(Titolo originale Infidel)
Trad. Irene Annoni e Giovanni Giri per Studio Ed. Littera, Ed. RCS Libri, Aprile 2007, pp 394
Quando, nel novembre 2004, lessi su Internet la notizia del barbaro assassinio ad Amsterdam del regista Theo Van Gogh da parte di un giovane fondamentalista islamico di nome Mohammed Bouyeri, arabo di origine -consueta famiglia medio borghese, buone scuole, immancabile perfetta conoscenza della lingua del Paese ospitante- all’orrore si mescolò lo sgomento nel constatare quanto la sadica fantasia di questi terroristi non conoscesse, non conosca, limiti. Il corpo di Theo, sgozzato secondo il rituale purtroppo divenutoci “familiare”, era stato utilizzato come una sorta di macabra bacheca: l’assassino, dopo aver sferrato l’ultimo colpo col coltello, ne aveva lasciato conficcata la lama sul ventre della vittima, allo scopo di trattenere il suo messaggio; una lettera di cinque pagine, indirizzata all’autrice della sceneggiatura dell’ultimo film di Van Gogh: Submission, dedicato alla miserevole condizione delle donne nel mondo islamico. Conobbi ben presto il nome di colei che era stata oggetto di simili……attenzioni: Ayaan Hirsi Ali, giovane parlamentare olandese, di origine somala. Grazie ai numerosi articoli apparsi, negli ultimi due anni, specie sul quotidiano il Foglio (le testate c.d. progressiste l’hanno sempre snobbata, almeno da noi, poiché non digeriscono coloro che denunciano i guasti operati dal multiculturalismo) ho conosciuto la sua storia: dalla nascita, nel novembre 1969, alle vicende che, nell’aprile 2006, l’hanno indotta a lasciare l’Olanda, a seguito di un provvedimento giudiziario che le ordinava di lasciare la sua casa/rifugio, messale a disposizione dallo Stato, nella quale viveva blindata da tempo. Ayaan aveva comunque meditato di trasferirsi negli U.S.A. prima che scoppiasse il putiferio -da lei pudicamente definito dibattito- sulla sua cittadinanza olandese. Ora vive a Washington, in un luogo segreto, scortata ventiquattrore al giorno e lavora all’American Enterprise Institute, un “Think Tank” vicino all’Amministrazione Bush e si occupa di Medio Oriente, di terrorismo, di diritti umani. Suscita grandi entusiasmi -per esempio, l’American Jewish Committee le ha assegnato la “medaglia del coraggio morale”-, ma anche aspre critiche, per la per la totale laicità e l’aspra accusa nei confronti del relativismo multiculturalista.
Allorché qualcuno diventa, magari suo malgrado e a prezzo di rischi e sofferenze, un simbolo, perde giocoforza un poco della sua umanità; assomiglia più ad un “logo”, ad una “griffe” che a una persona. Con Ayaan non è così: non l’ho (ancora!) incontrata di persona, ma leggo, sulla nostra stampa, tutti gli articoli che la riguardano e ho seguito con attenzione le sue due apparizioni nella trasmissione televisiva Otto e mezzo (la prima circa un anno fa, la seconda nei giorni scorsi, in occasione dell’uscita da noi del suo ultimo libro, questo di cui parliamo): una giovane donna, molto graziosa, ma non appariscente, vestita con cura, ma senza ricercatezza, lo sguardo vivo; le sue frasi, le sue valutazioni, macigni per i fondamentalisti d’ogni risma e per i sacerdoti del “politicamente corretto”, sono espresse in modo sereno, senza il tono da professoressa petulante o l’aria altezzosa di chi ritiene di avere in tasca l’assoluta Verità. Dietro al suo sorriso non penseresti esserci una storia impastata di gioie, conquiste, ma anche di dolori e traumi per noi inimmaginabili. Ora, con INFIDEL (INFEDELE), fresco di stampa, Ayaan ci racconta la sua storia, una biografia / saggio politico dalle mille domande e sfaccettature, che si legge d’un fiato perché è coinvolgente come un romanzo. Il volume è suddiviso in due parti: la prima: -“La mia infanzia”- va dalla nascita fino a 23 anni: è “infanzia” anche in senso simbolico, intesa come stato di non ancora precisa presa di coscienza di sé; la seconda -“La mia libertà”- è la sua nuova vita in Occidente, il rifiuto dell’Islam fondamentalista, l’accettazione del grave rischio che comporta difendere la libertà e la democrazia in un mondo, l’Occidente, che sembra, da ultimo, (quasi) vergognarsi di quei valori universali, che era andato elaborando soprattutto negli ultimi due secoli. La protagonista ci conduce per mano nella complessa realtà dell’Africa postcoloniale, dove il clan è la struttura/base della società (nel caso che interessa, la Somalia, in primo luogo, poi Paesi vicini, come l’Etiopia e il Kenia, in cui, a seguito dell’attività politica del padre, ha risieduto per diverso tempo; come pure ci parla di un soggiorno in Arabia Saudita, patria del wahabismo). Ci racconta, in piena sincerità, dell’approccio affascinato alle prime letture di autori europei, grazie all’insegnante keniota di letteratura (“un intero mondo di idee occidentali cominciò a prendere forma davanti ai nostri occhi”); ma confessa anche di essere stata soggiogata dal fondamentalismo islamico dei Fratelli Musulmani, il potente gruppo che, già dagli anni ’80, grazie ai petroldollari sauditi, stava mettendo radici in Africa e in tutto il mondo islamico a causa, in primo luogo, della corruzione dei governi nazionali. Lo sfacelo degli Stati (la Somalia ne è un esempio emblematico) fece sì che le popolazioni tornassero alle antiche radici tribali, alle tradizioni, alla religione nella sua forma più conservatrice. In Somalia attecchì, per paradosso, soprattutto grazie alle donne, formidabile veicolo di diffusione (tra queste sua madre). Racconta, con dovizia di particolari, come l’islamismo abbia occupato progressivamente ogni aspetto della vita sociale ed economica. La visione radicale dell’Islam le dava, da adolescente in cerca di certezze, una sensazione di sicurezza e di potenza, simboleggiata dalla lunga veste nera che, ad un certo punto, decise di indossare. Ben presto, tuttavia, ella comincia a porsi problemi di fondo: se Allah è misericordioso perché permette che le donne siano trattate tanto male? Anche il profondo antisemitismo islamico suscita in lei molte perplessità.
Il racconto è dedicato ai suoi familiari -cui è tuttora legata da affetto, nonostante la radicalità delle sue scelte di vita, da loro mai comprese-. Dalla dedica si può ricostruire la struttura del libro (e dell’esperienza di vita) di Ayaan. Anzitutto il Padre -“Abeh” Hirsi Magan- un misto di tradizionalismo religioso e di apertura alla democrazia: uomo di notevole carisma, egli aveva studiato negli U.S.A. e più tardi diverrà strenuo oppositore del dittatore somalo Siad Barre, ma ciò non gli impedirà di avere un certo numero di mogli: sarà proprio la condotta del padre, anzitutto verso la madre, a costituire il primo passo di ribellione, da parte di Ayaan, nei confronti della sottomissione delle donne vigente nella società islamica in cui è nata e cresciuta. Poi la Madre -“Ma” Asha-, prima ragazza vivace e piena e di slancio, poi, via via, sempre più appassita e  addolorata per l’assenza del marito; frustrazione che sfoga anzitutto sulla figlia, picchiandola e punendola spesso. Figura centrale nei primi anni e nell’adolescenza è la Nonna -“Ayeyo” Ibaado-, severa custode delle antiche tradizioni di casa, il nobile clan darod (con diversi rami e sottorami, nella cui ricostruzione ti puoi divertire a  perderti): la Nonna è l’emblema di queste donne forti, coscienti del proprio status, dell’importanza del nome e della genealogia come dato identificativo del gruppo di appartenenza; donne che sanno come difendersi dalla prepotenza degli uomini, ma che ritengono dato ineludibile il sottoporre bambine di cinque anni -sia Ayaan che sua sorella non vi sfuggiranno- alla barbara pratica dell’infibulazione: una ferita fisica e psicologica che brucia ancora, ma che non immagineresti nascosta dietro ai pacati rimproveri rivolti alle femministe occidentali, che hanno tradito e abbandonato le donne musulmane, sole nella loro condizione di miseria morale e materiale. C’è poi il fratello germano -Mahad-, al quale, in quanto maschio, viene sempre riservato un trattamento di privilegio, ma amato per la sua tenacia. Infine, la dolente figura di Haweya, la compianta sorella germana più piccola, la cui debolezza psicologica non riesce a sopportare il costo che comporta superare il contrasto tra un’insopportabile vita di segregazione e l’esigenza di aprirsi alla libertà e alla vita.  
Ayaan, invece, riesce, pur con tante sofferenze, rischi e rinunce, a uscire dal bozzolo, a trasformarsi da informe crisalide in variopinta farfalla, grazie, tra l’altro, alla profonda conoscenza che, giunta in Olanda, farà della condizione femminile delle immigrate, ingabbiate in una sorta di bolla oppressiva, forse peggiore di quella in cui sono costrette nei Paesi di origine. Ciò anche a causa di una sorta di male oscuro che, a suo parere, affligge l’Olanda; definito da lei Paese in cerca di riscatto -per il passato coloniale e l’acquiescenza all’occupante nazista durante la II Guerra mondiale-. Al massiccio arrivo degl’immigrati (negli anni ’80 del Novecento) gli olandesi cercarono di accettare le loro differenze e rispettarne le tradizioni. Il multiculturalismo: con i cui conseguenti danni dobbiamo ora confrontarci.
E’ un’autobiografia destinata ad aprire un dibattito non solo sulla condizione delle donne musulmane, intrappolate nella gabbia fisica e mentale della propria fede, ma anche sul problema della libertà (di parola) in Occidente, su questo diritto che riteniamo acquisito, ma che pare non abbiamo più il coraggio di difendere. Mi viene in mente una frase letta a proposito de “Le mie prigioni” di Silvio Pellico: un testo che portò all’Impero asburgico danno maggiore di una battaglia perduta. Mi auguro, fatte le debite proporzioni, che la storia di Ayaan abbia lo stesso effetto sul contesto che ci interessa e che ci insegni a distinguere, come lei spesso afferma, tra l’Islam, duro e immutabile sistema di credenze, e i musulmani e le musulmane, spesso aperti alla libertà e alla democrazia, ma, altrettanto sovente, abbandonati da noi a causa della nostra viltà.
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