Sabato 31 marzo 2007 si è svolto a Bologna il Convegno
“THE CASE FOR DEMOCRACY; ITALIA, EUROPA, MEDIO ORIENTE: LE RAGIONI DELLA DEMOCRAZIA”.
 
Organizzatori dell’iniziativa, svoltasi nella suggestiva Sala della Traslazione del Convento S. Domenico: l’Associazione “Impegno civico” -presente da diversi anni in città, conosciuta ed apprezzata per le numerose proposte di carattere politico/culturale a tutto campo che danno spazio a voci e orientamenti diversi- e la sezione locale dei “Comitati per le libertà”. I “Comitati per le libertà” (movimento apartitico, ma politico, di cittadini) sorsero, ha ricordato all’inizio del Convegno il portavoce Angelo Gazzaniga, una ventina d’anni or sono a Milano con l’obiettivo di diffondere (e difendere) la cultura della/e libertà, parte integrante della civiltà umana. Essi, organizzati sul territorio (sono attualmente circa un centinaio, in Italia e nel resto d’Europa), sono, come si può leggere nella relativa “Dichiarazione di principi” (rilevabile sul sito web www.libertates.com), contro ogni forma di autoritarismo e di statalismo, in difesa di tutte le libertà; si oppongono allo statalismo, al centralismo, alle burocrazie politiche e sindacali, agl’integralismi politici e religiosi. Si battono per il libero mercato, la riforma dello Stato, la democrazia dell’alternanza, la cultura non organica ad alcun potere. Sentono come propri i principi di libertà che hanno portato al crollo del muro di Berlino nel 1989 e si battono contro i vecchi e nuovi regimi. Essi sono organismi spontanei, autonomi per statuto e funzionamento; un Comitato di Presidenza -formato da oltre 150 intellettuali, artisti ed imprenditori- funge da garante morale, culturale e politico del movimento. I Comitati Territoriali, i cui aderenti credono alla possibilità d’impegnarsi nell’ambito della società civile anche al di fuori della politica professionale, promuovono iniziative concrete su temi specifici e possono svolgere le loro attività di stimolo culturale e politico a vari livelli: incontri, dibattiti, manifestazioni, proposte, iniziative di solidarietà o denuncia, prese di posizione pubbliche, autonomamente o in collegamento con altri Comitati o gruppi ed Associazioni diverse.
Ed è stato proprio dall’incontro con “Impegno civico” che ha avuto vita questa importante riflessione sul significato, nelle nostre società occidentali, della Democrazia, della sua rilevanza, delle minacce che oggi la circondano, pur nella insufficiente, o addirittura mancata, consapevolezza di tanti.
La riflessione parte dal pensiero espresso da Nathan Sharansky (il famoso dissidente russo ebreo, che, quando uscì dalle carceri sovietiche, si trasferì in Israele dove divenne un autorevole esponente politico e oggi è direttore del Centro Strategico dell’Istituto Shalem), nel suo libro The case of democracy -che dà il titolo al Convegno-: non esistono popolazioni, culture, religioni, etnie, che, in quanto tali, siano estranei alla democrazia. Tale punto è stato espresso con forza dal moderatore del Convegno, il giornalista de il Corriere della Sera Dario FERTILIO (ideatore, tra l’altro, insieme con l’intellettuale russo Vladimir Bukovskij del “Memento Gulag”, la giornata per ricordare le vittime delle stragi comuniste, che si celebra il 7 novembre). In riferimento all’integralismo islamico, realtà totalitaria e globalizzata che oggi minaccia la democrazia, e cioè, vi sono persone, ha ricordato Fertilio, musulmani per fede e/o per cultura, che lottano per la democrazia, sia in Occidente che nei loro Paesi d’origine, sfidando spesso la morte. Come ai tempi dell’URSS appoggiare i dissidenti russi, come prova la diretta esperienza di Sharansky, ha significato minare alle fondamenta l’Impero sovietico, così oggi sostenere i dissidenti musulmani riveste un ruolo basilare nella lotta alla minaccia islamista. E’indispensabile condizionare gli aiuti commerciali, economici, militari al rispetto dei diritti umani; questa è la ragione di fondo per cui lo stesso Sharansky si dimise, nel 2005, dal Governo, presieduto da Ariel Sharon, in concomitanza dal ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza: il ritiro unilaterale, puro e semplice, senza garanzie di un cammino verso la democrazia da parte dei palestinesi, sarebbe stato foriero di gravi problemi ulteriori e non avrebbe certo avvicinato alla pace le due parti. Il che è puntualmente avvenuto, come sappiamo. Le dittature si reggono sul terrore, non possono prescindere da una sorta di “società della paura”. Nei Paesi dove vince la paura la gente ragiona col “pensiero doppio”, spesso dichiara, per paura, ciò che non pensa realmente; è condizionata giorno per giorno dal terrore, sono venute meno speranza e sicurezza.
Il Convegno bolognese ha avuto come primo gradito ospite Mons. LUIGI NEGRI, Vescovo di S. Marino-Montefeltro, che -partito dalla considerazione secondo la quale nella nostra formazione occidentale interagiscano tre elementi imprescindibili: il “domandare” in greco, la “tensione” del profetismo ebraico e la “certezza” della fede cristiana- ha posto l’accento sull’importanza del rapporto tra cultura e democrazia. La democrazia è quell’ethos, quello slancio morale che consente al popolo, alla comunità di esprimersi: soggetto della democrazia è il popolo, inteso come comunità di persone. Mons. Negri mette in guardia contro certe derive del pensiero attuale, scaturite dall’Illuminismo (nella sua versione più estrema), secondo le quali uno Stato di tipo “etico”, che si ponga come fine la soddisfazione di tutti i desideri delle persone, divenuti semplici individui, staccati come particelle l’uno dall’altro, finisca per assumere caratteristiche totalitarie, nel quale la parola “democrazia” diventa una semplice aggettivazione. Gli Stati comunisti non si chiamavano, forse, Repubbliche democratiche? Egli ha poi insistito sul concetto di “Mistero”, venendo meno il quale l’uomo, creato a immagine e somiglianza di D-o diviene oggetto, non soggetto/protagonista della propria esistenza. La “Societas” nasce dal senso del “Mistero”: uomo e donna si uniscono per stare insieme di fronte ad esso, per costituire la famiglia, indi il popolo, che elabora la sua cultura. Culture diverse, nate dall’educazione e da diverse esperienze, ma inerenti ad una cultura universale libera, patrimonio di “laici non laicisti e di cristiani non clericali”. Egli ha concluso con una suggestiva frase del suo “Maestro”, Don Luigi Giussani: “Piuttosto mandateci in giro nudi, ma non toglieteci la nostra libertà”.
E’ poi intervenuto il Prof. ANGELO PANEBIANCO, Ordinario di Scienza politica all’Università di Bologna -editorialista de “il Corriere della Sera”- che ha svolto il tema “La cultura delle libertà”. Egli, premesso che la democrazia è l’habitat migliore per lo sviluppo delle libertà (anzitutto di quelle libertà che definiscono la dignità umana), ha rilevato come le democrazie consolidate tendano a risolvere i conflitti che sorgono tra loro in modo pacifico, senza ricorrere alla guerra. Da ciò, ha osservato, derivano le differenti opinioni e sentimenti che ci ispirano alcuni Stati: ad esempio, ci preoccupa la Cina che, accanto ad un vertiginoso sviluppo economico, non ha (almeno al momento) certo imboccato la strada per il rispetto dei diritti umnai, mentre non ci spaventa l’India, che si può definire, pur con le cautele e le distinzioni che il caso comporta, una democrazia. Ci preoccupa la Russia, che, dopo un inizio promettente, ha decisamente virato verso una forma di governo illiberale. Anche se, secondo alcune statistiche (peraltro da prendersi con le….molle), rispetto ad una ventina di anni fa, il numero delle democrazie, inteso in senso lato, è superiore a quello dei regimi totalitari, tuttavia occorre tener presente che le forme di governo più diffuse nel mondo sono i c.d. “regimi ibridi”, una sorta di “composti instabili”, con elementi democratici che convivono con elementi autoritari (e/o totalitari), suscettibili di evolvere in una direzione o in un’altra e per questo degni di particolare attenzione. I processi di democratizzazione, giova rammentarlo, seguono un percorso molto lungo. All’uopo il Prof. Panebianco ha enucleato una serie di condizioni, per così dire, facilitanti il consolidamento di una democrazia. La prima è la costruzione di una classe media, nel senso sociale del termine, prima che economico. Ecco perché i Paesi produttori di petrolio hanno difficoltà a “convertirsi” alla democrazia: in tutti questi Paesi, non solo nel caso limite dell’Arabia Saudita -in cui un vero Stato, nel senso corrente del termine, non esiste-, le leadership politiche si limitano a incassare i dividendi maturati dalla vendita della preziosa fonte di energia e non pensano affatto ad introdurre riforme sociali, né, tanto meno, ad incoraggiare l’imprenditoria privata locale. La seconda condizione è una certa omogeneità culturale, almeno di larga massima; ad entrambe, infine, va associato il pluralismo economico.
Pensiamo, a tale proposito, agli Stati dell’America centro-meridionale del XX secolo, dove tutte le ricchezze erano in mano a poche famiglie, o ai Paesi petroliferi del Medio Oriente, dove non vige un’imposizione fiscale proprio perché non esiste un Parlamento democraticamente eletto (no taxation without representation). Le élites al potere si autofinanziano con le royalties derivanti dalla vendita delle fonti di energia; dunque non hanno interesse a riforme democratiche. “Non si deve discendere dal cielo con la democrazia, ma realizzarla dal basso con l’aiuto e la pazienza, e intanto combattere senza tregua il terrore”. Questi pensieri, espressi da Sharansky in un’intervista rilasciata a suo tempo, rispecchiano in pieno la posizione del Prof. Panebianco in merito all’attuale situazione in Iraq e Afganistan. E’ stato illusorio aver ritenuto che la democrazia si instaurasse in modo automatico, una volti deposti i regimi saddamita e talebano; o magari stupirsi di vedere per strada donne con il burqa, barbara usanza presente da tempo immemorabile, difficilmente sradicabile. Il massimo che ci si può attendere, nella situazione dei Paesi soprannominati, è, per diversi anni, un regime “ibrido”, nel senso sopra esposto. Nella complessa problematica gioca purtroppo un ruolo importante il fallimento dell’ONU, tra l’altro come garante del rispetto dei diritti umani. Può rappresentare un’alternativa la creazione della c.d. “Comunità delle democrazie”, idea sostenuta da numerosi esponenti politici, in primis, da noi, i radicali? Alla domanda di fondo se sia esportabile la democrazia, il relatore non si nasconde la difficoltà del problema e insiste su come sia necessaria un’intelligente e costante azione dall’esterno, che parta da valori positivi condivisi e sappia far emergere il percorso di aspirazione alla libertà che popoli diversi tra loro nascondono all’interno della loro storia. In una rapida quanto suggestiva carrellata di Paesi venuti (o ritornati) alla democrazia, infine, egli ha citato le vicende della Germania, dell’Italia, del Giappone, dopo la II Guerra Mondiale, degli Stati iberici e di quelli dell’Est Europa, nei decenni successivi, rammentando che, nel caso giapponese, si rivelò vincente -per l’affermazione della democrazia- il provvedimento di ammettere le donne all’Università, incoraggiandone la presenza, adottato dal Gen. Douglas Mc Arthur, Governatore del Giappone nei primi anni postbellici, che giocò un ruolo attivo nella ricostruzione del Paese e nell’emanazione della nuova Costituzione.
Il Prof. GIORGIO ISRAEL, Ordinario di Matematiche complementari nell’Università di Roma La Sapienza -editorialista ed “il Foglio”, nonché collaboratore della Rivista Tempi e del sito web Informazionecorretta.com-, ha trattato il rapporto tra democrazia e cultura, partendo dall’importanza nel nostro continente della bimillenaria presenza ebraica: questa minoranza, perseguitata lungo i secoli, ma sempre vitale e imprescindibile per l’affermazione dei valori democratici.
All’uopo ha ricordato che, nel XIX secolo, al momento dell’emancipazione si affermarono, due filoni in (apparente) contrasto tra loro: da una parte quello che faceva capo all’Alleance Israélite Universelle (costituita nel 1860, ad opera di un gruppo di intellettuali, tra cui il suo bisnonno), un’associazione diretta a promuovere una visione di universalismo democratico e di acculturazione in campo ebraico; dall’altra il sionismo politico, che, al pari degli altri movimenti nazionali di quell’epoca, è legato in modo indissolubile alla democrazia, alla razionalità e alla libera conoscenza. Il relatore ha messo in guardia contro il prepotente avanzare del “multiculturalismo”, la micidiale tendenza a porre sullo stesso piano qualsivoglia visione del mondo: chi ama la vita, sostiene la libertà di coscienza, la democrazia, l’uguaglianza tra le persone, la parità sessuale è parificato, nella stima e considerazione, a coloro che, viceversa, hanno il culto della morte, odiano e combattono la democrazia, reprimono la libertà di coscienza, detestano le donne e rifiutano l’inviolabilità degli esseri umani. Tale parificazione avviene in nome di una “politically correctness” in voga presso nell’Occidente, specie europeo -in preda ad una vergogna suicida dei propri valori fondanti-. Il termine multiculturalismo tuttavia non va confuso con la “multiculturalità”: sintesi culturale di processi variegati che hanno, nel corso del tempo, portato alla democrazia; non esistono culture , per così dire, “pure”, ognuna è il frutto di apporti diversi. La visione multiculturalista finisce per dar vita ad una ghettizzazione della società poiché, in sostanza, frammenta la realtà in una sorta di mosaico costituito da tante tessere identitarie, poste l’una accanto all’altra; fa rientrare dalla finestra quel razzismo che aveva preteso di scacciare dalla porta, nel rifiuto della razionalità, vista come retaggio del passato coloniale dell’Europa. Se confrontiamo il modello inglese -“comunitarista”- con quello francese -che pretenderebbe un’integrazione forzata degl’immigrati in un modello unico di Repubblica laica che rifiuta l’ostentazione di qualsivoglia simbolo religioso- vediamo come, pur partendo da premesse diverse, si giunga al medesimo fallimentare traguardo: la scomparsa della razionalità e della democrazia. “Londonistan” e le banlieus francesi altro non sono che una sorta di ghetti, veri e propri “cavalli di Troia” per la realizzazione del “califfato mondiale”, prospettiva sottovalutata e perfino schernita, in ordine alla sua pericolosità, dai multiculturalisti. L’ultimo ospite del Convegno è il più noto al grande pubblico, al punto di meritare, secondo Dario Fertilio, il titolo di “Padre protettore” dei “Comitati per le libertà”, insieme a Vladimir Bukovskij. Un lungo, caloroso applauso accoglie MAGDI ALLAM, scrittore e Vicedirettore ad personam de il Corriere della Sera. Difficile riassumere in frasi sintetiche, sempre inadeguate, i concetti e i principi espressi nella sua testimonianza. Egli ha preso le mosse dalla rubrica televisiva Anno zero, curata da Michele Santoro e Maria Grazia Mazzola, che, andata in onda alcuni giorni prima, aveva denunciato, attraverso una telecamera nascosta, la presenza attiva dei predicatori d’odio i quali, numerosi nella maggior parte delle moschee d’Italia, istigano al Jihad contro l’Occidente e incitano alla violenza contro le donne musulmane (e non, evidentemente!). Quanto documentato è un’autentica emergenza nazionale, sottovalutata dalla classe politica e da diversi organi d’informazione. Attraverso quella telecamera, ha puntualizzato Allam, finalmente possiamo osservare la realtà dell’estremismo islamico nel nostro Paese per quella che è, senza mistificazioni. Realtà obiettiva, verità da cui prendere le mosse per agire. Soltanto se si parte dalla verità, che si fonda sulla realtà, allora diventerà possibile immaginare un percorso di autentica integrazione dei musulmani all’interno dei binari invalicabili dei principi e dei valori fondanti l’identità nazionale italiana. Le immagini di Anno zero sono un documento per tutti coloro che vogliono vedere in faccia la realtà, a cominciare da chi ha incarichi di responsabilità e nel governo, i politici che sono preposti a legiferare, i magistrati a cui spetta il compito di far rispettare la legge e le forze di sicurezza che tutelano l’ordine pubblico. Dall’inchiesta televisiva emerge, ancora una volta, ciò che è da tempo autoevidente, ma che si vorrebbe negare per non turbare l’ordine costituito e il quieto vivere: all’interno del nostro Stato di diritto si annida uno Stato teocratico, che ha la sua roccaforte nella rete delle moschee dove si indottrinano i giovani in crisi d’identità al culto della guerra santa contro i cristiani e gli ebrei, rifiutando strenuamente l’integrazione nella società italiana; dove si insegna e si esercita una concezione maschilista e violenta del rapporto con le donne, legittimando e praticando i matrimoni poligamici. Come si può parlare, prosegue con passione, di (e con i) musulmani liberali quando si ha paura di fare i conti con questa dura realtà? Quando, come è successo di recente all’Università di Napoli, si organizzano incontri in tema di islam moderato e si invitano campioni dell’estremismo e/o della simulazione, come, da una parte, Omar Bakhri e, dall’altra, Gamal al Banna; quest’ultimo sì condannato dagli estremisti islamici, ma sostenitore dei terroristi suicidi palestinesi? Io non posso, ha continuato, suscitando un applauso a scena aperta, dialogare con chi rinnega il diritto alla vita, mia ed altrui! Troppi in Occidente, USA compresi, non capiscono (non vogliono capire) la reale natura -totalitaria e genocidaria- dell’integralismo islamico. La presenza di Hamas alle elezioni palestinesi del gennaio 2006 è stata imposta a Sharon e Abu Mazen da Stati Uniti e Gran Bretagna nell’assurda convinzione (o almeno speranza) di trasformarlo in gruppo politico responsabile -lo stesso errore è stato commesso in Egitto-; la lotta contro l’Occidente e la distruzione di Israele sono per Hamas non un’opzione politica, da scegliere o da contrattare: è un dovere religioso, come tale imprescindibile e non negoziabile. Nel rievocare la propria esperienza di vita Magdi Allam ha ricordato che l’odio religioso nel suo Paese d’origine, l’Egitto, è iniziato quando, dopo la guerra del 1967, è spuntato, come una pianta malefica, l’odio contro Israele, divenuto ben presto odio contro gli Ebrei in quanto tali, poi contro i cristiani e i musulmani liberali. La difesa del diritto di Israele alla vita è, a parere dello scrittore, un dovere irrinunciabile, da contrapporre all’odio imprescindibile dei suoi nemici. Nel mese di maggio uscirà il suo nuovo libro, dal significativo titolo: Viva Israele. Colpisce il fatto che, nel nostro Paese, oggi, uno dei più strenui difensori di Israele sia un cittadino italiano di origine egiziana, cresciuto ed educato nella cultura musulmana da una madre religiosa praticante. Paradossi della vita. Magdi mi ricorda, nel suo essere e ragionare coraggioso, senza sbavature, certi eroi del nostro Risorgimento, armati solo di quelle idee forti grazie alle quali l’Italia può essere fiera di se stessa. Così scrivevo in un ritratto che ho avuto l’ardire di dedicargli tempo fa e che credo abbia gradito. I musulmani liberali non mancano, ha insistito, anche se sono (ancora) una minoranza, sia nei Paesi di origine, che in Occidente. Qui, da noi, essi sono presi tra due fuochi: gli islamisti, che li considerano taqfir (come tali da emarginare, indi eliminare) e la società occidentale, più interessata alla salvaguardia dello staus quo -e di un ipotetico benessere- che a correre il rischio di far trionfare la verità. Spetta agli occidentali, in primis agli europei, ora ottenebrati dal mito multicultural-pacifista, invertire la tendenza, per la salvezza di tutti.
Non darò conto, per ovvi motivi di spazio e per non affaticare gli ipotetici lettori, già provati da questo lungo scritto, del vivace dibattito che è seguito alle relazioni. Dibattito che ha toccato temi più disparati: dalle prospettive sul futuro dell’Iran, con interessante digressione in ordine alle responsabilità statunitensi sull’ascesa di Khomeini; al silenzio delle associazioni “femministe” nostrane sulla persecuzione delle donne nell’Islam; all’influenza dell’ideologia multiculturalista negli ambienti intellettuali USA -a parere di Israel assai rumorosa, ma non così forte come nel Vecchio Continente: insomma il modello Columbia University non è vincente come sembrerebbe-; alle diverse interpretazione dei versetti del Corano; alla tragica vicenda dell’autista di Daniele Mastrogiacomo, decapitato dai terroristi sequestratori per ricattare il governo italiano, la sorte della cui vedova già incinta (e che ha abortito per lo shock) nessuno pare occuparsi, ecc. Un confronto pieno di spunti che fa ben sperare, al di là di un contesto, quello di casa nostra, che appare, in prima istanza, cloroformizzato e disattento.
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