi sulla vita in generale, è un personaggio mitico, tanto nella storia palestinese, pur non amato affatto nei Paesi arabi, ma questa è, per così dire, “un’altra storia”, quanto nel c.d. universo “progressista”, mondo cattolico in testa; un uomo per il quale, in Occidente, le porte, ufficiali e non, sono state spalancate per decenni -con esclusione di pochi virtuosi, tra i quali, a suo tempo, Giovanni Spadolini- : Yasser Arafat. Dall’iniziale culto acritico per il “George Washington della Palestina” (com’ebbe a definirlo con tagliente ironia Oriana Fallaci), il Nostro prende via via coscienza di come Arafat sia stato la peggior disgrazia per il suo popolo e il “maggior ostacolo ad una soluzione negoziata e pacifica con Israele” volta a dar vita ad uno Stato palestinese pacifico e democratico; e non ad un “Cavallo di Troia” per far fuori lo Stato ebraico. Il “più straordinario funambolo della politica mediorientale” (così Allam lo gratifica), -lui sì, e non Sharon (!!!), responsabile dell’islamizzazione dei palestinesi con la riproposizione del culto del “martirio” ad ogni pié sospinto- ha sacrificato tutto e tutti alla sua insaziabile sete di potere; non compresa affatto dalla pubblica opinione europea, americana e, in una certa misura, israeliana.
Mi rendo conto che il lungo travaglio di Magdi, con le durissime conseguenze in termini di rischio e libertà personale su cui non m’intrattengo, suoni eresia a tante orecchie europee. Come suona bestemmia l’amore che egli, musulmano liberale, prova per gli israeliani, quelle “fiere persone giustamente risolute”, cui fa cenno nell’introduzione; le quali, è fuor di dubbio, sono assai meno pittoresche, insomma fanno meno audience negli spettacoli teatrali, degli Ebrei apolidi per natura  ed eterni “equilibristi sul filo”, alla mercé del buon cuore altrui. Pazienza, cari artisti, pazienza!
Un inno alla vita che ti commuove, con il gioioso elenco di persone che, in chiusura, Magdi ringrazia con amore, ogni persona, ogni coppia di amici, equivale ad un incontro significativo; elenco che si chiude con l’immagine vivida di sua moglie Valentina e della nuova vita che ella porta in sé, fondata speranza “in un futuro migliore”.
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