Aliberti Editore, Collana I lunatici
 
“…Fatto sta che di [lui], a sessant’anni dalla morte, si era perduta ogni traccia. Eppure aveva vinto più di tutti nella sua epoca, un’epoca gloriosa del pallone, aveva conquistato scudetti e coppe. Ben più di tecnici tanto acclamati oggi……..Sarebbe immaginabile che qualcuno di loro scomparisse di colpo? A…..è successo
Chi scrive queste righe è Matteo Marani, giovane giornalista sportivo, collaboratore de il Guerin Sportivo, docente di giornalismo all’Università di Bologna e allo IULM di Milano.
Tempo fa, in modo fortuito, durante la lettura di un volume sul calcio, egli si era imbattuto in un personaggio per lui quasi sconosciuto: Arpad Weisz. Il libro ne faceva un breve accenno, limitato al fatto che era stato allenatore, dalla fine degli anni ’20 in poi, di Inter (allora chiamata Ambrosiana) e Bologna, alle quali aveva fatto vincere ben tre scudetti e altri prestigiosi tornei; si precisava che era un ebreo ungherese, deportato e ucciso dai nazisti. Nient’altro. Il contrasto tra quelle scarse, ma significative, notizie e il silenzio che, nell’ambiente, a cominciare da quello bolognese, circondava il personaggio fa scattare in Matteo un profondo interesse per il personaggio:
Arpad Weisz sembrava essere scomparso nel nulla, per decenni nessuno ha parlato di lui, l’argomento era, per così dire, tabù. Con un’eccezione: negli anni ’60, nella rivista del Bologna F.C. -che celebrava la storia “rossoblu” in occasione del campionato italiano vinto dalla squadra nel 1964, con l’allenatore Fulvio Bernardini (guarda caso, allievo di Weisz)- un cronista locale aveva fornito dati rilevanti sul tormentato percorso di Weisz e della sua famiglia prima della fine. Con pazienza e costanza Marani inizia la sua ricerca, con l’animo del detective appassionato e una domanda che emerge ad ogni passo e che lo tormenta ancora oggi: come mai un personaggio tanto rilevante per lo sport più amato in Italia, è scomparso nel nulla? Certo il passaggio dalla guerra alla pace, l’ansia di ricostruzione di vite e di città, il desiderio di buttarsi tutto alle spalle, hanno influito sulla rimozione delle vicende che compongono quell’immane tragedia per la quale ogni aggettivo, ogni espressione, ogni parola rischiano di suonare inadeguati: la Shoah. Ma questa sorta di annullamento, più o meno inconscio, egli non se lo sa spiegare del tutto. I testimoni, in un primo momento, non li trova; i giocatori del Grande Bologna- Campioni d’Italia, per merito di Weisz, nel 1936 e nel 1937- non ci sono più; com’è scomparso il collega di cui aveva letto le notizie sulla rivista del Club.
La sua indagine inizia dalla fine della storia: Weisz era davvero morto ad Auschwitz e quando? Senza perdersi d’animo, con il solo aiuto dapprima delle carte, dei documenti originali, Marani trova anzitutto in Michele Sarfatti, Direttore del Centro di Documentazione Ebraica di Milano, un aiuto prezioso nella difficile opera di ricostruzione del percorso agli inferi di questa famiglia (padre, madre, due figli bambini); egli scartabella archivi, compulsa siti web, interroga giornali dell’epoca e uffici anagrafe, in diverse parti d’Italia, a cominciare da Bologna, e nel Paese dove la famiglia Weisz si rifugiò, nella vana speranza di sfuggire al suo destino, l’Olanda.
Pian piano i contorni del gruppo si fanno più distinti, il libro prende forma.
Arpad Weisz era nato a Solt (Ungheria) il 16 aprile 1896; dopo un periodo di attività come calciatore, egli diviene allenatore, dapprima nella terra d’origine, poi giunge in Italia; preceduto da una fama di serio professionista, dalla notevole esperienza (aveva compiuto, nel 1928/29 uno stage in Sud America). Dopo un breve periodo in club minori, approda all’Ambrosiana, alla quale fa vincere lo scudetto nel 1929/30. Weisz non è solo un tecnico competente, ma un innovatore: cura a fondo la preparazione atletica dei calciatori, scendendo a sua volta in campo durante gli allenamenti (mai, prima di lui, si era visto un “mister” in tuta!), comprende l’importanza dei ritiri di quadra e del“fare spogliatoio”; è un formidabile talent scout: valorizza e aiuta a crescere un diciassettenne di nome Giuseppe Meazza. Insieme ad Aldo Molinari (un dirigente dell’Ambrosiana, specializzato in calcio mercato) scrive, nel 1930, un manuale, Il Giuoco del calcio (con prefazione di Vittorio Pozzo), notevole perché anticipatore di molte idee sul pallone, sui ruoli in campo e sulle metodologie di allenamento.
Nel 1935, chiamato dallo “storico” Presidente rossoblu, Renato Dallara, egli giunge a Bologna, con la moglie Elena e i figli Roberto e Clara, nati in Italia.
Il libro di Marani si apre a Bologna, nella primavera del 1938. Arpad è stimato ed amato, ma pervaso da una certa inquietudine per gli eventi tragici che si profilano all’orizzonte; si concentra sul lavoro, sugli affetti familiari, quasi a voler dimenticare ciò che si sta preparando per lui, per i suoi cari, per milioni di altri esseri umani innocenti. Matteo segue partecipe e commosso, ripercorrendo ogni luogo fino al tragico epilogo, le vicende di questa famiglia, vicende che si intrecciano con l’intera tragedia del popolo ebraico: dagli anni bolognesi, alla fuga dall’Italia nel gennaio 1939, a seguito delle infami leggi razziali (si dimette da tecnico del Bologna, nell’ottobre 1938, non “viene esonerato”, come afferma qualcuno), al breve passaggio a Parigi, al rifugio in Olanda, nella cittadina di Dordrecht, dove Arpad allena la locale squadra di calcio con la consueta passione e riproponendo i metodi usati da noi. Il libro è corredato da significative fotografie: ecco un signore dallo sguardo vivace, un po’ironico, cravatta e cappello a lobbia, o maglietta e calzoncini, a seconda dei casi; poi, nelle immagini olandesi, gli si legge negli occhi una incredula disperazione. Vi sono anche alcune immagini di Clara e Roberto; impossibile non pensare al milione di piccoli uccisi i cui nomi sono scanditi in perenne memoria al Corridoio di Yad Vashem. Mi sono chiesta, durante la lettura, come mai Arpad non sia fuggito lontano, quando ancora avrebbe potuto farlo, magari in Sud America. Forse la risposta sta nel fatto che lui, uomo corretto e positivo, un signore, cresciuto in un ambiente cosmopolita come l’Ungheria di inizio Novecento, neppure riusciva a concepire quale inedita mostruosità stesse attuando Hitler con i suoi volonterosi carnefici, non solo tedeschi. “Avevamo contro di noi la gioventù uscita dalle migliori università della Germania” annota con sconforto Elie Wiesel nella sua autobiografia. Innamorato del proprio lavoro, Weisz sperava forse in un miracolo. Quando ha aperto gli occhi era troppo tardi. All’alba del 2 agosto 1942, gli stivali degli agenti della Gestapo battono quindici colpi, tanti quanti sono i gradini della casa di Bethelehemplein 10 road. La famiglia è deportata, prima nel campo di smistamento di Westerbork, posto in una località nascosta, lontana da sguardi indiscreti, indi è caricata su uno di “quei” treni. Elena e i figli vengono uccisi subito, all’arrivo ad Auschwitz, Arpad “sopravviverà” fino al 31 gennaio 1944.
Un libro, il primo di Matteo Marani, da leggersi tutto d’un fiato, con commoventi testimonianze, prima tra tutte quella del Sig. Giovanni Savigni, che era stato il miglior amico di Roberto durante gli anni bolognesi e che il giornalista va a trovare nella sua abitazione; indi da riprendere in mano, per porsi domande sul PERCHÉ, per riflettere su un aspetto, all’apparenza secondario: anche il mondo dello sport è stato investito dall’orrore dell’antisemitismo. A questo proposito è uscito di recente, presso Mondadori, La partita dell’addio, di Nello Governato (già calciatore e, prima ancora, giornalista) in cui viene narrata la vicenda di colui che viene considerato il maggior attaccante della storia del calcio, l’austriaco Matthias Sindelar (soprannominato Cartavelina). Matthias aveva sposato un’ebrea e quando, nel 1938, i nazisti, giunti a Vienna, gli chiesero di giocare nella squadra tedesca e far vincere i mondiali alla Germania, egli preferì suicidarsi con la moglie.
 
Grazie al volume/testimonianza di Matteo Marani è stata stracciata la coltre di oblio che aveva avvolto la figura del valoroso tecnico ungherese: con l’interessamento del Presidente del Bologna, del Presidente del Consiglio comunale e dell’Ing. Lucio Pardo, illustre esponente della locale Comunità ebraica, verrà apposta, a ricordo di Arpad Weisz una targa allo stadio comunale della città, in quel luogo che egli aveva tanto amato ed onorato.
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