MANIN Abbado

 

 

Ugo Guanda Editore S.r.l., Collana Piccola Biblioteca Guanda, Milano, Ia edizione Gennaio 2015; IIa edizione Febbraio 2015, pp. 176, €.14

“Quel che conta è trovare per ogni pianta la posizione giusta. Altrimenti non sono felici. E a me piacciono gli alberi felici”

“La musica è la migliore medicina. Più di ogni cura è stata proprio la musica ad aiutarmi in questi mesi difficili”

“E’ curioso vedere che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici….” (Giacomo Leopardi)

“Senza la musica la vita sarebbe un errore” (Friedrich Nietzsche)

“Figlio…quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore” (dal  libro del Siracide)

“Non piangere sulla mia tomba. Io non sono qui. Non sto dormendo. Io sono i mille venti che soffiano…..Sono la tenera stella che brilla nella notte” (Antico canto)

 

 

Durante i soggiorni a Bologna abitava all’ultimo piano di una dimora antica (Palazzo Isolani) posta sulla suggestiva Piazza S. Stefano caratterizzata dall’omonimo complesso basilicale d’origine paleocristiana. In un appartamento, premio finale dopo la scenografica scala a chiocciola: autentico gioiello, a lungo ritenuta opera del Vignola e dunque cinquecentesca, ma di recente qualcuno l’ha attribuita a Giuseppe Antonio Torri (autore del rifacimento della facciata), inizio secolo XVIII.

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Poco importa. Di lassù è garantita una vista mozzafiato sui tetti rossi della città e le sue meraviglie. Le Due Torri, Asinelli e Garisenda, di fronte; la Coronata, leggermente discosta; a destra, la Chiesa dei Santi Bartolomeo e Gaetano; a sinistra, un po’ lontana, quella della Vita; impegnati come sentinelle sullo sfondo, discrete ma qualificate, la Torre dell’Arengo e il campanile della Metropolitana di S. Pietro. L’immagine qui sotto dà solo una visione parziale della meraviglia.

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Era il suo rifugio: sobrio, come gli si addiceva, dominato dalla luce, immerso nella serenità della Musica. Non avrebbe potuto esserci luogo più degno per accoglierlo. Impreziosiva  il tutto l’altana, con tetto spiovente, collegata all’appartamento tramite una scaletta interna; vi accompagnava gli amici per contemplare tra le nuvole lo splendore del cotto bolognese. E poi, incastonato nel tetto, il piccolo terrazzo, sorta di “balcone ad asola”, trasformato da lui in  rigoglioso giardino popolato da svariate essenze vegetali: alcuni agrumi, un olivo, un melo nano, cascate di fiori, colori, profumi, vari  a seconda di quanto esprimeva la fantasia.

A poche centinaia di metri da me.

L’altana è ben visibile dalla porticata Via S. Stefano che costeggia l’omonima piazza. Se levi lo sguardo puoi scorgere, sulla sommità del Palazzo Isolani, una sorta di “casetta” solida, del caldo colore rosa locale, dotata di quattro finestre dalle imposte verniciate in grigio. Per la verità, non so, al momento, se detta “casetta” fosse tutta di pertinenza del suo appartamento. Osservo le finestre. Di esse, una, che solo immagini, non è visibile allo sguardo -ritengo che fosse la portafinestra prospiciente il terrazzino con le varie essenze vegetali -; nella seconda, le imposte si trovano in posizione di semi apertura fissata dal tempo; quelle delle altre due sono mestamente serrate. Da quando chi vi abitava non c’è più. Una fitta di dolore e nostalgia, ogni volta che  alzi gli occhi; meglio quindi recarsi di fronte, sulla stessa piazza, nel “luogo del Passaggio”, dove lo percepisci più vicino; anzi posso dire, sia pure con qualche sforzo, vivo.

Quassù, invece…Salita con trepidazione la scala a chiocciola dai gradini tirati a lucido, ti prende una strana vertigine, complice quest’ultima rampa che par fatta apposta per disorientare te con la tua trovata balorda di avventurarti fino in cima, magari attenta a che non  ci si accorga che sei lì. E’ un Segreto.

Mai avrei pensato di commuovermi davanti alla porta di un appartamento. Speranza, mista a trepidazione, che quella PORTA di fronte alla quale ti fermi (sono due, in cima alle scale, ma ho indovinato quella giusta, non c’è ombra di dubbio; e non lo dico a nessuno) si apra di colpo: il Sorriso!

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No, no. Nessuno al di là della soglia. O solo estranei, forse. Mesi fa mi avvicinai passando lieve la mano su un battente. Subito, dall’interno, un cane, indovino di piccola taglia, segnalò con abbaiare rabbiosetto la sua presenza, tacitato subito da voce femminile.  Chi saranno mai i nuovi abitanti? Fuga precipitosa col cuore in tumulto.

Rinvieni invece piccole tracce, banali di per sé, ma che ispirano una tenerezza indicibile perché ti restituiscono echi di vita quotidiana.

Per esempio: Let’s play, cioè: “Suoniamo”; oppure: “Giochiamo”: Oplà….Tutto un programma! Provate ad indovinare di che si tratta.

Un attimo per abbracciare con lo sguardo questo fantastico spicchio della città che egli aveva amato al primo istante. Ripensi al giardino sul terrazzo. Chi si sarà occupato delle piante, dopo? Esse sono creature vive, in grado di percepire l’affetto di chi le cura, a rilevare presenze ed assenze. Si saranno chieste: dov’è finito quel signore gentile che tanto ci amava? Che cosa gli sarà successo? Possibile che si sia dimenticato di noi? Negli ultimi tempi era sì sempre più magro e provato, con lo sguardo triste – e il suo caro sorriso?-, ma mai ci aveva fatto mancare, in precedenza,  attenzioni e carezze.

E’ ora di scendere.

In precedenza l’avevo visto, detto signore, per un attimo, solo un paio di volte, tempo addietro. In entrambe le occasioni era sul marciapiede opposto rispetto al mio, in una strada del centro storico, in compagnia di Fabio Alberto Roversi Monaco, allora Presidente della locale Fondazione della Cassa di Risparmio. Questi, insieme a Carlo Maria Badini (Sovrintendente alla Scala di Milano dal 1977 al 1990, che quindi lo conosceva bene), nel 2004 gli aveva chiesto la disponibilità a dirigere una neonata Orchestra, l’Orchestra Mozart, formata da giovani musicisti di livello, così chiamata in onore dell’immortale compositore austriaco, giunto a Bologna quattordicenne, nel 1770, per sostenere l’esame di composizione all’Accademia di Padre Giovanni Battista Martini. L’idea di fondo era non solo offrire opportunità di  lavoro ed esperienze ai giovani diplomati usciti dai Conservatori, ma pure di incrementare la passione musicale in tutto il territorio bolognese. La nascita dell’Orchestra Mozart rientrava nel più ampio progetto della European Mozart Way con sede a Salisburgo, l’organismo nato per celebrare nel 2006 il 250 ° anniversario della nascita di Mozart.

Per ritornare all’ambito bolognese, un programma  ambizioso ideato da chi, come Badini -scomparso purtroppo nel 2007-, aveva avuto sempre a cuore la diffusione della cultura, prima come politico, indi come operatore. E lo stesso Badini aveva subito individuato il Personaggio giusto per dirigere questa nuova compagine.

Felice di sostenere come sempre i talenti in boccio, detto Personaggio aveva accettato l’invito col consueto, appassionato spirito pionieristico. In barba alla celebrità mondiale consolidata da decenni -avrebbe potuto non mettersi in gioco ancora una volta- e all’importante operazione chirurgica subita nell’estate 2000. Mi guardo dal far menzione dell’età -70 anni- perché questa, a suo avviso, contava ben poco. “I numeri non mi hanno mai fatto impressione” teneva a precisare.

Nel tempo era andato costituendosi un progetto di ampio respiro, comprendente la realizzazione di un grande Auditorium delle Arti (autore l’Architetto Renzo Piano), a carattere interdisciplinare, con la Musica come centro propulsore. Iniziativa notevole per Bologna, ricca di una rilevante tradizione musicale e con vasta popolazione universitaria; un’importante opportunità, in primo luogo culturale, per tutta la Regione. Come del resto era accaduto a Torino nel 1994, dove nella costituzione dell’Auditorium del Lingotto, le proposte del nostro Personaggio, anche di carattere tecnico, furono essenziali per la nascita di una struttura di notevole valore. Quella della creazione di Spazi per la Musica era sempre stata per lui una scelta fondamentale.

Egli aveva quindi preso casa qui, nella mia città, dove stava alcuni mesi all’anno, per seguire al meglio la nuova creatura.

E dunque….Uso il presente storico per rendere più viva ed attuale la narrazione.

Una fredda mattina di novembre 2013 me lo trovo davanti all’improvviso, su una Via Castiglione miracolosamente libera dal traffico. Solo, soprabito scuro, ha un’aria oltremodo sofferente… è in una dimensione lontana. Mi stupisce, a dire il vero, che nessuno lo accompagni. Così  indifeso.

Il volto è quello di un Cristo di El Greco, carico di tutto il dolore dell’umanità.

Sono sul punto di rivolgergli la parola, dirgli quale onore rappresenti l’averlo tra noi; banalità, d’accordo, ma un modo per esprimere ammirazione e vicinanza. Confesso che me ne manca il coraggio; a me che non ho problemi ad accostare chiunque, nonostante una qual certa idiosincrasia nei confronti delle persone illustri (a cominciare da quelle ritenute tali) o comunque famose; per lo più tutte sorrisi e carinerie con i loro amici, ma fredde di modi verso i comuni mortali. Ho paura, lo ammetto, della reazione negativa. Ma lui, illustre davvero e non sulla base di etichette, è di altra pasta: pur nel carattere schivo, o forse proprio per questo, non pone diaframmi fra sé e gli altri. Molto riservato, di pochissime parole. Comprenderò poi, via via, nel corso dei mesi, che sono di fronte ad un tesoro da scoprire con pazienza, rispettandone sensibilità, tempi, silenzi.

Ma, quel giorno, ora lontanissimo, pur consapevole del suo valore, nulla so di tale semplicità nel trattare il prossimo; ancora. Come quel suo farsi chiamare non solo da figli e amici, ma pure dai giovani musicisti, solo per nome, Claudio. Ben lontano da qualsivoglia, studiata demagogia.

E non conoscevo la veritiera affermazione di Giacomo Leopardi di cui in premessa. Tuttavia il mio silenzio nasce pure da discrezione, con un pizzico di timore reverenziale verso chi so, sia pure senza aver troppo approfondito, essere sul serio autorevole. Sofferente e assorto.

Alza il capo per un istante; il messaggio silenzioso, ma chiaro, è: non dire nulla, ti prego. Fa’ conto di non avermi nemmeno visto. Non è superbia, la sua;  la sua cifra sono semplicità, modestia.  E’ palese il desiderio di riservatezza, di non apparire. Di non dar fastidio. Par che sussurri non stia a perder tempo con me, cara signora. La vedo indaffarata, non si preoccupi di cercare le parole giuste per il sottoscritto; basta uno scambio di sguardi.

Non lo conosco, ma colgo al volo questo aspetto del carattere. E’ ciò che mi ha affascinato fin dal primo istante, ma  temo non abbastanza compreso da alcuni -spero pochi- tra coloro che sbandierano, a destra e a manca,  una lunga frequentazione con lui. Frequentazione che non ha colto il “cuore” della persona, con la quale occorre prescindere da vie, per così dire, ordinarie. Senza timori, ma con tanta pazienza.

Passo oltre…Una frazione di secondo dopo sono già pentita. Vorrei rincorrerlo,  stringergli la mano, almeno. Abbracciarlo, magari. Senza dir nulla, certo. Senza pretendere, men che mai, che mi apra il suo cuore.

Mi guardo attorno  per ritrovarlo. Scomparso. Inghiottito da chissà quale strambo sortilegio. Eppure, l’avevo notato subito, il passo non era affatto veloce.

Ma forse è meglio averne rispettato la  volontà: obbedire alla sua muta richiesta di Silenzio.

Mi viene automatico associare lui, divenuto col tempo così esile nell’aspetto, alla Musica: realtà misteriosa, immateriale, la quale, allorché si è espressa, pare svanire per far posto pian piano al Silenzio; come il Silenzio aveva ceduto, prima, il passo alla Musica. Tuttavia, Dopo, ti senti diversa da com’eri Prima. Perché quella nuvola impalpabile è entrata in te.

Provo un forte rammarico; unito ad un chiaro senso di colpa, dovuto pure al fatto che, da troppo tempo, complici molteplici impegni, professionali -ma non solo-, cui (da circa un quinquennio) si sono affiancati seri interessi letterari, abbia riservato alla Musica uno spazio molto minore di quanto in realtà io desideri. La Musica è realtà totalizzante. Infatti, non sono mai stata capace di leggere, studiare o fare alcunché durante l’ascolto. Debbo essere assolutamente concentrata, con la testa e soprattutto col cuore. Così essa è passata in sottordine, mio malgrado, scavalcata da altre priorità.

Viceversa, a partire dagli anni universitari, sono stata un’abituale frequentatrice di sale da concerto: Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, ma non solo, costituivano una grande gioia per me. Gli amici ed io eravamo lieti di recarci alla Sala Bossi, alla Basilica dei Servi, nella Chiesa di S. Michele in Bosco o in qualunque altro luogo ove risuonasse la Magia.

Quel giorno di fine autunno nasce un tacito impegno: ritornerò ad amare e frequentare la Musica. Per lui, per esprimergli il mio Grazie di avermi aiutato a ritrovare  una parte di me. Soltanto dedicandomi uno sguardo carico di dolore.

 Al di là delle mie trascuratezze musicali e malgrado non lo conoscessi in profondità, ho sempre avuto in grande considerazione la figura di Claudio Abbado. Celeberrimo direttore d’orchestra, fascinoso e trascinante, di luminoso sentire civile, convinto da sempre del valore culturale, sociale e terapeutico della Musica.

Per questo aveva portato tale “Medicina” anche nei luoghi dove più ce n’era bisogno: nelle carceri, negli ospedali, tra le popolazioni colpite da eventi tragici, ad esempio il terremoto: come, negli ultimi anni, a Ferrara, città che, poco dopo la morte, gli ha dedicato il suo teatro, in segno di gratitudine; memore pure del prezioso lavoro svoltovi dal Maestro per circa un venticinquennio. O all’Aquila, dove -nel 2012- grazie all’inventiva di Abbado (le “piccole idee” messe sul tavolo, come le chiamava) e appoggiata da un “braccio esecutivo” di lusso e fidatissimo, violino di spalla (per usare un termine musicale), in quanto amico di una vita, l’Architetto Renzo Piano, è stata realizzata la prima architettura nel centro storico della città dopo il terremoto. Un piccolo auditorium in legno, della stessa dimensione della sala lesionata dal sisma posta nel vecchio Castello; opera, inaugurata alla presenza di Giorgio Napolitano il 7 ottobre di quell’anno, interamente finanziata dalla Provincia di Trento (di lì è venuto il legno); un regalo di Renzo che ha confezionato il progetto e di Claudio che vi ha tenuto il concerto inaugurale. Di eccezionale suggestione l’immagine qui sotto, opera di Marco Caselli Nirmal. La struttura, polifunzionale, costruita in abete rosso del Trentino (materiale con ottime qualità acustiche ed antisismiche) è costituita da tre cubi in legno di differenti dimensioni. Quello centrale, più grande, corrisponde alla sala dell’Auditorium, in grado di ospitare 250 spettatori e un’orchestra di 40 musicisti.  La realizzazione in cantiere ha utilizzato un gruppo di studenti aquilani.

Auditorium L'Aquila

Tale impegno costante gli aveva originato schiere di ammiratori commossi -una moltitudine di fedelissimi, superiore a quelle attorno ad altri geni del podio-, ma pure, anche se penso minoritari rispetto ai primi, inevitabili gruppetti di acidi detrattori. I mediocri, i malcontenti, gli stupidi benpensanti… Coloro cui egli stava indigesto perché non sapevano accettare che un uomo tanto acclamato -e anche ricco, certo: e allora? A parte che ritengo vi fossero altre persone dello stesso ambiente assai più ricche di lui;  e senz’altro meno dotate- potesse essere così attento ai valori della democrazia, della giustizia sociale, della cultura come esperienza vissuta. Della Musica capace di migliorare la vita; talvolta addirittura di salvarla. Ma che corbelleria è questa? Si saranno chiesti quei signori cui accennavo sopra! Col rinforzo: dichiarazioni ad effetto destituite di logica; solo una bandiera da sventolare ad ogni pié sospinto. Smania di esibirsi da parte di costui che gioca a far la rivoluzione. Mai contento.

I micidiali luoghi comuni della “destra”, di coloro cui andò di traverso la nomina a Senatore a vita. L’odiosa destra, attaccata come un’ostrica alla ricchezza, ma  sempre pronta ai predicozzi pseudo-morali. Ipocrita: caratteristica tipicamente italica.

Ma pure le cosiddette persone “di sinistra” -una sinistra conformista, che non ama lottare per i valori democratici, alla perenne ricerca dei sentieri agevoli e alla moda, come minimo priva di fantasia-  pretendevano di tirarlo dalla loro parte,  senza considerare che il suo modo di concepire la Musica e la Vita non era incasellabile in modo acritico, meccanicistico, privo di autentico spessore, come sarebbe loro piaciuto.

Per non dire di chi, semplicemente e al di là di qualunque “pensiero” politico, covava nei suoi riguardi un’immarcescibile invidia, proprio perché ne percepiva, suo malgrado, la superiorità, morale ed artistica. Ma da tutta quella polvere Claudio non si lasciava sfiorare. Riservato al massimo, com’è sua abitudine, non amava entrare in sterili polemiche. Dote invidiabile, specie da chi, come me, resta ferita da simili atteggiamenti.

Entusiasta sia nell’approfondimento del repertorio classico più consolidato (ma ogni volta in grado di riservare sorprese), sia nella riscoperta di autori non suonati da tempo, ma pure pronto a esplorare percorsi del tutto nuovi.

Amante della Natura, al punto di trasformare, nel corso del tempo, il luogo (in Sardegna), dove da fine anni ’60 aveva cominciato a costruirsi una casa -per rilassarsi, studiare, far vita marina con familiari ed amici durante la bella stagione-, in un immenso parco naturale, ricco di alberi ed essenze di ogni tipo, un vasto spazio di nove ettari reso accessibile a tutti, sottratto, pur con notevoli sforzi,  alla speculazione edilizia; grazie pure all’aiuto del figlio più grande.

“Anche se può sembrare un po’ ridicolo, confesso che quando ad Alghero, o in Engadina, interrompo il lavoro e comincio a camminare nel giardino, la partitura che ho appena lasciato -tutta insieme- comincia a risuonare nella mia mente; è un po’ come se il suo ripasso integrale avvenisse tra le piante…”, così in una conversazione del 2010 con Stefano Boeri e Renzo Piano, pubblicata su Abitare 502.

Nello stesso anno, durante un’intervista al Corriere della Sera, alla domanda circa quale cachet avrebbe potuto farlo decidere a salire ancora sul podio della Scala (di cui era stato direttore musicale dal 1968 al 1986) egli, milanese di nascita e formazione, rispose: “Direi di sì a patto di essere pagato in natura, con 90.000 alberi da piantare a Milano”. “Ovviamente” -vien da dire, poiché viviamo in un Paese che non ama se stesso- di una simile proposta non fu colto il profondo significato; un’idea, al di là delle apparenze, realistica e lungimirante: le nostre città, intontite dai rumori, soffocate dallo smog, non respirano più e si stanno via via suicidando. Nei fatti, quella mirabile “provocazione” cadde nel vuoto. Addirittura alcuni la tacciarono di inutile snobismo. I soliti malevoli ottusi, che non mancano mai, quelli del con-la- cultura-non-si-mangia. Affermazione che si commenta da sola.

Purtroppo, poche settimane dopo il nostro incontro, mancato sì, ma da me non dimenticato, Claudio Abbado muore, nell’abitazione bolognese. E’ la mattina di lunedì, 20 gennaio 2014. In un dignitoso, assoluto, riserbo, nello stile del personaggio, nel nascondimento verrebbe da dire, si era consumato in quei mesi un dramma personale e familiare.

A poche centinaia di metri da me.

Per sua espressa volontà, la camera ardente è aperta nella Chiesa dei Santi Vitale e Agricola, parte integrante del complesso stefaniano. Là il feretro viene portato dalla casa, con la compagnia di un numero ristretto di persone più vicine, alle quali, giunto subito da Roma, si unisce, insieme alla moglie Clio, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il quale, a fine agosto 2013, lo aveva nominato Senatore a vita.

Non appena ne ho notizia, mi precipito in S. Stefano, nel “luogo del Passaggio”. A omaggiare  un’insigne figura? Non esattamente -sarebbe bastato un solo accesso!-, o meglio non solo. Vado a salutare chi, per motivi a me ancora non chiari, sento essere uno di famiglia; la chiarezza arriverà -almeno in parte- col tempo. L’amico al quale eri solita confidare segreti mai rivelati ad altri, sicura che ti avrebbe ascoltata senza interromperti e, solo dopo, precedute da un attimo di silenzio, col Sorriso, detto le parole giuste. E incoraggiato: “Non avere paura”.

Ecco perché sento in me un enorme vuoto. Possibile, mi domando subito dopo, che mi capiti nei confronti di qualcuno non incontrato direttamente? Qualcuno che, ai miei occhi, era stato sì una ragguardevole figura che, per tanto tempo, aveva bene illustrato l’Italia nel mondo, certo -averne di gente siffatta..-, ma con il quale non c’era mai stata alcuna vicinanza, diciamo, personale? E, men che mai, familiarità di rapporti?

La vita segue talvolta strade a noi ignote; ci sono sentieri di comunicazione tra le anime, all’apparenza incomprensibili. Abbiamo entrambi amato un luogo, la Basilica di S. Stefano, seguendo -differenti e simili al tempo stesso- percorsi che tuttavia non hanno fatto in tempo ad intrecciarsi. Questo peraltro vale per la comune logica; ma non c’è solo quella.

L’inizio, chiamiamolo così.

Un “serpente” di visitatori occupa la piazza. Nutrito, lento, ma scorrevole. Tanti semplici cittadini come la sottoscritta, pochi “vip” locali -la presente mica è un’occasione per mettersi in mostra, arte nella quale detti signori/e eccellono!-, molti giovani, qualche turista asiatico in religioso silenzio, dimentico di scattare le foto di rito.

Giunta all’interno della chiesa, sguardo e cuore corrono subito alla bara in legno chiaro, circondata da diverse piante di girasoli. A fianco, in primo piano, leggii per strumenti e ragazzi che suonano melodie delicate; discreto e un poco discosto è il gruppo di parenti e amici intimi, nel quale spiccano alcuni uomini giovani, ma di età differenti, tutti con un’inconfondibile Gestalt di casa. Immagino i tre figli maschi -Daniele, Sebastian e Misha- e Luigi, figlio di Alessandra, la secondogenita. Un’aura di dolore grande, ma composto, pacato, musicale. Nulla di funebre perché al centro di questa sacra rappresentazione c’è lui, con i girasoli a far da ghirlanda. Sono molto emozionata perché non vi è nulla delle penose kermesse che sono divenute spesso, nel tempo, le camere ardenti e i funerali di celebrità, a volte con la complicità delle famiglie, a volte strumentalizzando in modo cinico il loro lutto. Due, tre volte all’anno, come minimo, ci vengono propinati questi insopportabili teatrini, con discorsi, applausi (!!!), variegata melassa. Il “dolore”/spettacolo è qualcosa di mostruoso.

Qui no, per fortuna. Siamo in un contesto ben diverso. Solo lui e la Musica.

In una preghiera appena sussurrata, gli rivolgo un pensiero carico di affetto e della speranza che, ovunque sia ora la sua Anima, mi percepisca vicina.

Nell’andarmene, una breve annotazione sul registro dei visitatori. “Con amore” scrivo. Mi esce così, dalla penna. Chissà perché.

Torno altre due volte: nel pomeriggio inoltrato e l’indomani a sera, poche ore prima che l’accesso ai visitatori venga chiuso per la celebrazione privata delle esequie.

Un paio di giorni dopo appare, sul Corriere della Sera, un bellissimo articolo a firma Giuseppina Manin. In esso ella ci racconta di come Claudio abbia passato gli ultimi mesi di vita in compagnia dei quattro figli, riuniti nell’appartamento di Piazza S. Stefano grazie all’affettuosa sollecitudine di Alessandra, sempre molto vicina al padre e instancabile nel tenere le fila dei complessi rapporti familiari. Figli di età diverse, cresciuti in momenti ed ambienti diversi, i quali così hanno avuto finalmente modo tutti di conoscersi meglio. E di parlare a lungo con lui, di farsi confidenze mai emerse prima. Tutti insieme nella casa, ricca di piante, con i libri, gli oggetti e le partiture tenute da lui in rigoroso ordine, portate per decenni da un capo all’altro del mondo.

Assistito con cura e competenza, ma fuori da freddi ospedali, non più in grado di proporre rimedi efficaci.

“…se n’è andato come voleva. In casa, con tutti noi intorno, sereno, nonostante il male”. Così il maggiore, Daniele, valente e sensibile regista teatrale.

“Era consapevole della morte ormai prossima” racconta Sebastian, l’architetto “non ne aveva paura”, ne discuteva con serenità, ritornando col pensiero ai luoghi più vicini al cuore. Come la Sardegna; o la valle di Fex, in Nord Engadina, ambiente ideale per passeggiare, studiare: lassù, aveva detto una volta, puoi sentire “il suono della neve mentre cade”. L’incanto montano dove, al ritorno da viaggi e impegni diversi, ritrovava -parole sue- la Magia, il Senso della Vita, riposandosi nella stube in legno dalle finestre piccole, posta all’interno di un’abitazione del 1600, una Bauernhaus (casa di contadini).

A quanto so, ne ha goduto pure nella sua ultima estate. Del profumo evocativo del legno, del verde, della brezza che fa ondeggiare e sussurrare le cime degli abeti.

Del Silenzio sovrano. Avrà riflettuto, Claudio. Tutto solo.

In quel paradiso, così intimo al suo spirito, luogo purissimo, lontano dai clamori, al quale non arrivi se non a piedi o in carrozza, all’interno del piccolo e raccolto cimitero di Crasta, i suoi cari ne porteranno parte delle ceneri (altra parte è stata ricevuta dall’amato mare sardo). L’1 novembre 2014, un sabato di splendida luce: il giorno dei Santi, vivi, non dei Morti. Una lapide in marmo nuda con solo nome e cognome; le date di nascita e di morte sono in basso a sinistra, quasi invisibili, a significare che non siamo fatti per la fine, ma il nostro destino è l’Eternità. Un paio di pigne, un ramo d’abete…. una caramella, forse l’affettuoso pensiero di un nipote.

Un dono grande è stata la vicinanza fortificatasi in quei mesi trascorsi insieme, per Claudio e per tutti loro, figli amatissimi da questo padre fuori del comune. Compreso l’ultimogenito, Misha, frutto della relazione con la celebre violinista russa Viktoria Mullova: ventitreenne, il ragazzo suona quattro strumenti da par suo, si è diplomato a Cambridge e frequenta un master di jazz a Londra. E’ pure compositore: non appena il padre è mancato, ha composto  di getto un brano dedicandoglielo; poi suonato in S. Stefano. Heal me on this cloudy day ne è il titolo. Stupendo, da musicista maturo. In pochi minuti sono concentrati e parlano tutti i sentimenti del Figlio: Amore, Dolore, Nostalgia, Speranza.

Preciso che, per ovvio riguardo, dato anche il personaggio, non scriverò della vita privata del mio protagonista; salvo annotare due riflessioni. La prima: le donne che  hanno avuto parte di rilievo nella sua vita sono poi rimaste, in modi diversi, legate a lui; la seconda: direi che, nel corso del tempo, la sua sensibilità è cambiata e maturata. Da bellissimo genio del podio, ammirato e corteggiato in tutto il mondo, che si ritiene libero di decidere -senza troppi problemi- non solo il proprio destino, ma pure quello altrui, a uomo ben consapevole che esistono anche gli altri, con gioie, dolori, aspirazioni. Con gli altri devi confrontarti; ascoltarli è imprescindibile. Dar loro e porsi nella condizione giusta per ricevere: gratuitamente. Nella Musica come nella quotidianità. Difficile, mi rendo conto.

Ora. Pace recuperata, dopo le terribili sofferenze dei giorni ormai alle spalle.

“Claudio è partito per il viaggio misterioso….Stringiamoci alla sua vita fortunata”: questo l’annuncio dato dai suoi “Ragazzi”. Due frasi molto belle che esprimono un affetto intenso. Significano, a mio sentire: nel grande dolore della separazione, siamo consapevoli che nostro padre ha avuto un’esistenza piena. Essa sia lampada per i passi di coloro che lo amano e, anzitutto, nostri, privilegiati perché suoi figli.

Confesso che è stato proprio il lungo ritrovarsi di casa, quella comunione rinsaldata e rivissuta giorno dopo giorno, cui hanno partecipato pure alcuni nipoti, ma soprattutto il coraggio con il quale Claudio ha affrontato la terribile malattia da cui era stato aggredito (per la prima volta, quattordici anni prima e che in tempi recenti aveva cominciato a sferrare l’attacco decisivo) e la forte dignità con la quale egli è andato incontro all’Appuntamento Finale a indurmi ad approfondire la sua figura; senza retorica -non lo avrebbe sopportato, dotato com’era di notevole spirito ironico ed autoironico-, ma con intensa partecipazione. Un ritratto, questo che sta prendendo forma, diretto a mettere in primo piano l’uomo -con le sue grandissime qualità e i limiti, pochi, ma che ci sono e non nascondo- cercando di non lasciarmi andare, data l’incompetenza, a errori macroscopici in ordine agli aspetti strettamente musicali. Un modesto contributo -senza alcuna pretesa- che intende essere espressione di affetto verso qualcuno che, pur non conosciuto personalmente, mi è del tutto consonante.

Letture qua e là, attenta visione di filmati con concerti, interviste (rilasciate da lui e da altri su di lui), riflessioni raccolte nel tempo.

E’ curioso che, in occasione di tali letture e interviste, abbia spesso ritrovato tanti pensieri, già presenti da tempo nel mio cuore, come in una sorta di empatia. Tengo a precisare che quelle testimonianze sono per me una conferma, quasi una condivisione; non si tratta di suggestioni altrui delle quali mi sono appropriata a posteriori con disinvoltura perché letterariamente affascinanti. Nulla di tutto questo. Potrà sembrare incredibile, ma è così. Ciò che scrivo mi esce dall’intimo, in piena libertà.

Peraltro l’anno trascorso ha rappresentato solo un inizio, pur denso di emozioni; la vera ricerca è iniziata dopo, in questo 2015.

Seconda tappa. Essa prende l’avvio da due, tra le tante, parole-chiave adottate per cercare di comprendere, in modo partecipato, col cuore, prima che con l’intelletto: Grandezza, mai ostentata, e disarmante Semplicità. O, meglio ancora, Umiltà, obbediente ad un sentimento religioso tanto alto da oltrepassare le tradizionali espressioni di fede . Un uomo geniale, celebre in tutto il mondo, il quale, anziché al Cimitero Monumentale della sua Milano (dove c’è solo una lapide commemorativa), magari in un sepolcro sfarzoso che attiri l’attenzione, chiede -o lascia intendere desiderare, non lo so con esattezza- di essere inumato in un piccolissimo cimitero di montagna, accanto a modesti valligiani, in mezzo alla Natura, quasi sparendo nel suo ventre. Nel giardino di una chiesetta antica dove egli sostava volentieri per ammirarne gl’incantevoli affreschi medievali. Luogo caro pure a grandi spiriti, quali Segantini, Hesse, Nietzsche. Non è una nota di colore tra le tante, bensì un aspetto significativo che la dice lunga su di lui. Ne dà notizia, sempre sul Corriere della Sera, Paolo Di Stefano (il 15 gennaio scorso) il quale si sofferma su che cosa era accaduto lassù, quella mattina di Ognissanti, in Val di Fex , “dove il tempo si dilata”. E ci rivela un particolare, denso di significato, in grado di donarci, se possibile, un ulteriore tocco di eternità: “…tre musicisti, amici di Claudio, hanno suonato musiche di Bach e di Schubert. Non ci tengono a far sapere i loro nomi”.

La pagina, pur breve, mi comunica un’emozione poetica in grado di illuminare di Eterno quei momenti dolorosi che avevano visto abbracciati al Papà i quattro Figli durante il soggiorno bolognese. Sono le state le parole scritte da Di Stefano a prendermi per mano, ma con decisione direi, nella (ri)scoperta. Della Musica, della Persona di Claudio. Del significato dell’Esistenza e  della Morte.

Il giornalista annuncia pure l’uscita, proprio in quel giorno -ad un anno dal 20 gennaio 2014- del saggio Nei giardini della musica – Claudio Abbado: la vita, l’arte, l’impegno. Autrice la collega Giuseppina MANIN.

La recensione dell’opera è in realtà un pretesto per narrare la sorpresa di un insolito incontro, di un cammino di approfondimento. Dunque il mio testo subisce, pur nell’impianto consolidato, continui aggiornamenti, man mano che la conoscenza procede. Per questo prego coloro che avranno la bontà di leggermi di avere pazienza.

L’opera di cui sopra, sulla quale mi soffermo, è scandita secondo una logica temporale, ordinata ma non rigida, sempre aderente alla realtà dei fatti e rispettosa verso persone (in primo luogo il personaggio principale, ma non solo) ed eventi, piena di suggestivi scambi tra Passato e Presente, un riandare ritmico da Oggi a Ieri e viceversa.

Essa nasce da una lunga frequentazione professionale di Manin con Abbado: articoli e interviste apparsi nel corso degli anni sul Corriere della Sera; ma l’Autrice si avvale anche di contributi offerti da colleghi giornalisti. Incontri, serate musicali, trasferte al seguito dei fitti calendari del Maestro. Ma anche nei suoi luoghi del cuore, da lui amati perché vi regnano la natura, gli alberi, le piante, un mondo dove egli si trovava in sintonia con l’esistenza. Una volta dichiarò che si sentiva una sorta di…giardiniere prestato alla musica.

Il libro mi è servito da ..seria impalcatura per il mio ritratto.

Altri ne sono usciti, sul tema, in questo torno di tempo. Tra essi, Alessandro ZIGNANI, Claudio Abbado, le opere e i giorni, Ed. Zecchini, Collana Grandi Direttori, Varese, Gennaio 2015, pp. 264, €. 25,00: centrato principalmente sull’aspetto musicale e con ricchissima bibliografia e discografia in calce.

Il testo di Giuseppina Manin riesce molto bene nella non facile impresa di concentrare in meno di duecento pagine oltre cinquant’anni di storia: è scorrevole, coinvolgente, a cominciare dall’istante in cui lo prendi in mano.

La copertina riporta un’emozionante fotografia scattata da Marco Caselli Nirmal, direi nel 2007. Claudio, in pantaloni sportivi e camicia azzurro chiaro, tiene in mano la bacchetta, le braccia hanno quella loro postura caratteristica -a cominciare dal “famoso” braccio sinistro- e un grande sorriso gli illumina il volto, come sempre, mentre guarda verso di te.

Uomo radiosamente bello -mi riferisco ad un bello interiore, in primo luogo; il resto poco conta- in tutte le età del suo cammino terreno.

Da giovane e durante la prima maturità, il viso tondo, i folti capelli neri a caschetto (tanto che fu scambiato, una volta in Gran Bretagna, durante i “favolosi” anni ’60, per uno dei Beatles!), l’aria burlona di chi sa giocare scherzi fantasiosi agli amici per poi divertirsi tutti insieme…di chi, consapevole del proprio valore -anzi, proprio per questo-, ama non prendersi troppo sul serio.

Il trascorrere del tempo lo lambisce appena, senza infierire.

Negli anni successivi, l’intensa passione artistica, la forte, crescente carica umana, la grande tenerezza, unite alla sofferenza -contro la quale, da un certo punto in poi, era stato costretto ad una dura lotta- avevano rimodellato il suo volto, rendendolo più essenziale e intenso. E quell’aspetto, in apparenza fragile, mette ancor più in risalto la sua energia di vita, con l’emozione di regalarti una risata di ragazzo quando meno te lo aspetteresti. Ti basta guardarlo solo un istante per entrare in sintonia con lui. Se può avere un qualche significato operare distinzioni tra le diverse fasi di una vita, che è un tutt’uno, indivisibile, il Claudio dal 2000 in poi  è quello al quale mi sento più vicina.

Talora misterioso, quasi trasfigurato nelle sue interpretazioni che chiamerei mistiche; talora commosso dalla Musica fino alle lacrime, delle quali non si vergognava affatto, grazie a D-o: “…..piangere fa bene, sfoga l’amore che ci portiamo dentro” ebbe a dichiarare una volta ; talora sofferto; talora ironico; talora raggiante. Sempre più coinvolto e coinvolgente. E ancora più emozionante, se possibile, di quanto non lo fosse allorché era giovane e in salute.

Immediato per me, pensando a Claudio, è il richiamo a quanto Goethe fa dire al suo Faust: “Ma io non cerco salvezza nell’indifferenza, la commossa meraviglia è la parte migliore dell’umanità”.

L’ultimo concerto: il 26 agosto 2013, al Festival di Lucerna, nato nel 1938 con Arturo Toscanini, rivitalizzato da Abbado a far tempo dal 2003. La “sua” orchestra di Lucerna!

Insieme alla  Sinfonia  Incompiuta di Franz Schubert (Ottava), l’ “omologa”, la Nona, pure Incompiuta, di Anton Bruckner, uno dei tanti musicisti da lui rivalutati e fatti conoscere ad un pubblico sempre più vasto. Mistero e Silenzio. Non c’è il relativo DVD, ma il CD, col solo Bruckner.  Non vedi con gli occhi, ma ti stupisci nel cuore come la sua corporeità lieve sia in grado di reggere con intensità, di cui solo lui è capace,  l’immane sforzo sul piano musicale, fisico, emotivo. Nonostante sia chiaro a tutti quanto quel giorno appaia sofferente. Ha dato tutto se stesso, e molto molto oltre; l’orchestra e il pubblico  comprendono  e lo avvolgono in un affettuoso abbraccio. Risposta, lo so: accenno di sorriso, che ti strazia l’anima.

Due Incompiute, per l’ultima direzione. Mi chiedo sovente se sia stata o no una scelta consapevole, la sua. Due Incompiute a significare il fatto che la ricerca non ha, non può, avere fine. La Precarietà, l’Incompiutezza sono la cifra del nostro vivere quotidiano e questo deve spingerci ad andare avanti. Il Maestro ha, per tutta la vita, cercato di dare attuazione a tale valore. E, quell’ultima esibizione, intuiva, dentro di sé (al di là di impegni già fissati, poi giocoforza annullati nel corso dei mesi), lui così abituato a lottare, alle sfide difficili, che avrebbe rappresentato l’addio? Non avrò mai la risposta, temo.

Gli spettatori lo ritroveranno, assente nella persona, ma presente nel cuore di tutti come non mai, nel Concerto commemorativo dedicatogli dal Festival, di lì a poco,  inizio estate 2014, con l’appassionato giovane Direttore lettone Andris Nelsons;  Isabelle Faust e Bruno Ganz, persone a Claudio tanto vicine. E tutta l’Orchestra di Lucerna presente e trepidante. Pubblico e musicisti con le lacrime agli occhi. C’è il DVD: ne ho visionati per ora solo alcuni spezzoni, ma vincerò l’emozione per affrontarlo tutto intero. Col tempo. Ora è prematuro.

Nel libro di Manin la storia personale di Claudio Abbado s’intreccia con quella più vasta del nostro Paese; ma non solo, entra in scena tutto il mondo e l’Europa in particolare.

Lascio al lettore il piacere -e l’impegno, mai gravoso peraltro- di percorrere le tappe di tale lungo cammino, costellato di riconoscimenti a tutti i livelli, limitandomi ad alcuni punti salienti.

In primo luogo la giornalista ci riporta agli anni della Seconda Guerra Mondiale, attraverso una perfetta ambientazione nel clima di guerra del giugno 1940. Il regime fascista parla di invincibilità, ma è sufficiente dare un’occhiata con animo sgombro alle pagine interne dei quotidiani, o osservare la realtà con occhi smagati, per accorgersi di come un dramma di paura e morte stia avvolgendo ogni cosa. Indelebile per il protagonista è il ricordo di quando, bambino, udiva poco lontano, in strada, le raffiche di fucile con cui venivano uccisi gli oppositori catturati: ” Un rumore terribile, sinistro, come di una serranda abbassata di colpo con forza. Ancora oggi il rievocarlo mi turba nel profondo”.

Il piccolo Claudio, 7 anni (nato il 26 giugno 1933), entra per la prima volta nel Grande Teatro alla Scala. Insieme col padre, assiste dal loggione (notare questo aspetto: il padre non era l’ultimo arrivato, come dirò tra un attimo, eppure….) al concerto diretto da Antonio Guarnieri, padre di Anna Maria, grande attrice teatrale che ho amato fin dall’adolescenza. L’orchestra esegue i Nocturnes di Debussy e il bambino ne riporta un’emozione indelebile. Anch’io, un giorno, ricreerò quella magia, annoterà poi nel suo diario. La sua è una famiglia di musicisti, di persone con alti valori culturali ed umani.

Il padre, Michelangelo, violinista e vicedirettore del Conservatorio Verdi di Milano. Piemontese, ma di remote ascendenze arabe; suo antenato era un principe vissuto nell’undicesimo secolo a Siviglia, Al Muhtamed Abbad, il cui nome Claudio, con molta emozione, rinvenne, tanti anni fa, scolpito su una colonna bianca nel giardino dell’Alcazar.

“Le cose cominciate vanno concluse e non rinviate” soleva dire il genitore, fondamentale nella sua formazione artistica: “…Dopo i vent’anni ho capito che mi aveva dato una base che mi portava a scavare di più nella musica, a trovare sempre cose nuove”.

Ricordi indelebili dei primi anni: “Sono stato un bambino molto fortunato, perché sono nato in mezzo alla musica. Mio padre faceva un bellissimo lavoro: suonava il violino. Studiava in una camera lontana da quella in cui io giocavo; mi ricordo che una volta, ancora piccolissimo, sono stato attirato dalla magia che usciva da quella stanza; mi sono avvicinato in punta di piedi e ho visto, dalla porta socchiusa, il papà che faceva parlare il suo violino in una lingua a me sconosciuta; doveva essere molto difficile, ma era straordinariamente bella. Sono rimasto ad ascoltarlo per tanto tempo in silenzio, senza farmi vedere, perché avevo paura di interrompere l’incantesimo di quel discorso. Come ho saputo più tardi, mio padre stava suonando un pezzo di musica di Bach, grandissimo compositore vissuto trecento anni fa, la ‘Ciaccona’. Questo nome buffo, mi ha spiegato la mamma, indica un’antica danza spagnola”.

La madre, Maria Carmela -per i congiunti Linuzza-, pianista e autrice di libri per bambini; come suo figlio, del resto, negli anni della maturità [1]. Lei raccontava  e scriveva favole. La Favola è un modo simbolico per interpretare la realtà, come del resto la Musica. Grazie a Maria Carmela la casa diviene anche punto di riferimento di diversi antifascisti ed ebrei, con conseguenti, gravi rischi, ma pure con episodi dai risvolti comici, che sarà un piacere ritrovare. Madre amatissima, che lo incoraggiò sempre; forse all’origine dell’intensa umanità di Claudio c’è quell’esempio: se siamo amati da bambini, concimati con affetto e fiducia, tutto sarà più facile, dopo. Sarei felice se i miei figli parlassero di me con gli stessi accenti usati da Claudio verso la mamma.

Il nonno paterno, Michele, non incontrato dal nipote, ma amato da lui grazie ai ricordi di famiglia, è autore di testi di botanica; mentre quello materno, Francesco Guglielmo Savagnone, era uomo di vastissima cultura, docente universitario, giurista e non solo, personaggio di spicco nella Palermo di inizio Novecento. Con questo mitico nonno, biondo dagli occhi chiari,  il “Nostro” compiva lunghe passeggiate in Val d’Aosta. “Mi ha insegnato il valore del Silenzio e dell’Ascolto”. E durante il soggiorno berlinese la conoscenza, sempre più approfondita, del patrimonio classico custodito nei grandi musei della città -a cominciare dal Bodemuseum-,  collegheranno Claudio in modo ancora più forte a lui, figura amatissima, una persona che studiava e cercava le radici dell’Europa nelle lingue antiche, da lui ben conosciute.

I fratelli maggiori, Luciana e Marcello, si applicano alla musica (un altro fratello, Gabriele, diverrà architetto; come il terzogenito di Claudio, Sebastian) con maggiore costanza di lui, fanciullo ribelle, insofferente alle regole, curioso di ogni cosa (com’è sempre rimasto).

C’è un’immagine, nell’album di casa: fascio di luce perché molto lontana dallo scontato cliché seguito, specie in quegli anni, da tale genere  di fotografie. Qui si respira la pura Felicità di stare insieme. Siamo d’estate, in montagna. Mamma Maria Carmela, da brava chioccia, raduna i suoi quattro pulcini per uno scatto ricordo sul prato. L’uno accanto all’altro, stretti, stretti.  Lei seduta in mezzo, solare, mediterranea e normanna al tempo stesso,  bellissima, è l’espressione della Gioia materna. Il suo sorriso contagia i figli. I grandicelli si rivolgono all’obiettivo seguendone l’esempio, mentre i più piccoli ridono tra loro e si scambiano lo sguardo di chi sta preparando una nuova marachella. Tra Claudio e Gabriele vi sarà sempre una profonda sintonia. Il secondo, divenuto architetto, si occuperà di energie alternative e di tutela dell’ambiente; tematiche  care pure al primo. Spiriti indipendenti tutti e due, fin dai primi anni.

Divenuto adulto  Claudio confessa:  “Da ragazzo sognavo spesso di volare. Voli alti, stupendi. Era il mio sogno ricorrente. L’ho realizzato da adulto grazie alla musica. Con i musicisti delle orchestre che dirigo -e con molti tra loro lavoro da tanti anni- mi succede spesso di volare. Anche per questo ho lavorato tanto di frequente con i giovani, che sanno fidarsi, lanciarsi, volare con me”. Riserverà sempre un occhio di riguardo per i giovani. Ultimo esempio: l’emolumento previsto per la carica di Senatore a vita si era subito trasformato in borse di studio per gli allievi più meritevoli dell’ottima Scuola di Musica di Firenze. D’altronde ha sempre avuto  doti pedagogiche; profonde, perché ti mettono alla prova e ti aiutano a trarre da te il meglio.

Esperienza assai significativa, estate 1978. Nella località turistica di Courchevel in Francia, tra passeggiate in montagna e nuotate in piscina, Abbado prepara un gruppo di 137 giovanissimi orchestrali, di età dai 14 ai 22 anni, provenienti da tutti gli Stati membri della Comunità Europea, in una serie di concerti estivi. I ragazzi si confrontano con brani come la Sesta di Mahler o La Sagra della Primavera di Stravinski. Materia assai difficile, nella quale è indispensabile “ascoltare e ascoltarsi”, impegnandosi al massimo. Illustri solisti presiedono alla preparazione delle singole sezioni, con questi musicisti magari acerbi, ma non “guastati da cattive abitudini o interpretazioni sbagliate” (parole del Direttore). Una scuola di vita, oltre che di musica, indimenticabile. Egli fa pure da consulente medico, tour operator, psicologo, sovrintendente alle cucine. Lo vedi correre avanti e indietro, Super Claudio, con infaticabile entusiasmo. Di buon mattino, te lo figuri zaino in spalla e via, gli allievi trepidanti al seguito, su per i monti a contemplare le meraviglie della Natura. Studio rigoroso e risate. Accese partite a ping pong. Anche questo fa parte del “pacchetto”. E pretende che tutti siano trattati allo stesso modo. Ragazzo (ha compiuto 45 anni, ma dove sono?) tra i ragazzi: prezioso un filmato in lingua spagnola che racconta  spezzoni di quelle giornate. Non riceve per tutto ciò alcun compenso in danaro. Gli basta il vivere insieme: indimenticabile per tutti; sarebbe interessante incontrare, oggi, quegli allievi e conoscere, dalla  viva voce di ciascuno, che cosa ha lasciato dentro di loro, nel corso del tempo, l’incontro con lo stupefacente cherubino dai lunghi capelli neri, venuto “dai cieli dell’Armonia” (come scrive su di lui un amico molto perspicace) per insegnarci ad amare la Bellezza.

Un episodio emblematico. Autentico; non una leggenda  inventata nel corso del tempo. A confermare il desiderio, nato dentro di lui quel giorno nell’ascoltare Debussy,  contribuirono anche le parole che Leonard  Bernstein pronunciò, poco tempo dopo, in  casa della famiglia Abbado. Il padre aveva  invitato a cena il grande “Lenny”, il quale, non appena vide, per la prima volta,  il fanciullo bruno dallo sguardo ardente, sentenziò: “Questo bambino ha gli  occhi da direttore d’orchestra”.

Nel 1955 si diploma in composizione, pianoforte e direzione d’orchestra presso il Conservatorio di Milano. Nasce proprio allora il suo rapporto con la città di Vienna, dove si reca -tra il 1956 e il 1958-, quale studente vincitore di due borse di studio, per seguire i corsi di perfezionamento di Hans Swarowski insieme ad un altro giovanissimo destinato alla gloria del podio, l’indiano Zubin Mehta (conosciuto all’Accademia Chigiana di Pisa, fucina di ingegni), cui, più tardi, si affiancherà l’argentino/israeliano Daniel Barenboim.

I tre resteranno amici tutta la vita. Nella capitale austriaca assiste alle prove di tanti “mostri sacri”: Bruno Walter (allievo di Gustav Mahler, autore che Claudio farà conoscere al pubblico italiano, milanese e non), Hermann Scherchen ed Herbert von Karajan.

E c’è un particolare, fatto conoscere da fonti attendibili, assai rivelatore. Con Mehta organizzarono a Vienna, proprio nel 1956, alcuni concerti dedicati ai cittadini ungheresi rifugiatisi in Austria a seguito dell’invasione sovietica.

A 25 anni, a Tanglewood (U.S.A.) vince il concorso Koussevitzky della Boston Symphony Orchestra che gli permette il debutto americano. L’anno dopo (1959) esordisce a Trieste come  direttore sinfonico.

L’uscita nel grande circuito internazionale è del 1960, alla Scala di Milano.

E nel 1963, con la vittoria al premio Mitropoulos, si reca a New York dove diviene assistente di Leonard Bernstein e, per cinque mesi, dirige la New York Philharmonic. Intanto il suo nome comincia a circolare negli ambienti più prestigiosi, tanto che, due anni dopo, Herbert von Karajan lo invita al Festival di Salisburgo dove esordisce alla guida dei Wiener Philharmoniker. Nel 1966 è sul podio della London Symphony e, il 20 dicembre, il primo concerto coi Berliner Philarmoniker. L’anno successivo, 1967, con la prestigiosa formazione tedesca, ecco il primo disco per la Deutsche Grammophon (collaborazione durata fino alla fine; centinaia di brani).

Il 1968 lo vede dapprima al Covent Garden di Londra, indi alla Scala, dove diviene Direttore musicale per ben diciotto anni, dal 1968 al 1986. Grazie a lui la Scala si trasforma in uno dei teatri più importanti ed innovatori del mondo.

Accanto ai classici più rappresentati, ne vengono valorizzati altri suonati di rado (come Mahler, Berg, Schönberg -suocero del grande amico Luigi Nono, coincidenza- o Stravinskij) e compositori nuovi come Luciano Berio e Luigi Nono.

Per non parlare dei registi che collaborano entusiasti: Giorgio De Lullo, Giorgio Strehler, Franco Zeffirelli, Yuri Liubimov, Luca Ronconi, ecc.

Il piacere di confrontarsi con altri colleghi: c’è lo spazio per Leonard Bernstein, Lorin Maazel, Riccardo Muti, Seiji Ozawa, oltre, va da sé, Daniel Barenboim e Zubin Mehta. E il grande Carlos Kleiber, suo carissimo amico: egli si adoperò molto perché Carlos fosse conosciuto ed apprezzato in Italia come meritava.

Concerti in fabbrica per lavoratori e studenti (nel novembre 1974 è alla Necchi di Pavia, insieme ad un  violinista giovanissimo, ma già vincitore di premi prestigiosi e anch’egli destinato alla gloria: Giuliano Carmignola) e l’invito al pubblico di assistere gratuitamente alle prove. Tempi esaltanti. C’era l’esigenza di far conoscere la Scala a persone diverse, ad aprire il più possibile tale ambiente, fino ad allora appannaggio di una ristretta élite. Posizione che egli condivide con altri due musicisti, legati a lui da forti affinità: Maurizio Pollini e Luigi Nono.

A proposito di quest’ultimo Claudio afferma: “…tra noi c’è sempre stata una grande consonanza etica ed artistica..Per noi tutti la cultura era un momento di scoperta collettiva. Per comodità alcuni mi avevano bollato come ‘comunista’, ma non sono mai stato in nessun partito….ho sempre semplicemente lottato per le cause e le idee in cui ho creduto”. E ancora, a proposito dell’esperienza milanese, agli inizi: “Fischi e contestazioni ce ne sono stati. Ma gli applausi via via crescevano…il pubblico cambiava, più giovane, più ‘normale’. La nascita della Filarmonica [nel 1982], l’esperienza di portare la musica nelle fabbriche, all’Ansaldo, ha aperto a nuovi ascolti, ha smosso desideri di conoscere”.

All’intenso impegno musicale si è sempre accompagnato un forte ruolo civile -condiviso, come detto, talora pure con Pollini e Nono-, all’estero e in Italia. Quanto all’Italia, notevole, anche sul piano della durata, è il sodalizio, ad esempio, con la città di Reggio Emilia. Nell’ambito di un rapporto iniziato nel gennaio 1962 e protrattosi fino alla stagione 2011/2012, ci fu la partecipazione, proprio con i due amici di cui sopra, alle iniziative di Musica / Realtà, l’associazione culturale -fondata da Armando Gentilucci, critico, musicologo e musicista (1939/1989)-  che ha prodotto rassegne di musica contemporanea, nonché una storica ed importante rivista periodica. Ricorda lo stesso Abbado a proposito di tali esperienze, vissute negli anni ’70: “Eravamo pieni di entusiasmo…. Cominciavamo a mettere alla prova quei mezzi che oggi vengono utilizzati dappertutto. Scrivemmo programmi tematici,  progettammo piani di lavoro, riuscimmo a convincere a collaborare con noi politici come il sindaco di Reggio Emilia, chiedemmo ai lavoratori della città di parlarci di quello che per loro era la musica. E’ in questo modo che sono nati i workshop di Musica /   Realtà, i concerti-dialogo e le conferenze...”

In riferimento all’estero e per tornare ad anni più vicini: solo dopo tre settimane dall’11 settembre 2001, pressoché a rovine ancora fumanti, furono i Berliner Philarmoniker, guidati da Abbado, la prima orchestra europea a varcare l’Oceano per suonare a New York in un concerto dedicato ai 350 pompieri rimasti uccisi negli attentati e alle loro famiglie. Un’iniziativa di solidarietà e di amicizia, avvolta nel segreto fino all’ultimo per ragioni di sicurezza; alla quale seguì una tournée di grande successo negli U.S.A., dove la gente, dopo il buio del Terrorismo, era alla ricerca di Pace e Cultura. Da parte dell’Orchestra e dei solisti che parteciparono agli eventi newyorkesi -il basso-baritono Thomas Quasthoff e Maurizio Pollini, insieme al Sovrintendente Franz Xaver Ohnesorg- fu composta una dedica diffusa nel programma di sala. Così si legge: ” Siamo venuti in America con grande angoscia e tristezza. Noi abbiamo lasciato le nostre case e le nostre famiglie per stare con i nostri amici qui in America. Noi siamo venuti per affermare la nostra fraterna solidarietà che sarà espressa nei brani che presenteremo nei nostri concerti. John Fitzgerald Kennedy in un momento particolarmente critico per la storia di Berlino disse: ‘Sono un berlinese’.  In questo momento terribile noi affermiamo che ‘Siamo di New York’ ” . Partecipò un vastissimo pubblico attento e commosso, entusiasta mentre l’orchestra eseguiva i brani previsti dal programma: l’Overture dell’Egmont, la Sinfonia n. 3 di Beethoven,  e cinque Lieder di Gustav Mahler -quattro  da Des Knaben Wunderhorn e Ich bin der Welt abhanden gekommen da Ruckert Lieder-. Programma scelto con cura dal Direttore, fondato su due figure di musicisti caratterizzati da grande forza morale  ed estrema pregnanza di contenuti. Dedicato alle vittime della tragedia, ma pure alla memoria di  Isaac Stern, il grande violinista mancato il 22 settembre 2001, dedicatario della  sala grande della Carnegie Hall.

Oppure, scelgo a caso un esempio tra i tanti, in riferimento al nostro Paese, la  stima verso lo scrittore Roberto Saviano, cui egli dedicò, nel 2009, un concerto a Napoli.

Tappa di rilievo è la rappresentazione, nel 1984 a Pesaro e l’anno successivo a Milano, di un’opera dimenticata di Gioacchino Rossini, Viaggio a Reims, con interpreti lirici di vaglia; una regia musicale (Abbado) ed artistica (Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti), davvero innovative. Poiché, nella città marchigiana, l’opera viene ripresa in diretta TV, si decide, scrive Manin, ” di trasformare quella ‘interferenza’ nel meccanismo cardine della messa in scena. Le telecamere, le riprese video, i maxischermi diventano così parte integrante di una vicenda nata per celebrare i fasti di un re (Carlo X di Francia)”. Un evento memorabile.

Giova ricordare che le esecuzioni abbadiane di Rossini restano un momento base nella storia della musica, come il Barbiere di Siviglia con Teresa Berganza e Luigi Alva, con la regia di Jean-Pierre Ponnelle, andato in scena alla Scala nel 1969 e ripreso nel ’72 a Salisburgo, inciso per la Deutsche Grammophone: uno dei punti fermi dell’interpretazione di quell’opera.

Dal 1979 al 1988 Claudio Abbado è Direttore musicale della London Symphony Orchestra dove dirige il ciclo completo di tutte le sinfonie di Mahler, Beethoven e Brahms. E molto, molto altro! Poiché era coinvolto con diverse orchestre, dalla Scala, alla London Symphony, senza dimenticare né i Wiener, né la Chicago Symphony Orchestra, né la neocostituita ECYO- riusciva ad accostare a ciascuna di esse gli Autori più adatti.  Pure durante l’esperienza britannica vitale era riuscire a portare la Musica ad un pubblico sempre più vasto; per cui si tenevano concerti anche ad orari insoliti, come mezzogiorno o le 18:30!

Da ricordare, in questo periodo, anche l’esecuzione di gran parte dei concerti per pianoforte di Mozart con il mitico Rudolf Serkin (allievo di Schoenberg),  ormai ottantenne. Il ciclo mozartiano con Serkin -numerose furono le registrazioni-  occupa un posto di rilievo nella vita e nell’attività di Claudio Abbado. Il Maestro infatti si sentiva molto legato al grande pianista e non mancò di sottolineare l’influsso artistico determinante che questi esercitò nei suoi confronti.

Si conclude -come detto nel 1986- la vicenda milanese, delle cui motivazioni la giornalista ci dà conto, pur non dilungandosi in particolari; un addio doloroso. Al di là delle cause prossime, ad allontanarlo è il mutato clima politico, anzitutto in città, col conseguente venir meno di quell’atmosfera da “roveto ardente”, vitale per lui. La cosiddetta “Milano da bere” non gli si addice; come del resto i compromessi, le mezze misure. Meglio troncare.

Un’altra importante esperienza: dal 1986 al 1991 è direttore musicale della Staatsoper di Vienna e Generalmusikdirektor della capitale austriaca (1987). Rammento bene i suoi Concerti di Capodanno 1988 e 1991!

Nello stesso anno (1988) dà vita al Festival Wien Modern, nato -in quella Vienna “ricca di cultura, ma conformista, chiusa ai discorsi nuovi”- come rassegna annuale di musica contemporanea, iniziativa che sviluppa, secondo logica interdisciplinare, coinvolgendo cinema, teatro, poesia.

Forte è sempre stata la sua passione per la cosiddetta settima arte: Fellini, Olmi, De Sica, Visconti, Losey… E Bergman. Non s’incontrarono mai di persona, ma nell’ultimo film del grande regista svedese, Sarabanda, c’è una chiara allusione ad Abbado e al suo metodo di lavoro. Per non parlare dei mitici russi, come Eisenstein o il più vicino Andreij Tarkovskij, morto prematuramente nel 1986. Con quest’ultimo rappresentarono, a Londra nel 1983, uno stupendo Boris Godunov, l’opera di Musorgskij, studiata da Claudio per lungo tempo. I due legarono subito: scherzosamente si chiamavano tra loro Principe Andreij e Principe Abbad!

Dopo Vienna (ben 180 concerti, a tutto il 1991), i Berliner Philarmoniker, con i quali starà fino al 2002, in un rapporto continuato, secondo varie modalità, anche dopo, fino all’ultimo incontro, maggio 2013 (Mendelssohn e Berlioz). Nel 1989 è il primo direttore non austro tedesco eletto dagli orchestrali; verdetto peraltro non inatteso. E’ l’8 ottobre, il giorno in cui, a Lipsia, una folla di settantamila persone scende in piazza contro il regime comunista, un mese prima della storica caduta del Muro. Inizia un nuovo corso, grazie a quel direttore che instaura subito con gli orchestrali uno stretto dialogo artistico e umano, fino allora inedito alla Philharmonie. La caduta di un altro…muro, che pareva consolidato. Informale nei rapporti personali, ma assai esigente in quelli artistici, ai grandi nomi del repertorio classico tedesco, unisce i compositori più valenti tra i contemporanei. Una costante nella sua concezione musicale e culturale, che trova terreno adatto in una città riunita, in una capitale ritrovata, ricca di molteplici stimoli culturali.

Nasce quindi una formula indovinata: ogni stagione avrà una sua tematica, un autore, un argomento su cui costruire il programma in grado di attivare energie diverse, coinvolgendo, anche qui, varie espressioni artistiche, dalla scultura, al cinema, al teatro, alla letteratura (memorabili le letture di Hölderlin ad opera dell’attore, e amico, Bruno Ganz). Giuseppina Manin ne scrive con entusiasmo. Sono proposte di cultura “totale”, senza steccati, in una visione interdisciplinare -in controtendenza rispetto all’appiattente, arida specializzazione- che affronta temi universali, i miti antichi e moderni, le loro radici culturali, approfondendo il confronto tra differenti generi artistici. Del resto, come sappiamo, fin da ragazzino, grazie a sua madre, egli aveva imparato a mescolare Musica e Letteratura.

E ora lo fa in un contesto, quello berlinese, di grande respiro: la città è l’unica, in Europa, ricorda Abbado, ad avere tre teatri d’opera, nove orchestre sinfoniche, oltre ai numerosi musei. Ed è, aggiunge, ricca di verde e di acqua (canali, fiumi, laghi). Magnifica. Opinione condivisa in pieno dalla modesta sottoscritta.

Non si dimentica mai delle nuove leve. Nel 1992  dà vita alle Berliner Begegnungen (Incontri Berlinesi), insieme con l’illustre violoncellista russa Natalia Gutman, offrendo l’opportunità ai giovani più dotati di suonare, nell’ambito di un festival, con grandi artisti, come la stessa Gutman e altri.

In un’intervista egli rammenta come la musica sinfonica e la musica da camera siano “di cultura tedesca, il meglio dei professori viene da Vienna, da Berlino…” e ancora “Vienna e Berlino sono state le città culturalmente più ricche per me”.

Ecco la spiegazione! Quando, qualche tempo fa, l’ho udita di nuovo, sono stata ammaliata dalla voce di Claudio: ricca di armonie -salutare, verrebbe da dire, perché ti fa sentire meglio e… migliore-, ma, soprattutto, mi ha colpito l’accento della maturità, leggermente diverso da quello degli anni scaligeri. Una parlata italiana con venature tedesche, pure nel dipanarsi del discorso, nelle categorie logiche: un tedesco colto, sorta di alto tedesco per nullo aspro, impreziosito da quelle erre leggermente arrotondate, ma niente affatto manierato; anzi assai efficace nello spiegarti come, allorché suonando Beethoven ripeti un certo “ritornello”, per farlo comprendere al pubblico, “devi dargli ogni volta una nuova movenza, una nuova luce, una nuova impressione, una nuova impronta. E questa….la si trova…facendo musica insieme agli altri musicisti. Oppure studiando di più”. Risatona disarmante da Gian Burrasca. Un lato del suo carattere, quello scherzoso, lì per lì ti sfugge, protetto dal robusto manto della riservatezza, dell’aspetto di uomo e artista dedito allo studio, severo -anzitutto con se stesso-; ma è presente, eccome! Insieme a certe predilezioni molto umane, come quella per il cioccolato. Ho sempre ritenuto che chi non ama il cioccolato qualche problema, a livello mentale o psicologico, deve per forza averlo.

Zusammenmusizieren, “Fare musica insieme”. Porta questo titolo, Claudio Abbado / Fare musica insieme, la mostra fotografica inaugurata a Firenze il 29 marzo 2015 (aperta fino al 28 giugno, visitabile in occasione degli spettacoli), a cura di Alfredo Albertone, organizzata da Opera di Firenze / Maggio Musicale Fiorentino, in collaborazione con la Fondazione Claudio Abbado. Emozionante racconto per immagini del lungo percorso artistico ed umano del Maestro [2] . Circa metà di esse hanno come autore Marco Caselli Nirmal, ferrarese, che ha conosciuto Abbado diversi anni fa ed ha a lungo collaborato con lui, poiché ne è stato, dal 1990, fotografo ufficiale. Prima di visitare la mostra, ho sfogliato il bellissimo catalogo e, senza nulla togliere alle altre fotografie, affermo tranquillamente che quelle scattate da Marco sono autentiche opere d’arte. Egli è riuscito, entrando silenzioso nel mondo di Claudio, a coglierne l’anima, l’essenza più intima, la grande sensibilità. Da certi particolari si deduce un universo. Scelgo qua e là: il protagonista ritratto di tre quarti, l’espressione raggiante, il maglione color arancio appoggiato con nonchalance sulle spalle; il confabulare lieto tra padre e figlio, Claudio e Daniele, in occasione dell’allestimento de Il Flauto Magico, nel 2005 a Reggio Emilia; o anche l’Oggi e il Domani (siamo alcuni anni prima): Claudio Abbado e un giovanissimo Daniel Harding.

….Oppure: 25 ottobre 2008, Pala Dozza di Bologna, un evento di notevole impatto.

Su un vasto palcoscenico, allestito per 5000 spettatori, il “mago Claudio” riunisce, sotto la propria direzione: l’Orchestra Mozart, l’Orchestra Cherubini, “prestata” per l’occasione da Riccardo Muti, l’Orchestra Giovanile Italiana fondata da Piero Farulli, due cori di adulti -quello del Teatro Comunale di Bologna e il Coro Sinfonico “Giuseppe Verdi” di Milano-, nonché una compagine di voci bianche costituita da seicento bambini.

Viene eseguito il Te Deum di Hector Berlioz (“fu lo stesso Berlioz a richiedere quest’organico sterminato” precisa Abbado) e, nella prima parte della serata, c’è pure Roberto Benigni, con una scintillante nuova edizione -dopo quella leggendaria a Ferrara, nel 1990 con la Chamber Orchestra of Europe, di cui appresso- di Pierino e il Lupo di Prokof’ev.

Strepitoso successo, applausi a non finire, i ragazzini che gridano a squarciagola “Abbado! Abbado!” Simile esperienza i piccoli non la dimenticheranno mai. E ottimo “pretesto” per attirare l’attenzione dei pubblici poteri sull’importanza dell’educazione e formazione musicale nelle scuole.

Marco Caselli ci racconta una seduta di prove. Quadro perfetto. In primo piano, volto verso chi osserva, il gruppo seduto degli archi. A sinistra, Giuliano Carmignola, violino; a destra, Wolfram Christ, viola. Subito dietro, Claudio, in piedi, di spalle. La suggestione sta nell’accostamento / contrasto tra il  maglioncino rosso di lui (simbolico, come quella certa cravatta/talismano blu, a pallini chiari, che gli ho visto tante volte negli ultimi anni!) -appoggiato, in apparente casualità, alla seggiola sul podio- e la  figura carismatica: bacchetta nella destra e braccio sinistro levato in alto, si indirizza al “muro” umano dei coristi.

Viene sempre colto -da chi scatta le immagini- il tocco musicale preciso. Non a caso il volume si conclude con alcuni, significativi primi piani delle mani del Direttore in movimento.

L’ultima istantanea è un gruppetto di spettatori adolescenti, silenziosi e concentrati nell’ascolto. Il futuro, che potrà essere più luminoso ed autentico, se formato alla Musica.

Ascoltarsi l’un l’altro” era la sua filosofia di vita e di lavoro, tale rimasta fino all’ultimo. Un insegnamento tratto, in giovanissima età, da una figura importante nella sua formazione, Carlo Maria Giulini.

“In un’orchestra di 100, 120 persone non è possibile che tutti abbiano le stesse idee. Bisogna cercare insieme quello che è meglio per la musica. Il compositore è sempre il capo”.

Questa è la linea guida seguita con le orchestre cui ha dato -o ridato- vita; arricchite da affascinanti, “innesti”; come si conviene ad un “giardiniere della musica”. Qualche esempio: la European Community Youth Orchestra (nata nel 1976-78), la ECYO o EUYO, sorta di alleanza tra popoli che le vicende della storia hanno a lungo disperso. Nel 1982, se non erro, l’iniziativa musicale Bolzano Estate ospita il loro primo concerto, diretto da Abbado stesso, che include nel programma la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler.

Dalla costola di questa compagine nasce, grazie a fondi del Parlamento europeo e all’aiuto di volonterosi sponsor,  la Chamber Orchestra of Europe (1981), di cui il Maestro è stato consulente artistico fino alla morte. La Comunità europea ha però, all’epoca, limiti politici: ad esempio, allora, non ne fa parte l’Austria, per non parlar dei Paesi oltrecortina, mentre Abbado cerca un confronto a tutto campo. La creazione a Vienna della Gustav Mahler Jugendorchester – GMJO- (1986) incontra all’inizio non poche difficoltà a causa di ostacoli d’ordine politico e, per così dire, culturale. Ma il “Nostro” non è tipo da scoraggiarsi: “…….il motto avrebbe potuto essere: Mahler a Vienna per andare dal Portogallo alla Russia, Israele compreso”.  Essa fu sin da subito  di casa a Bolzano perché egli  tornò a Bolzano con le sue orchestre quasi ogni anno, portando non solo la qualità musicale più alta in questo campo ma anche pubblico da ogni parte d’Italia. Bolzano, diventando stabilmente la città di residenza delle orchestre, si riempì ogni estate di giovani e di musica, potendo vantare negli ultimi decenni la presenza di molti dei più grandi direttori e solisti al mondo.

Nel 1997  da GMJO ha origine -poiché alcuni componenti avevano superato l’età per suonare in  una compagine giovanile, ma intendevano continuare a far musica insieme- la celebrata Mahler Chamber Orchestra (in breve M.C.O.), di stanza a Ferrara (ma ha pure altre sedi residenziali poiché non ne vanta una fissa; ci sono quindi pure: Dortmund, Essen, Colonia, Nord Rhein Westfalen, Lucerna), nucleo fisso dell’Orchestra del Festival di Lucerna (LFO). Nientemeno. Senza contare, prima ancora, la Filarmonica della Scala (1982). E, dieci anni dopo (1992), il sostegno dato alla nascita dell’Orchestra Città di Ferrara, piccolo gioiello estense.

Cade quindi una delle  leggende (negative) su Abbado, perpetuata dai soliti scribacchini malevoli; quella cioè che, dopo i diciotto anni di direzione alla Scala, se ne sarebbe andato dall’Italia, se non per tornarvi saltuariamente al timone di blasonate orchestre straniere, in un contesto di estraneità, limitato cioè al singolo evento. E ripartire il giorno dopo. Niente di più falso. A parte il breve periodo immediatamente successivo alla conclusione del rapporto col Teatro milanese, a fa tempo dal 1988, egli ha sempre operato anche in Patria. E’ sufficiente pensare (ma vi  sono diversi altri esempi, Reggio Emilia, per dirne uno, ma non solo. Pensiamo a Palermo, Torino…) alla venticinquennale collaborazione con la città di Ferrara -di alta tradizione storico artistica,  ma un po’ lontana dai grandi circuiti-, divenuta, grazie a lui, polo d’attrazione per incontri internazionali, punto di partenza e di arrivo delle migliori offerte musicali proposte da Italia ed Europa, in una visione di Cultura senza steccati, né confini. Tappa imprescindibile fu la costituzione dell’Associazione Ferrara Musica -autentico laboratorio di studio e ricerca continui- nell’anno emblematico, per il mondo e il nostro protagonista: 1989.

Aprile 1989: nasce  il lungo sodalizio di Ferrara col Maestro, destinato a durare -per limitarsi alla sua persona; sappiamo infatti quale gratitudine  la città gli serba- fino all’aprile 2013: concerto con l’amica pianista Martha Argerich, all’insegna di Beethoven.

Il concerto di inizio è memorabile: Abbado, alla guida della Chamber Orchestra of Europe, accompagna un’altra cara partner nella vita artistica: la pianista portoghese Maria João Pires.

L’evento  coincide con la riapertura del Teatro Comunale alla fine di rilevanti lavori di ristrutturazione durati molto tempo.  Spontaneo il ricordo di un’altra riapertura dello stesso Teatro: a fine settembre 2012, dopo gli eventi tellurici di quell’anno, che lo avevano lesionato. Concerto con la Lucerne Festival Orchestra e star del pianoforte Maurizio Pollini.

Progetti culturali impegnativi, come i corsi di perfezionamento per musicisti realizzati con il Conservatorio Frescobaldi. E, soprattutto, Interdisciplinarietà, filo rosso che lega la lunghissima attività di Claudio Abbado. Con inizio nel primo periodo   milanese, sviluppatasi negli anni successivi -anche in città diverse da quella natale-, continuata a Vienna, radicata in Ferrara, grazie pure alla lungimiranza delle locali autorità pubbliche e private, Università compresa; approfondita a Berlino, solo abbozzata a Bologna -dove però presero vita i programmi sociali, di cui nel prosieguo, a far tempo dal 2006-.

Lavoro intenso ed appassionante, nato da questo “impollinatore” di orchestre composte da giovani di varia provenienza, com’è stato perspicuamente definito.

Con notevoli sovrapposizioni tra le compagini con le quali si opera, e distribuzione delle parti che cambiano col variare del repertorio. E mai dimenticare, altro aspetto centrale sempre presente nel tempo, che l’esercizio della musica da camera è parte essenziale del lavoro di ogni musicista degno di questo nome.

“Non esiste, da una parte, un’orchestra giovanile e, dall’altra, una di élite. Siamo molto di più, una grande famiglia, nella quale ci si aiuta a vicenda”. Anzi egli ha sempre sostenuto di aver fondato in realtà una sola orchestra, la European Community Youth Orchestra, la ECYO,  e che le altre sono nate per gemmazione spontanea, nel tempo, dalla pianta originaria.

Chi legge seguirà queste stimolanti avventure. Qualcuno ha fatto presente che, nel gesto di fondare un’orchestra, e quindi di assumersi la responsabilità del suo svezzamento artistico, c’era il segno più forte del suo carisma e della decisa volontà di far musica soltanto nei luoghi e con le persone con (o da) cui pensava di imparare qualcosa.

Coloro i quali hanno avuto la gioia di lavorare con lui, ricordano che non alzava mai la voce ed era poco loquace (splendido!) perché preferiva guidare i musicisti con i gesti, con lo sguardo piuttosto che con le parole. Lo percepisci rivivendo, con lo spirito giusto, le sue interpretazioni.

Sguardo e Mani. Lo sguardo sempre attento, puntuale, centrato sull’obiettivo. Verrebbe da dire quello di un rapace, di un’aquila -il più nobile esemplare di quella specie-  se non fosse che sovente si allarga nel sorriso. Tenero sorriso di bambino, in armonia con quel  naso importante  nel mezzo, carnale, a valorizzare la bellezza dei lineamenti.  Che cosa mai potrebbe pretendere di più dalla vita un bravo disegnatore?

Mani affusolate…Sono quelle di un medico che ti aiuta a guarire dalle tue pene attraverso la Musica; o di uno scultore in grado di dar concretezza ai sogni.

Nella visione di Abbado l’orchestra è un gruppo di solisti che suonano insieme, ascoltandosi l’un l’altro. Comunione creativa che dai musicisti si trasmette al pubblico.

Non a caso questa è la motivazione con cui gli fu assegnato nel 2008 il Premio (tra i tantissimi ricevuti) Wolf per le Arti, istituito da un’importante Fondazione israeliana “….Una persona straordinaria, il cui modo di fare musica è intriso di passione, intelligenza e amore”. Unico italiano, tra l’altro, ad avere vinto il “Premio Internazionale della Cultura” di Tokio, sorta di Nobel della Musica.

Ti vengono in mente subito i quattro elementi fondamentali. Facili associarli a lui.

Acqua: scorre, lava, dà vita; occorre saperla trattare, però. Il tema dell’Acqua è tra quelli a lui più cari, come vedremo nei prossimi mesi, grazie ad un testo di prossima pubblicazione.

Aria: richiama la lievità, come il suo tocco nel dirigere.

Terra: concretezza. Ecco un uomo il quale ha saputo respirare a pieni polmoni, far proprio  tutto quanto di bello la vita può dare; non si è privato di nulla.  Questo aspetto  lo rende davvero vicino, lontano da piedistalli vari. Te lo fa amare ancora di più. Insisto sempre su questo. Mai divinizzare la persone che si amano, renderle un astratto ideale. L’idolatria è un…peccataccio.

Fuoco: non serve spendere parole. Il fuoco della passione, musicale e non, è un suo tratto caratteristico.

Lungimiranza dei veri Grandi. Se, ad esempio, un giovane -direttore o concertista, poco importa- valeva sul serio, era capace di far sì che i presenti imparassero a conoscerlo come meritava, mettendo, con una certa abilità, se stesso in seconda linea allo scopo di far emergere la “recluta”. Tra le pagine del libro ci sono significativi esempi. Tutto il contrario di troppi capiscuola (anche afferenti ad ambiti diversi dalla musica), i quali, affetti da morbosa gelosia verso gli allievi in gamba, prediligono i mediocri, al fine di primeggiare, loro, in eterno.

Ti emoziona il suo modo di ringraziare, al termine di un concerto. Dalla porta laterale rientra in sala, si gira verso l’orchestra: tutti i componenti si alzano in piedi. Egli allora, con ampi gesti delle braccia, li segnala al pubblico quasi uno ad uno, come a significare che quella Magia, che è stata appena suonata, vissuta, ascoltata è opera di tutti loro, insieme, non merito esclusivo o principale di chi dirige. Poi si volge verso la platea e la omaggia appoggiando la mano destra aperta sul petto. Si è donato totalmente.

Sarebbe stato bello se Claudio avesse conosciuto una mia cara amica, ebrea romana che, da circa un trentennio, vive in Israele, in un kibbutz della Galilea. Angelica Edna Calò Livne ha dato vita, diversi anni fa, a Beresheet Lashalom, un folto gruppo di giovani, costituito da ebrei, cristiani, musulmani, drusi, circassi, coi quali, attraverso Musica e Teatro, promuove nuovi percorsi di pace, coraggiosi nella loro autenticità. Questi due…..giardinieri si sarebbero intesi alla perfezione. Stesso alto sentire, identica capacità di ascolto. Inevitabili i richiami, le assonanze con la cultura ebraica, la quale ti insegna che Musica, Luce e Bellezza sono in grado davvero di salvare il mondo. Per questo esse sono combattute dagli oscurantisti e dagli odiatori di ogni risma; quelli senza passato, senza presente, senza avvenire.

Poi c’è il “capitolo Cuba”. Nell’estate 1999, un anno dopo lo storico viaggio di Papa Giovanni Paolo II nell’isola, Claudio Abbado vi si reca, insieme alla Gustav Mahler Jugendorchester, per suonare in occasione del settantatreesimo compleanno di Fidel Castro. Ha promosso questo viaggio in nome della Musica. Riceve un’accoglienza trionfale.

Ricorda a Castro (poco interessato alla suggestione delle note, ma stupito per il modo in cui un unico uomo riesce a tenere tanto bene la disciplina di un così vasto gruppo di orchestrali) come, molti anni prima, la Filarmonica dell’Avana fosse di eccellente livello perché, tra l’altro, guidata da Erich Kleiber, esule dalla Germania nazista, padre di Carlos, a sua volta divenuto, come sappiamo, illustre e sensibilissimo direttore. Un invito per il lider maximo a far rinascere quella Musica.

Si recherà di nuovo laggiù altre due volte, negli anni successivi, per far musica insieme ai giovani talenti locali.

Claudio ammirava Fidel? Si chiede Manin. Difficile dirsi, risponde; certo ammirava la vitalità del popolo cubano, la sua capacità di essere all’avanguardia, nonostante l’esiguità dei mezzi a disposizione, in campi come farmacologia e medicina (ad esempio, la cura delle ustioni), la scolarizzazione diffusa, la tradizione di non sfruttare la terra a scopi speculativi, ma per creare -insegnandolo ai ragazzi fin dall’età scolastica- orti che diventeranno bene comune.

Successivamente espresse questi concetti sul Corriere della Sera in un intervento (difensivo della cosiddetta rivoluzione cubana) che gli attirò un fiume di critiche. A chi lo aveva in uggia, non parve vero dar libero sfogo ai risentimenti. Io stessa però, lo confesso, ci rimasi malissimo; non certo per le sue esternazioni sul popolo di quel Paese, la sua cultura, gli sforzi profusi ad operare pur nella scarsità di risorse, ma per il silenzio serbato in merito alla ferocia del regime -anzi per la negazione dell’evidenza di ciò-, ai rapporti organici tenuti da Castro con specchiate democrazie quali l’Iran e la Corea del Nord, alla persecuzione dei dissidenti, all’incarcerazione di persone non gradite, omosessuali inclusi. Certi silenzi e negazioni, pensai subito, non sono da lui, il quale, tanto per fare un unico esempio, in merito all’invasione sovietica della Cecoslovacchia del 1968 aveva espresso forte dissenso (forse i successivi detrattori se ne sono dimenticati), creando scompiglio “a sinistra”, per ovvie ragioni, e “a destra”, poiché era considerato “di sinistra”. Miserie, dure a morire, le etichette e speculazioni politiche.

Non ho voluto ignorare in questo ritratto, all’insegna della sincerità, tale “capitolo” perché simili… incoerenze te lo rendono ancora più vicino, pur nel dissenso. Egli era dotato di un’incredibile purezza d’animo, di una fanciullesca ingenuità (unita ad una mancanza di seria conoscenza dei fatti, nel caso di cui appresso) che lo fecero abboccare -ma non è certo stato l’unico!- all’amo del “terribile” Edward Said. Sì, l’intellettuale palestinese, morto di leucemia circa dieci anni fa, parce sepulto, rampollo di una ricchissima  ed altezzosa famiglia, niente affatto espropriata dagli israeliani (com’egli andava sostenendo), ma che spontaneamente  lasciò Gerusalemme per spostarsi dapprima in Egitto, indi negli USA dove il furbo Edward fu accolto con tutti gli onori dalla Columbia University di New York -uno dei tanti atenei USA dove domina il più becero palestinismo, fine a se stesso-, autore del celebre discorso che Yasser Arafat pronunciò all’ONU nel 1974, zeppo di retorica vittimistico / bellicista, fiero oppositore   degli accordi di Oslo, nonché abilissimo manipolatore, specie  di anime elette. Claudio Abbado lo incontrò in Italia e cadde subito nelle sua spire. Niente di più facile. Said, uomo colto ed intelligente, che sapeva “vendersi” al pubblico come pochi, prediligeva la musica -suonava il pianoforte come un professionista, oltre a scrivere benissimo-, ma di sicuro non amava, come afferma Claudio “….tutta l’umanità”. Men che mai i “suoi” Palestinesi, all’emancipazione morale e politica dei quali non ha certo contribuito con le sue posizioni sterilmente vittimistiche, ancorché redditizie, basate su presupposti falsi, fuorvianti -come, per dirne una, considerare il sionismo una forma di colonialismo, quando, viceversa, esso è un movimento nazionale di liberazione-; e non era affatto, nella sostanza, persona di dialogo. Ciò a prescindere dal sostegno dato ad un’orchestra (East Divan) composta pure da giovani israeliani e palestinesi, ideata e diretta da Daniel Barenboim. Sul conto di quest’ultimo poi, fermo restando il valore artistico, nutro le stesse riserve, con l’aggravante che Barenboim è ebreo, nonché israeliano (almeno per metà) e, se ha il sacrosanto diritto di criticare, pure con durezza, la politica attuata dai governi del suo Paese, non è ammissibile che si accodi alla proficua canea degli attivissimi sostenitori del boicottaggio di Israele, il tristemente noto BDS, di coloro -alcuni di questi  addirittura sostengono di boicottare Israele per salvarlo, a mo’ di Santa Inquisizione, che ti mandava al rogo per salvarti l’anima- i quali hanno come fine ultimo del loro agire la rovina di uno Stato grazie alle istituzioni democratiche e all’amore per la cultura (musica in testa) del quale, ad esempio, egli (proprio Daniel Barenboim) ha potuto diventare una figura nota e stimata in tutto il mondo. Fine del discorso. Il resto sono malafede e demagogia  che stravolgono la realtà e invitano a non conoscere la Storia.

In ogni caso, il dialogo, di cui tanto si parla, e la pace, sempre invocata -a proposito e a sproposito-, debbono nascere su basi serie e svilupparsi all’insegna della sincerità reciproca e della parità; non certo falsificando realtà e storia, magari facendo leva su sentimenti di colpa dell’Occidente, motivati o meno.

Senz’altro, su certe (poche, ritengo, a dir la verità) questioni, come quelle menzionate sopra, in ordine alle quali -a mio avviso- sbagliava in pieno, Claudio ed io avremmo battibeccato, magari punzecchiandoci a vicenda! Però, in definitiva, sempre in modo civile, nel reciproco rispetto. Pur volendogli tanto bene, non l’ho mai, per così dire, mitizzato. Mi sembrerebbe un tradimento nei suoi confronti. Era un uomo certo grande, d’accordo, ma non esente da difetti,  limiti e….cantonate, queste ultime in campo politico, come ho evidenziato. La discussione tra noi sarebbe stata un’altra fonte di divertimento: perché confrontarsi con chi talvolta non la pensa come te, ma ciò sempre nell’amicizia e considerazione l’uno verso l’altro, è assai più stimolante che sprecar fiato con coloro, all’apparenza vicini ma, nella realtà sostanziale, assai lontani. Anzitutto dal punto di vista, lato sensu, morale: l’aspetto che conta di più. Ho vissuto significative esperienze in proposito circa un decennio fa e pure in epoca più recente; in quest’ultimo caso, con una certa sorpresa ed amarezza. Non dimentico tali false sintonie, che hanno lasciato in me uno strascico doloroso; in grado perfino di inquinare -a volte in modo irrimediabile, a volte no, fortunatamente- rapporti stretti con altri nel tempo. Ci sono persone che amano seminare equivoci e discordie; per invidia, spirito emulativo e di rivalsa o altro, che non riesco a concepire.

Altro momento centroamericano. Abbado è invitato  in Venezuela da José Antonio Abreu, un importante educatore che ha insegnato la musica a 300.000 -e passa- ragazzi cresciuti nei quartieri malfamati delle città, sottraendoli alla criminalità, alla droga, alla prostituzione. Il suo metodo, nato nel 1975, detto El Sistema (Orchestrale Giovanile e Infantile Venezuelano), è assai innovativo. In un Paese dove la criminalità raggiunge livelli elevatissimi, sono sorte negli anni, grazie all’impegno di Abreu: 135 orchestre giovanili, 156 orchestre infantili, 11 orchestre giovanili / infantili, 83 orchestre prescolari e 30 orchestre professionali. Celebre è la Orqesta Simon Bolìvar, diretta da un giovane di valore, pure violinista, Gustavo Dudamel. E’ merito di Abreu se migliaia e migliaia di ragazzi e giovani, dopo averlo incontrato, preferiscono imbracciare un violino, anziché…un’arma. José Antonio ha dotato di uno strumento adatto tutti i suoi musicisti in erba, anche i più piccoli, dimostrando pure eccezionali capacità organizzative. Nessun stupore quindi se, in un barrio di Caracas o di altra città venezuelana, senti all’improvviso un ragazzino intonare con disinvoltura un’aria di Wagner! O di Mozart.

A quest’ultimo proposito, una volta (2006) Claudio dichiara: “Come i temi che compaiono nel Flauto magico testimoniano la fede di Mozart in un’utopia positiva e nella tolleranza tra gli uomini, allo stesso modo il lavoro di José Antonio Abreu testimonia un’idea meravigliosa, un’idea di speranza in un mondo dove la forza della cultura riesca ad abbattere tutte le forme di violenza, di sfruttamento e di razzismo. Più si conosce delle varie culture, delle varie religioni, più si capisce”.

Nel 2005 Abbado si reca in quel Paese lontano -ma vi tornerà altre volte- per conoscere tale straordinaria esperienza e dirigere, a sua volta, dopo i più acclamati interpreti del mondo, gruppi di ragazzi strappati alla strada. Il diario di viaggio possiamo riviverlo nel bellissimo documentario, uscito nel 2006, a cura di Helmut Failoni e Francesco Merini, L’altra voce della Musica (insieme al relativo DVD c’è un libretto, edito da Il Saggiatore -collana Terre. Idee-, un’autentica “chicca”).

L’inesauribile Claudio -il quale ebbe a dichiarare che quegl’incontri avevano cambiato il suo approccio alla musica- si era impegnato, anni addietro, per promuovere la nascita del Sistema Abreu pure in Italia; come del resto stava accadendo in altri Paesi, quali India, Spagna, U.S.A. E infatti, dal 2010, ecco El Sistema Italiano: Sistema Orchestre e Cori Giovanili e Infantili in Italia Onlus. Una realtà operativa a tutti gli effetti, con oltre 45 nuclei operativi su tutto il territorio nazionale e ben 14 regioni interessate, nonché circa 8.500 bambini e ragazzi italiani coinvolti.

Come fortemente sostenuto da Abbado è il coro venezuelano Manos Blancas, formato da bambini sordomuti (!!!), sempre espressione di El Sistema, testimonianza del grande valore terapeutico della Musica. Con buona pace degli astiosi detrattori. Nonché degli onnipresenti elitari dell’io son sempre in prima fila, avanti agli altri per diritto divino. Gente che magari si proclamava sua ammiratrice, ma che da lui non aveva imparato nulla.

El Sistema poi ha consentito la nascita di autentici talenti musicali, in vari ambiti. Oltre a Dudamel, abbiamo, per restare nel solo campo dei direttori, il trentenne venezuelano Diego Matheuz (già prima bacchetta ospite nell’Orchestra Mozart), anch’egli violinista come Gustavo, già notissimo in campo internazionale: ricco di qualità, entusiasmo, energia contagiosa. Diego considera Abbado come un secondo padre. Ecco che cosa ha dichiarato questo stupendo ragazzo alla notizia che  Claudio ci aveva lasciato:  “….Non posso credere che domani il mondo potrà continuare a vivere senza di lui. Sono stato suo allievo per anni  e da lui ho provato ad imparare il mistero racchiuso nelle chiavi interpretative di un talento irripetibile. Ci lascia la grandezza dell’umiltà, dobbiamo continuare a lavorare seguendo la sua genialità e il suo stile di vita, lui ha sempre voluto un’Italia migliore  e nel suo nome dobbiamo continuare a lottare per ottenerla” .

Ha avuto molti figli (e nipoti!), Claudio, oltre a quelli biologici. E vederli crescere, maturare è per tutti un’immensa gioia. Come Daniel Harding, britannico, divenuto uno dei più acclamati direttori d’orchestra del mondo, che egli chiamò come proprio assistente a Berlino nel 1996 allorché Daniel era poco più che ventenne; o Isabelle Faust, sbocciata grazie a lui, fantastica violinista tedesca che ho conosciuto ed abbracciato di recente, dopo una triade di meravigliosi -e quanto mai affollati- concerti tenuti a Bologna.

Oppure, due nomi che mi vengono in mente d’istinto, tra i tanti: il flautista svizzero Emmanuel Pahud o il violoncellista tedesco Ludwig Quandt. In entrambi il Direttore ha creduto ed è riuscito ad imporli alla sua prestigiosa Orchestra berlinese. Ludwig gli ha reso un toccante omaggio in Piazza S. Stefano a dicembre, una visita colma di affetto poco prima della dipartita; ed è stato tra quelli che lo hanno portato sulle spalle verso la chiesa, pochi giorni dopo. Un figlio che regge in braccio il padre verso il Padre.

Molto emozionante -facilmente reperibile in DVD- è il film documentario di Cristiano Barbarossa A slum symphony (2010), che narra le vicende, ricche di pathos, di alcuni ragazzi provenienti dai barrios venezuelani, i quali hanno trovato la loro ragione di vita grazie ad Abreu e alla Musica. L’opera  è focalizzata su questi giovani e le loro famiglie. Essi parlano con affetto misto a venerazione di Claudio, che resta volutamente sullo sfondo, ma le poche scene in cui egli appare  fanno battere forte  il cuore.

Durante la stagione invernale, l’appuntamento venezuelano non manca. Egli va, in primo luogo, per dare -a titolo del tutto gratuito, si sappia-, ma pure per ricevere, da quel mondo. Credo che pochi sapessero che cosa si nascondeva dietro la sibillina dichiarazione: “….d’inverno il freddo non mi fa bene; preferisco dirigere in Venezuela, al caldo”. Ogni tanto scompariva. Discrezione. Ma non in senso immediato, banale: ciò era espressione di valori alti, in grado di indirizzare tutta una vita.

“Il bene ‘si fa’, non ‘si dice’ “, afferma un altro uomo di animo profondo.

Vicenda rilevante, imprescindibile, è la grave malattia che, a 67 anni, lo ha colpito: un vero fulmine a ciel sereno, seguito da urgente, durissimo intervento chirurgico a inizio luglio 2000, a Sassari. “Quando ho saputo di avere un cancro allo stomaco” leggiamo da Manin “ho avuto un momento di paura. Ma ho subito reagito e ho cercato di trasformare quel male in qualcosa di buono, un’opportunità di ripensare a molte cose, di selezionare quello che era importante davvero. Ho cambiato stile di vita, ho centellinato ogni emozione, ogni incontro. Con la gioia di avere accanto i due beni più importanti: i figli e la musica”.

Rivelazioni che fece, lui sempre così schivo, ipotizzo, a seguito delle insistenti voci pessimistiche apparse sulla stampa (straniera) allorché ritornò a dirigere, dopo una convalescenza assai breve, in rapporto all’operazione subita. Successivamente non menzionò più la malattia, né badò, immagino, ai giri di parole o alle frasi inopportune -se non peggio- dei soliti pennivendoli, sbucate ogni tanto. Anzi a chi gli chiedeva notizie sulla salute, rispondeva con un understatement, in perfetta coerenza abbadiana: “…piuttosto parliamo di musica”. Non voleva accentrare sulle vicende personali l’attenzione, la curiosità, certa petulante mancanza di delicatezza.

Forse non si riflette abbastanza sulle difficoltà e conseguenze che quel….terremoto, quell’intervento devastante ha comportato, in tutti i sensi; specie per una persona impegnata come lui. Impegnata in modo totale, anzi totalizzante. Terminato il ricovero, devi ricominciare da zero, o quasi. E imparare, umilmente. A respirare, in primis. Sissignore. Cioè a coordinare il respiro “con l’aiuto di un terapista; a muovere, a sollevare nuovamente le braccia. E’ stata dura” ammette. A nutrirti. A interagire con il prossimo e la realtà. Giorno dopo giorno. Il ferreo regime alimentare. Il costante controllo medico. La tua vita cambia; anzi è una nuova esistenza che comincia. Non puoi farcela, senza tirar fuori da te una montagna di coraggio, unito al sostegno di coloro che ti sono più vicini e all’aiuto quotidiano di ciò che per te conta sul serio. Per diversi anni Claudio ce l’ha fatta -pur soffrendo parecchio in momenti difficili-, con notevole fatica, mai esibita, sempre nascosta tra il sorriso o la battuta. Grazie alla volontà, al sostegno prezioso dell’amata Musica. E la presenza oscura che incrociava al largo veniva scacciata da quel miracolo.

Evidentemente non conosco nei particolari la sua storia clinica e le tappe della malattia, pur immaginando; ma non posso che inchinarmi di fronte a tanta forza, in primo luogo  morale.

Tre mesi dopo soltanto è di nuovo sulla breccia per dirigere la sua ritrovata Orchestra nel concerto per il decennale della Wiedervereinigung. Trionfo e mezz’ora di applausi. A novembre intraprende una tournée in Giappone, nonostante il parere negativo dei medici. Ai rischi gravissimi che gli vengono prospettati contrappone l’adamantina certezza che solo la Musica può salvarlo. “La mia medicina è fare Musica con Voi” dichiara ai Berliner. E infatti, il 31 dicembre 2000, celebra con loro alla Philarmonie il centenario della morte di Giuseppe Verdi dirigendo il tradizionale Silvesterkonzert, tutto centrato su brani festosi tratti da Falstaff, l’ultima, sorprendente opera del “Cigno di Busseto”, ripresa successivamente a Salisburgo.  Poi a gennaio c’è il Requiem, pure  di Verdi, sempre nella capitale tedesca, e a febbraio il ciclo delle sinfonie di Beethoven  e dei concerti per pianoforte a Roma, presso l’Accademia di S. Cecilia. Eventi memorabili dove, racconta “….Ho sentito una partecipazione vibrante, come se l’orchestra, io e il pubblico fossimo una cosa sola”.

Claudio risorto, tra i suoi Berliner: così ho chiamato, tra me e me, un’immagine -volutamente, in questo scritto, ne ho inserita, di lui, una sola; a parte il breve filmato finale- di quel periodo, assai significativa. Un magico filo rosso la lega a quell’attimo meraviglioso dei quattro piccoli Abbado in montagna, felici accanto alla Mamma. E pure  qua l’espressione sul viso di Claudio vale più di ogni commento. L’autore è Marco Caselli Nirmal, particolarmente in stato di grazia.

Claudio risorto  tra-i-suoi Berliner

La sorpresa di rendersi conto di piccoli mutamenti nel percepire la realtà circostante, dopo l’operazione. Gli odori, i colori….I suoni. “Sento molte più linee di prima, più dettagli….E’ tutto molto più chiaro, più limpido….. più coinvolgente”.

Più coinvolgente: anche una profana come me se ne accorge, se opera un confronto, nelle interpretazioni, tra “Prima” dell’intervento e “Dopo”; e questo senza necessità che un esperto glielo faccia notare e / o glielo spieghi. D’altronde, la Musica -in sé- va vissuta, prima che spiegata.

Mi ritrovo in pieno nelle profonde pagine scritte in proposito da Alessandro Zignani. “Abbado appare segnato nel corpo; eppure, al contempo, un certo precedente pudore, la paura del limite, appare ora trasceso. L’Abbado degli ultimi anni ha trasceso la tecnica. Dirigere esprime il paradosso del tuffatore; provi i gesti, nel tuo corpo; poi, al momento dell’esecuzione , la musica ti attira a sé: mente, occhi, mani. Il gesto deve fluire dalla musica e trovare negli occhi e nel volto il proprio centro espressivo. La bacchetta, in tutto questo, c’entra poco, ma il permettersi di trascurarla comporta un’immensa evoluzione interiore” (op. cit., p. 183).

“La malattia… ha trasfigurato il suo modo di avvicinarsi alla musica. Ha reso il suo gesto più essenziale, più astratto e insieme più libero e credo lo abbia avvicinato alla dimensione spirituale e misteriosa della musica” afferma Daniele Gatti, che considera Abbado una sorta di “maestro aggiunto”.

Tale trasfigurazione spiega il significato di una sua frase, all’apparenza assurda, pronunciata all’inizio della sua drammatica “avventura” : “Il cancro è stato la mia fortuna”.  Questo difficile passaggio, per tanti, quasi tutti penso, ritenuto invece il colmo della sfortuna -“Why me?”, Perché a me? E’ l’angosciosa domanda che si pongono i malati di tumore-, per lui è occasione di crescita, mezzo per comprendere e vivere ancor meglio la Musica; e non solo. I paradossi di Claudio, in grado di spiazzarti. Sempre.

Va  detto poi che il legame con l’Italia è comunque sempre stato molto stretto, anche negli anni berlinesi. La presenza per lungo tempo a Ferrara; l’inaugurazione del Lingotto a Torino, come scritto sopra; Firenze (rappresentazione di Elektra di Strauss e Simon Boccanegra di Verdi); riapertura al pubblico del Teatro Massimo di Palermo; collaborazioni con Bolzano (ricordiamo, oltre a quanto scritto sopra, la fondazione dell’Accademia Gustav Mahler, nel 1999), Reggio Emilia (Flauto Magico, nel 2005); nonché, dal 2004, Bologna.

“Non accetto limiti e cerco sempre cose nuove” disse una volta. E ancora: “Quando si pensa di sapere tutto, la vita è già finita”. Un ideale valido a tutto campo; una visione piena, senza limiti, della conoscenza. Ben diversa dallo “spirito” attualmente diffuso, corto di vedute; circoscritto o da prefabbricate certezze o, viceversa, da un relativismo ottuso, cinico, materialista e bon à tout faire.

“La cultura è un bene comune primario, come l’acqua; e i teatri, i musei, i cinema sono tanti acquedotti”; principio lineare, saggio; come lui.

“Del resto anch’ io sono sempre alla ricerca di qualche cosa di nuovo. Quando trovo una nuova edizione o una vecchia edizione di un’opera che penso di conoscere bene scopro sempre un dettaglio, un particolare che mi sorprende. E cerco di trasmettere questa curiosità ai miei musicisti”. Così, in una delle ultime interviste.

Quanto (sul piano musicale, etico, umano, culturale) di ciò -ed è tanto!- che questo autentico figlio del migliore Occidente ha seminato durante la vita terrena, continuerà a crescere nell’avvenire? E come, secondo quali linee espressive, verrà raccolto ed elaborato? A mio parere una risposta è prematura, perché siamo di fronte ad una persona- mondo, dalle mille sfaccettature, complessa e semplicissima (nel modo di porgersi) al tempo stesso. In lui si riuniscono alcune persone: ci sono il grande valore artistico, la profonda cultura, la capacità di trarre il meglio dai diversi ensembles che aveva creato e/o valorizzato, il saper intuire da ciascuno qualità espressive prima ancora che l’interessato se ne rendesse conto. L’intensa, passionale umanità.

Ci confrontiamo con oltre un cinquantennio di attività artistica a tutto campo; curata, riflettuta, sofferta, amata. Trattata con gioia. Ogni volta che affronto la direzione di un’opera è come se ricominciassi da capo: rileggo, ristudio, perché ogni volta c’è qualcosa di più da scoprire”. E te lo vedi davanti agli occhi, libero nel tipico abbigliamento, solo in apparenza, casual -jeans e camicie colorate, familiari, da ragazzo quale era- ad approfondire, osare, sempre coi suoi, per confrontarsi; mai solo sul piedistallo nello splendido isolamento della star; specie i direttori d’orchestra.

E’ passato troppo poco tempo da quando fisicamente ci ha lasciati; anche se sembra un’eternità: scherzi della nostalgia. Alessio Allegrini, Primo Corno Solista dell’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia, della Lucerne Festival Orchestra e dell’Orchestra Mozart, che ha suonato a lungo con lui e lo ha pure accompagnato nelle avventure venezuelane, sostiene -per dirla in parole semplici- che occorre dar tempo al tempo, aspettare perché “i semi che Claudio ha lanciato a terra germoglino”; senza fretta. Ciò vale pure nell’ambito extra musicale. Un esempio. La “provocazione” dei 90.000 alberi a Milano, di cui parlavo sopra, non era una bizzarra “fantasia”, bensì aveva alle spalle un serio progetto di Renzo Piano; non solo, ma vantava radici antiche risalenti come minimo all’architetto Giuseppe Mengoni (1829/1877): un muro verde che determinava la chiusura di Piazza Duomo, programma rimasto sulla carta per diversi problemi tecnici. Senz’altro Claudio ne era a conoscenza. “Gli alberi in Piazza Duomo erano il cuneo nel cuore della città di un sistema verde che doveva partire dalle periferie e invadere strade e piazze” così Stefano Boeri. La proposta di Abbado (come detto, 2012) fu, a suo tempo, condivisa da Alberto Artioli, già Soprintendente per i beni architettonici ed urbanistici della Regione, il quale ora, nel 2015, la rilancia. “Ci vuole coraggio, ma si può fare”. E l’archistar Andreas Kipar incalza: “Non c’è luogo non adatto ad un albero: dietro la Cattedrale cresce e fiorisce una magnolia”. E Boeri chiosa: “…una sfida che è stato, con gli occhi di oggi, un peccato perdere. Milano poteva già essere una città all’avanguardia sui temi della biodiversità e della forestazione urbana.” Boeri e Kipar sollecitano ad avere il coraggio del rischio e dell’innovazione. “Si è perso un po’ di tempo, ma si può ancora fare. Sarebbe un modo bellissimo per conservare la memoria di Abbado. Per lui era una sfida, l’emblema di una città diversa”.

Dettaglio psicologico, che suscita in me sentimenti diversi. In linea di massima, perplessità e pungente fastidio,  ogni qualvolta mi trovo di fronte a chi è convinto di avere, sul conto di lui,  la verità in tasca. Alcuni (non tanti, d’accordo)  la cui strada, a vario titolo, si è incrociata con quella di Claudio -perché lo hanno conosciuto e /o hanno avuto rapporti con lo stesso, di lavoro, di amicizia o, perché no, di semplice conoscenza, magari spacciata all’esterno per familiarità- sono convinti, nel modo più assoluto, di possedere il monopolio della conoscenza sul personaggio, sui suoi  pensieri, sul suo cuore. Dei brani -e degli Autori- che avrebbe potuto (?) dirigere o non dirigere. E il come e il quando e il perché e il dove. A prescindere, ovviamente, da eventuali dichiarazioni in tal senso espresse (o meno!), a suo tempo,  dall’interessato. Affibbiano patenti di dignità -o indegnità- a chi ora sta sul podio che fu suo; leggi l’ottimo Riccardo Chailly. E discutono infervorati! Immagino il Nostro sorridere indulgente al loro indirizzo, dal luogo di Luce in cui credo fermamente  si trovi e dove lo penso sempre.

 Indulgente perché, per primo, non si è mai messo su un piedistallo. E sì che se lo sarebbe potuto permettere. Personalità forte su una……struttura leggera. Quella leggerezza mozartiana cui accenna con ragione il suo amico Claudio Magris.  Leggerezza  profonda, vitale. Ma forse è proprio questo che intende esprimere lo scrittore triestino.

 Per lui la malattia diventa spunto di rinascita, umana e artistica. Da quel momento ogni occasione, ogni appuntamento, ogni nota sono da gustare, vivere nel modo più pieno. Fino all’ultimo.

E  questo “cercare cose nuove” ha favorito un più alto, tutto speciale, rapporto con i musicisti, dando origine alla fase forse più feconda del suo percorso artistico. “Ho creduto fosse arrivato il momento” rivelò a proposito di quando gli fu diagnosticato il tumore “e considero ciò che è avvenuto dopo come un regalo”. Per converso,  regalo per noi sono stati stata la sua presenza e il suo impegno.

Uno dei tanti paradossi della vita: una persona che dà il meglio di se stessa allorché la sua condizione fisica è in stato di precarietà. Dai il meglio di te oggi, raccogliendo ogni energia  possibile, a costo di gravi sofferenze -in primo luogo fisiche, ma non solo-, perché sei consapevole che non potresti avere altra occasione domani. Sembra un non senso; invece tutto ciò ha un significato profondo, che va colto. Non ho alcun problema a dire che me lo ha insegnato proprio Claudio; con la sua vita.

Ho ancora ben presenti le immagini di quando tornò sul podio, a soli pochi mesi dall’operazione con la quale gli era stata asportata circa metà dello stomaco.

Molto dimagrito, con diversi capelli grigi in più, pallido, quasi irriconoscibile, al primo sguardo…Ma con una nuova luce di vita -palpitante, forte come non mai- negli occhi che mi emozionò, già allora, moltissimo. Era colui che ritorna dopo una tremenda guerra combattuta senza esclusione di colpi, da una parte e dall’altra, che si è trovato faccia a faccia con la Morte.

Questa vita rinnovata è stata l’incanto che gli ha consentito di vivere in modo pieno per altri quattordici anni, fino alla fine; anni colmi di progetti, successi, affetti rafforzati per paradosso da un’esperienza drammatica.

Con l’impegno, mai venuto meno, a fronteggiare quel nemico divenuto, in modo forse assurdo, quasi un alleato, ma dal quale, aggiungo con immenso dispiacere, alla fine è stato subdolamente tradito.

Le sue esecuzioni si erano fatte, via via, più spiritualmente vibranti, a motivo, lo sento, dell’odioso rimpiattino che si divertiva a giocare con lui la Morte. “Impossibile dirigere Mahler senza pensarci”. Rivivete la Nona del compositore boemo nell’interpretazione del 2010 al Festival di Lucerna. Tutta la Sinfonia, compresi quei tre minuti finali, allorché Musica e Silenzio diventano unica realtà. Vi troverete a riflettere sulle Cose Ultime, su ciò che si tenta -peraltro invano- di metter da parte, ma che è sempre lì. Davanti a te c’è sì un sommo interprete; ma non il grande attore, da sommergere, alla fine, di applausi. Davanti a te c’è un UOMO, con la sua vita, col suo essere, capace di mettere a nudo se stesso senza paura, che vive un’esperienza trascendente attraverso la MUSICA. L’espressione del viso è tenera e drammatica al tempo stesso….ecco un’impercettibile contrattura, quasi di stupito dolore, subito svanita nell’oceano di silenzio. Ho la certezza che, in quegli istanti, Claudio si sia staccato dal mondo degli uomini. Più intensamente che altre volte, comprese altre sue interpretazioni della medesima sinfonia. Pensava forse alla propria morte, sopraggiunta poco più di tre anni dopo? Chi può dirlo? Non credo però, come ha scritto qualcuno, che, con quella Nona, egli si sia congedato dall’Orchestra e dalla Musica. Ha diretto ancora e, quanto alla Musica, non le ha mai detto addio, come scriverò tra poco.

Essa è stata con lui fino alla fine.

Dopo quei tre MINUTI raccolti, mi sono sembrati del tutto fuor di luogo, pur in un certo senso comprensibili,   i fragorosi applausi (liberatori: meglio non pensar troppo a ciò che conta davvero nell’esistenza), quasi, mi si perdoni il termine, da stadio. Men che mai, salvando l’amicizia che legava i due,  quel bravo!!!!, urlatogli da Roberto Benigni mettendo le mani “a coppa”. Non ci si indirizza così ad un mistico, nemmeno allorché egli, ridisceso sulla terra, guarda i propri simili con affetto. Brutale sincerità: qui vedi la differenza tra un uomo di spettacolo -per quanto simpatico, preparato, versatile- e una vera persona di cultura.  Ad un mistico che non parte per l’empireo lasciandoti a razzolare nelle tue miserie, ma che ti prende per mano e ti porta con sé in alto, non gli urli bravo, ma gli sussurri GRAZIE. Assai più appropriata (e sincera) la partecipazione tributatagli dai membri dell’Orchestra, i quali battono le mani sì, ma in modo intimo e commosso. I loro volti sono illuminati dall’emozione, a cominciare da quelli di Wolfram Christ, Natalia Gutman, Dietmut Poppen che, con il Direttore,  hanno tanto lavorato.

Analoga esperienza, sempre  a Lucerna, nell’estate 2012, Requiem di Mozart.  Molto diversa da quella, pur intensissima, vissuta da lui con il Requiem diretto nella Cattedrale di Salisburgo il 16 luglio 1999, per celebrare il decimo anniversario della scomparsa di Herbert von Karajan. Allora era più giovane e in piena sanità fisica (almeno all’apparenza; il dramma si sarebbe manifestato appena un anno dopo).

Nell’agosto 2012 lo vedi già sofferente, senza ritorno. Non riuscirà a vincere la seconda tempesta che si era abbattuta sul suo fisico precario, il cui equilibrio non avrebbe mai dovuto essere alterato. Ma, fino all’ultimo, egli c’è, pur nella consapevolezza della propria fragilità.

E, accompagnato da orchestra, solisti e coro di altissima levatura, ci dona con un coraggio incredibile, un’interpretazione che va dritta al cuore: trascendente, di profonda religiosità. Passione e sofferenza; ma pure tanta  dolcissima PACE. Celeste.

Nel 1999 era fiorente, sicuro di sé, un illustre direttore che interpreta in modo sublime un brano di musica immortale.

Qui è un Uomo in preghiera. In umiltà e dedizione.

Alla fine, al termine del Lux Aeterna, la tenera, muta invocazione. Lo sguardo volto in alto che ti scuote nel profondo.

Lungo SILENZIO.

Quando scatta l’appassionato, partecipe applauso tutti sono commossi, a cominciare dai musicisti e dal coro. Egli è assai provato, te ne accorgi subito, ma consapevole di aver espresso quanto ha nell’anima. Dona alla clarinettista Sabine Meyer -sublime- il mazzo di fiori riservato a lui.

Leggiamo nel testo di Alessandro Zignani la seguente toccante osservazione, in specie a proposito del periodo conclusivo della sua vicenda terrena :

” Sono pochi gli artisti capaci di trasfigurare una declinante condizione fisica in ali per l’ultimo volo”.

“E’ il silenzio al termine di una sinfonia a dar senso alla sinfonia stessa, così è la morte che dà senso alla vita”. Così lo stesso Claudio. E ancora: “La morte, quando si lega all’ amore, può portare con sè il proprio opposto, vale a dire nuova vita. Forse è il segreto della lettura di questo tema da parte di Wagner, dovuta alla sua passione per il pensiero orientale. Se la morte è assenza e immobilità, l’ amore che nasce da lei e a lei ritorna -così facendo- ne smentisce l’ assolutezza. Per noi occidentali è più difficile capirlo. La musica, che poggia innanzitutto sulla memoria, sembra quindi più di qualsiasi altra forma artistica dare senso a questo modo di conseguire una morte che, attraverso l’ amore, dà vita”(cfr. Claudio ABBADO, Musica sopra Berlino. Conversazione con Lidia Bramani, 2° edizione aggiornata, Bompiani, Milano 2000, pagg. 318).

Vita e Morte, in una circolarità a me familiare. Claudio, l’Uomo in Cammino, mi ricorda molto un’altra grande persona di Spirito, che ho conosciuto anni fa in occasione di sei Lectiones tenute sul Talmud nella nostra Alma Mater : Elie Wiesel.

“Vivi la tua vita in maniera tale che la paura della morte non possa mai entrare nel tuo cuore” così recita pure un detto degli antichi pellerossa (Nazione Shawnee).

“Per molti la morte è un tabù angoscioso. Io invece non ne ho paura. L’importante è spendere la propria vita a piene mani…..L’importante è credere in qualcosa: che sia la religione, la musica, l’umanità…L’importante è conoscere quello che sembra diverso da te, altre fedi, altre culture. Più conosci, meno hai paura” rifletteva Claudio.

“L’importante è spendere la propria vita a piene mani”. “Più si dà, più si riceve“.

Dare. La propria esistenza, ma anche piccoli pensieri, in segno di sincero affetto. Nel Natale 2013, poco prima di morire, Claudio regalò ai musicisti della sua Orchestra Mozart un libretto illustrato: Concerto per alberi di Laëtitia DEVERNAY (pp. 64, Terre di Mezzo Editore, 2011). In quei disegni in bianco e nero, che raccontano la storia di un piccolo direttore d’orchestra capace di animare le piante grazie al tocco magico della sua bacchetta, è espresso tutto l’amore del Maestro per la Natura. Ispirato da tale testo, poi, Félix Mendoza, musicista venezuelano, espressione di El Sistema di Abreu e timpanista della Mozart, ha composto un omonimo brano, rappresentato sulla scena con il coinvolgimento di una compagnia mimica, in occasione del Festival di Musica sull’Acqua (manifestazione fondata e diretta da Francesco Senese, affermato violinista colichese, anch’egli membro dell’Orchestra Mozart, nonché della Lucerne Festival Orchestra) , tenutosi a inizio luglio tra Milano Bicocca e Colico. Dice a tale proposito Francesco, il mio carissimo Francesco: “Il libro di Devernay esprime tutto lo stupore che l’uomo dovrebbe provare di fronte alla natura. Lui [Abbado cioè], quello stupore, lo ha sempre mantenuto, sia ammirando un paesaggio, sia ascoltando una musica che lo commuoveva”. Musica e Natura possono salvare il mondo, sosteneva Claudio, come facce della medesima Bellezza, aggiungendo “…forse la mia storia è cambiata anche con le piante”.

Concerto per alberi

Io che, più giovane solo di quindici anni rispetto a lui, non posso più guardare alla Morte come ad una realtà lontana ed astratta, che spesso penso a quello che è -ed è stata- la mia esistenza, con alti e bassi, luci e ombre, ho ricevuto una fondamentale lezione di vita interiore, di spiritualità da lui che si dichiarava non religioso (almeno in senso comune e tradizionale). Ma, a quest’ultimo proposito, chi può conoscere che cosa c’è davvero nel cuore di ciascuno? Nemmeno la persona interessata, forse. E che significa essere religiosi? La ricerca costante, il “non porsi limiti” nella conoscenza, nel dare il meglio di sé fin oltre l’impossibile, l’amore per la libertà, per la bellezza, tutto questo non è forse espressione di profonda religiosità? Il Signore conosce infinite strade per trovarci e indurre noi a cercarLo, in piena libertà, senza magari che ne siamo talora del tutto consapevoli. La Musica può essere una di queste strade. E lui, celeberrimo uomo di Musica, aveva chiari i propri limiti, era consapevole che non l’avrebbe mai posseduta del tutto. Disarmato e commosso di fronte ad essa, alla stregua di un Fanciullo, termine assai azzeccato usato per lui da Bruno Ganz, fine psicologo, oltre che eccellente attore. Fanciullo che ritrovi in certi gesti o movimenti, qua e là, quando era felice, sul podio e al di fuori di esso; vi potevi perfino intuire come Claudio, così deciso negli obiettivi che si prefiggeva, avesse, nel contempo, un carattere timido. Frammista a Timidezza  è la Giocosità confermata, durante i momenti di relax -come nel  paradiso in Sardegna, curato amorevolmente nel tempo, la dimora a lui più cara-, con improvvisi scatti da felino mentre passeggia, stupefacenti per un ultrasettantenne dall’ardua vicenda di salute. E quel suo abbracciarsi…un gesto in cui c’è davvero TUTTO. Ragazzino in contemplazione del cielo stellato, che non gli incute paura, ma ne è commosso. E nei confronti del quale prova, in modo spontaneo, profondo rispetto. Ciò che ho sempre pensato essere il Timor di D-o.

“Se non diventerete come bambini…” si legge nei Vangeli.  Gesù la sa molto lunga sugli uomini.

C’è poi differenza tra “Paura” -fonte di odi, pregiudizi, guerre- e “Timore” -coscienza della realtà, rispetto per gli altri e quindi per sé-.

“Povero”: così, sempre a tale ultimo proposito, lo avrebbe definito, dopo la morte, don Giovanni Nicolini (da lui conosciuto negli anni bolognesi), insieme al quale -con la Mozart- Abbado organizzò concerti in favore degli assistiti dalla Caritas diocesana, presieduta, in quegli anni, dal sacerdote.   Gesti di solidarietà di cui i giornali non davano notizia; o magari si limitavano ad un paio di righe. E chi li compiva si atteneva con scrupolo al silenzio, va da sé. Lui che, una volta, confessò allo stesso Don Nicolini  di “voler bene i poveri”.

Una frase che non comprendi, sulla quale magari fai sciocca ironia, se non cerchi di far tua la profonda spiritualità di un uomo che superficiali giornalisti, a più riprese, hanno definito come “laico”; affibbiandogli così quella sbrigativa patente da “salotto buono”, dove, senza la quale, pare oggi impossibile accedere.

“Abbiamo pregato insieme [con Claudio]; non nel senso di preghiere tradizionali; abbiamo riflettuto sul mistero della Vita e della Bellezza“. La Musica, del resto, è già -essa stessa- Preghiera. Lo dice Joseph Ratzinger, non solo Papa emerito, ma pure eccellente musicista, anche per tradizione familiare di appassionati mozartiani.

E Ludwig van Beethoven, per parte sua: “La Musica “afferma “è il linguaggio originario di Dio”.

Leggete: “…..ed ero la sua delizia ogni giorno, giocavo davanti a lui in ogni istante; mi ricreavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. La Sapienza di D-o raffigurata nel cap. 8 del Libro dei Proverbi non è forse la Musica?

“Nella morte di Claudio vedo non un’interruzione, ma una pienezza” dirà  Don Nicolini. Parole di alto valore spirituale, ma, in un primo momento, durissime da accettare, per noi quaggiù; anche se riecheggiano ciò che lo stesso Claudio affermava.

Nel  dolore ci può aiutare  il grande Agostino il quale insegna che “coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano, ma sono ovunque noi siamo”. E non si tratta tanto -e solo- di presenza simbolica o di ricordo, ma c’è molto di più.

“Povero”. Espressione sconcertante lì per lì, ma se ci pensi bene e ne scrolli l’inevitabile, apparente patina moralistica, ti rendi conto di come il termine sia appropriato. Te ne accorgi quando senti Abbado ricordare le sue interpretazioni, tutte differenti tra loro, lungo l’arco del tempo. La stessa Sinfonia, ad esempio: ma ogni volta che le si accostava, vi scopriva qualcosa di nuovo. Allorché, al contrario, ritieni di “possedere”, qualcosa o qualcuno, non sei arrivato: sei fuori strada.

Vale nell’Arte, nei Rapporti tra le Persone, nell’Esperienza religiosa -un qualunque brano della Bibbia, anche quello in apparenza più conosciuto e familiare, è intriso di risonanze musicali, ricco di significati sempre diversi-.

Mi si stringe il cuore nel rivivere, ora, gli ultimi mesi, gli ultimi giorni di Claudio, tremendi, pur confortati da chi gli era vicino, da chi gli ha tenuto la mano nella realtà oscura. Le sofferenze affrontate con raro coraggio, qua, ad una manciata di passi.

 Lo strazio di non poter più rialzarsi e dirigere. E sì che, specie in certi istanti, lo vedevi, da ultimo, quanto gli costava l’impegno su quel podio; ma era la sua ragione di vita. Non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo.

E’ insopportabile pensare ai dolori di un fanciullo, coi capelli argentei e ottant’anni d’età, densi di vita, d’amore, di entusiasmo, di esperienze.

Immagino la partecipazione, uno tra tutti, di Maurizio Pollini: insieme -e con la Mozart- avrebbero dovuto tenere il concerto del 2 dicembre, tanto atteso, pensato… Con Maurizio sono stati amici per una vita; hanno collaborato tra loro, studiato, suonato. E avranno discusso e riso insieme; si saranno commossi. Prima ragazzi, poi uomini maturi.  Il direttore d’orchestra e il pianista, un’accoppiata grande.

Sul grande sodalizio, umano ed artistico, tra Nono Abbado, Pollini c’è un film prezioso, datato 1999, della regista e giornalista tedesca (di Monaco) Bettina Ehrhard. Il titolo è: Eine Kielspur im Meer (un sentiero nel mare); acquistabile in formato DVD.  Personaggio centrale è Luigi Nono: il titolo infatti cita la  concezione poetica filosofica cui egli, negli ultimi anni, era legato: “Viandante, sono le tue orme a fare il cammino e nient’altro….Viandante non c’è cammino, solo scie nel mare….” E il musicista immagino avrà pensato a quel misterioso versetto (18/19) nel capitolo 30 dei Proverbi : “..tre cose mi sono difficili, anzi quattro che io non comprendo:….. il sentiero della nave in alto mare….”.

Un appassionante diario, nato col favore della vedova Nono, Nuria Schoenberg,  e il coinvolgimento diretto di Abbado e Pollini nel ricordo dell’amico.

Forte è altresì il sodalizio di Claudio con un altro genio della tastiera, Martha Argerich, nata in Argentina e naturalizzata svizzera, conosciuta fin dai tempi lontani degli studi a Vienna. Martha è incredibile: pianista eccelsa, donna dal carattere forte, ma venato di insicurezze che non immagineresti; o meglio, lo immagini perché comprendi subito quanto sia  cosciente dell’enorme responsabilità verso il pubblico, del suo essere tramite tra questi e la Musica. Pure lei ha avuto una vita sentimentale assai variegata; madre di tre figlie con le quali vive un rapporto complesso, ma molto intenso. Nonna felice, come Claudio che adorava, ricambiato, i suoi nipoti. Persona alla mano, viaggia democraticamente in treno, accompagnata da una sorta di segretario / guida spirituale / massaggiatore. Appena inizia a suonare,  muovendo le dita in quel suo certo modo -lei, la Musica, la ricrea, ripetendosela a bassa voce (non c’è traccia di spartito davanti agli occhi!)- Martha ti  trasporta nel suo mondo staccandoti da terra; e tu ti commuovi tutto il tempo, perfino quando s’inchina in modo perfetto per ringraziare i presenti al termine dell’interpretazione. Si può permettere una lunga, folta  chioma grigia che accresce il suo carisma, insieme ad improponibili giacche dai colori sgargianti: addosso ad altre risulterebbero kitch, ma a lei stanno benissimo. Impossibile non volerle bene. Ama suonare in compagnia, “far musica insieme” con orchestre e altri solisti. Amici in perfetta sintonia da sempre -hanno suonato insieme fino all’ultima primavera di lui- con Claudio ha in comune, oltre l’Arte, sul piano umano, la valorizzazione costante dei  talenti alle prime armi, la stupenda semplicità e il coraggio con il quale ha affrontato, a sua volta, difficili problemi di salute.

Sulla copertina del CD -uscito a febbraio 2014- che racchiude la penultima interpretazione (Lucerna, marzo 2013, con l’Orchestra Mozart) c’è una foto stupenda:  lei, ricca di fascino, sorridente, e lui -di lato- lieve, strepitoso, che le stringe la mano. Due giovani per sempre. Immagine struggente da accarezzare.  Concerti per pianoforte e orchestra nn. 20 e 25, cioè K. 466 e K 503.

Poi Ferrara, in aprile, con la M.C.O, ultimo appuntamento per loro. Indimenticabile Beethoven Piano Concerto No. 1 in do maggiore, Op.15. Da ascoltare, riascoltare, rivivere. Quello che ho soprannominato, tra me e me, il Concerto Martha; l’ha studiato, vissuto, suonato mille volte; fin da bambinetta.

Ho letto, non ricordo più dove, che, durante il concerto tenuto poco prima a Parigi, presso la Salle Pleyel, Martha, di colpo, smise di suonare, si avvicinò a  Claudio e gli dette un bacio. Si trattava di una semplice, spontanea  manifestazione d’affetto da parte dell’amica e collega di una vita; oppure c’era dell’altro? Cioè la premonizione, da parte di lei -sempre istintiva e medianica-,  che ancora per poco avrebbero fatto Musica insieme ? Ti vien da piangere.

Rapporti, quelli con Martha, Maurizio e tante altre persone (di Musica, ma non solo) conosciute nel tempo, in grado di andare oltre la semplice, sia pur preziosa, stretta amicizia. E’ sintonia, condivisione totale; ardua da comprendere per chi ignora tali stupendi legami.

Lo spiega bene, in un’intervista, Alois Posch, già contrabbassista dei Wiener, che ha a lungo collaborato, pure nella Mozart, con Claudio. Sovente passeggiavano per ore, chiacchierando, scambiandosi pensieri, progetti, idee.

E Posch rammenta senza problemi quanto la riservatezza di Abbado lo avesse spiazzato la prima volta in cui si trovò a lavorare con lui. “Salisburgo, 1978. Si preparava la Terza Sinfonia di Mahler ed io [dopo le parole dei colleghi su questo grande direttore] avevo aspettative enormi: E cosa successe? Claudio iniziò parlando pochissimo e a voce molto bassa. Tra l’altro, era lontano dai contrabbassi. ‘Sarebbe questo il famoso Abbado?’ chiesi deluso. Ma i colleghi mi risposero: ‘Aspetta il concerto per giudicare’. E fu così che suonai dal primo all’ultimo secondo come se fossi drogato, come se la mia vita dipendesse da quel momento”. A distanza di anni ad Alois brillano gli occhi quando racconta. E conclude: “Successivamente i colleghi mi chiesero: ‘Vedi?’  “.

Ecco poi quanto scrisse una volta proprio Luigi Nono, riportato da Zignani, nel suo testo citato sopra, a p.  102: “Claudio caro, solo per dirti per iscritto (ché a voce risulta inattuabile) quanto la tua presenza umana creatrice, di libertà, mi sia necessaria ed essenziale (….) Le tue risposte dalla tua apparente ‘solitudine’ talmente piena e gioiosa di vita creatrice”. Nono ha fatto proprio, come solo alle “affinità elettive” è concesso, il segreto dell’amico.

La Musica è, per Claudio, Respiro. Lo leggi in tutto il suo essere. Perfino pochi giorni prima di lasciarci studiava. La Terza Sinfonia di Schumann. Studiava! Come ha  fatto tutta la vita.

Quale forza lo spingeva ancora, quand’era già così sofferente? Azzardo un’ipotesi, che serbo dentro di me.

La Musica è parte di lui e non si sono separati mai. Ti separeresti dalle braccia, dalle gambe, dagli occhi? Nemmeno concepibile!

Essa gli è stata accanto fino alla fine: nei rari momenti di tregua, come nel buio delle sofferenze…..e poi…

E poi…..Poi la Tempesta è passata. Come al termine del Libro dell’Apocalisse “…e non vi sarà né morte, né lutto, né lamento, né affanno….Perché le cose di prima sono passate”.

L’Oscurità e il Dolore svaniscono, in quell’attimo sulla Soglia, per far posto alla Luce -propiziata dall’Amore dei suoi Figli e Nipoti e dalla Musica, eterna compagna fedele- che lo sta aspettando.

Sebastian confida a noi, tramite Manin, un particolare che conforta e testimonia quanto ho espresso sopra: “Dopo essersene andato, aveva un volto bellissimo, quasi trasformato. Sciolta la tremenda tensione degli ultimi giorni, era tornato ad essere il papà di sempre. Capace perfino di regalarci un sorrisetto finale. Gli è spuntato proprio all’angolo della bocca. Come volesse confortarci. O forse scherzare con noi ancora una volta”.

Non si è trattato di una sorta di reazione, per così dire muscolare, al momento del distacco. No, era un Sorriso vero. Ne sono certa: un dono per chi lo amava da sempre e per chi, dopo, lo avrebbe amato altrettanto, grazie alle misteriose, dolci strade dello Spirito.

Specie negli ultimi anni del suo percorso umano ed artistico, quando è coinvolto in modo totale nell’interpretazione, Claudio entra in una Realtà Trascendente, uno Spazio Divino nel quale trascina anche te, senza che tu te ne renda conto. Non ti lascia fuori. Questa è la radice del Silenzio serbato da lui, che non abbassa la bacchetta, insieme coi musicisti (i quali, attenzione, non posano i loro strumenti!), a volte per decine di secondi, a fine esecuzione. Silenzio che diventa anche tuo: è il trattenere il respiro nell’Estasi, prima di quel caloroso applauso, a testimoniare quanto i presenti siano tutti un cuore solo. “Mantenere il silenzio significa aver ascoltato in modo particolarmente attento. Spesso il silenzio ha più peso del suono stesso…Bisogna ridare valore al silenzio, al concetto di pausa, al pianissimo“.

Oggi che egli non è fisicamente qui, nel nostro quotidiano, ci sentiamo più soli, poveri, banali, sovente tentati dall’amarissimo gioco del “mai più” -per rubare l’espressione allo scrittore israeliano Ron Leshem-; ma sappiamo pure che un artista e uomo autentico come lui vive per sempre, e non solo come caro ricordo, in coloro che lo amano.

Una riflessione a sé merita l’Orchestra Mozart, di cui parlavo all’inizio. Dieci anni di lavoro entusiasmante per una compagine divenuta una realtà di eccellenza, che adorava il suo Direttore e ne è rimasta orfana. Questi giovani -scelti, allevati e guidati da lui- si sono fatti apprezzare in Italia e all’estero, assicurandosi, tra l’altro, un posto al prestigiosissimo Musikverein di Vienna, dall’autunno 2012. Debutto al Teatro Manzoni di Bologna, il 4 novembre 2004. Brano di  apertura: Ouverture da Egmont, Op. 84  di Ludwig van Beethoven.  Sessanta musicisti sul palco; quaranta sotto i ventisei anni, precisa Manin.

Invito poi chiunque mi legga a vedere con calma (o rivedere, nel caso già lo conosca) il film, uscito nel giugno 2014, di Helmut Failoni e Francesco Merini (a cura della Cineteca di Bologna, prodotto da Mammut Film e da Fabio Roversi Monaco) dal titolo L’ORCHESTRA – Claudio Abbado e i Musicisti della Mozart. Un gioiello, giustamente premiato, di Musica, Vita vissuta, Umanità. Gli stessi componenti dell’Orchestra, nata, come sappiamo, nel 2004 -in gran parte giovani, provenienti da tutti gli angoli del pianeta-, narrano la loro vita artistica nell’ultimo anno di attività -2012/2013- . I concerti, ma non solo; questa è la parte minore. Le prove, le vicende di ciascuno, i momenti di relax -magari giocando una bella partita a tennis, vero Alois [Posch]?- le esperienze diverse, le emozioni, gli scherzi, le prese in giro l’un l’altro, gli abbracci, il sorridersi mentre si suonava assieme, le barzellette, i viaggi -da Lucerna, a Vienna, a Palermo…. senza contare Bologna nei suoi luoghi storici più significativi-, i timori -come quelli espressi dal giovane contrabbassista venezuelano Johane Gonzalez, cresciuto in un quartiere povero di Caracas, il quale macina ben 16 ore di treno quando da Berlino, dove risiede, deve spostarsi a Bologna per la Mozart, poiché teme che il viaggio aereo possa danneggiare il suo amatissimo, e voluminoso, strumento; e anch’esso ha una storia, stupenda-; la gioia e l’emozione di stare insieme per condividere Musica e Bellezza. Col loro Maestro, chiamato per nome d’accordo, ma nessuno più di lui merita quell’appellativo. Nella pellicola egli è presente, al centro, ma, come sempre, non è autoritario, bensì autorevole. Già te ne accorgi dal modo con cui, entrando in sala, si rivolge ai musicisti. Con uno sguardo rapido li passa in rassegna uno ad uno: un attimo pieno d’amore.

E’ l’edificio solido su cui tutto si appoggia, ma lascia che ciascun piano impari a costruirsi maturando.

“Più occhi vedo in un’orchestra, più sono contento” dichiara  nella prima (a inizio 2013, ritengo) delle due interviste rilasciate a Helmut dal nido di Piazza S. Stefano. Una chiacchierata ricca di suggestioni. E di sorprese, come al solito. Una persona che ci ha lavorato per vent’anni ed è diventato da ultimo un buon amico anche per me, ne parla con quel genere di affetto consolidato dal tempo: “Ogni suo arrivo era un happening. Succedeva sempre qualcosa di nuovo, di imprevedibile. Nulla era scontato”. Un flusso continuo di pensieri, proposte, iniziative. Fino all’ultimo, non mi stanco di ripeterlo.

Dopo le testimonianze dei ragazzi, la chiusa del racconto. E’ il saluto di Claudio: semplice, dolcissimo. Lo prego di perdonarmi i superlativi: so che non li ama, specie se rivolti a lui. Porterà pazienza, con questa sorta di allieva trovata in un’insolita dimensione; dimensione cui la stessa tiene molto. Mi viene spontaneo chiamarlo “Claudio” esclusivamente tra me e me, quando sono da sola, o quando scrivo di lui; è infatti raro che lo faccia con terzi: ricorro, per lo più, a giri di parole, pronomi, magari appellativi (quali, ad esempio: “il nostro Amico”)…. Non mi va di  fingere una frequentazione fisica che non c’è mai stata; purtroppo. Non si tratta di formalismo o, peggio, freddezza. Tutto il contrario.  Rispetto, tenerezza e gratitudine -e ce n’è un…mondo da parte mia!- cerco di esprimerli in modo sincero e con la riservatezza cui, del resto, anch’egli era abituato. Per questo sono certa che capirà.

Suscita tenerezza, nella citata intervista, l’atteggiamento lievemente ironico di chi sembra (quasi) voler far credere all’interlocutore che quanto di rilevante è stato compiuto nel corso degli anni sia merito di qualcun altro. Chissà mai di chi…..

Il suo grande cuore. Come, rivolgendoglisi, disse -diversi anni or sono- il regista Peter Brook, mimando, indirizzato a lui, un ampio gesto, ad indicare che il cuore comprende tutta la persona, non è solo  parte, sia pure importante, del corpo.

Lo sguardo limpido, celestiale… e non per quel cardigan azzurro che indossa con la consueta, naturale eleganza…..La sofferenza  non riesce a inficiare la bellezza del suo viso, segnandolo appena.

Passione. Con la p maiuscola. Altra parola-chiave per comprendere; anzi la prima pietra del suo immenso lascito  musicale, culturale, umano: “Se non metti Amore e Passione in ciò che fai” osserva; e gli occhi gli brillano ” meglio lasciar perdere, no?” Sono queste, ritengo (gli Autori non lo precisano),  le ultime immagini di Claudio in assoluto, girate nell’appartamento all’ultimo piano del palazzo su cui sogno ogni volta che vi passo davanti.

A quando risalgono? Forse alla primavera 2013; ritengo non oltre poiché Helmut ha dichiarato che l’intero film fu visionato da Claudio in Sardegna a inizio settembre successivo. Mentre il  bel libretto, che accompagna il DVD del film stesso,  è costituito  da un’intervista del medesimo Failoni, effettuata -così si legge nell’interno della copertina-  a ottobre 2013, integrata con altre precedenti. Come che sia, le ultime  immagini, quelle “col cardigan azzurro”, come le chiamo e davanti alle quali provo ogni volta un’intensa commozione, riassumono il significato di un’intera vita e ben si attagliano ad essere emblematicamente inserite verso la fine della pellicola.

 Quello che importa è l’emozione che chiunque prova davanti a tali immagini, indipendentemente dalla loro datazione certa.

Ti accosti  in punta di piedi, trattenendo il respiro.

E, un istante dopo, a concludere, ci dona meraviglie musicali, col solo tocco magico delle dita affusolate. Incanto  dei suoi, a cominciare da Reinhold Friedrich, già prima Tromba Solista dei Berliner ed elemento prezioso dell’Orchestra di Lucerna: cara figura, uscita da una  fiaba dei fratelli Grimm.

Ora Claudio invoca il Silenzio, con gesto fermo, ma colmo di tenerezza.

E rivolge a noi il  suo  indescrivibile Sorriso.

Non proseguo perché le parole sarebbero fuor di luogo. E’ una Grazia del Signore da serbare nell’intimo. Per non smettere di imparare.

Congedo con un accenno -una frazione di secondo- di lui che dirige  la spumeggiante Sinfonia n. 35 “Haffner” -K 385- di Wolfgang Amadeus Mozart; amata e vissuta  tante volte. Come il racconto era stato aperto dalla n. 33 -K 319-, colma di promesse.

Il mio stato d’animo si appoggia -verrebbe da dire si stringe- alle parole intense di Tiziano Terzani: ” E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio”.

All’interno del  libretto di cui sopra c’è una fotografia, opera anch’essa di Marco Caselli Nirmal, significativa, scattata ritengo in una delle ultime esibizioni della Mozart. E’ appena terminato l’evento. Claudio, soddisfatto, porge le mani a due musicisti, un ragazzo e una ragazza: la destra a lui (Gabriele Geminiani, primo violoncello), la sinistra a lei, una collega bulgara della quale non ricordo il nome. I due, che avranno circa  un’età poco maggiore a quella dei suoi nipoti, sono al settimo cielo. Mani e sentimenti in un tutt’uno.

All’intorno, Gioia allo stato puro. Riconosci, tra i tanti: Wolfram Christ, Jacques Zoon, Nicola Bignami, Gisella Curtolo, Giacomo Tesini….

Forte della sua concezione della Musica come medicina sociale, fin dagli inizi della Mozart, egli aveva invitato i detenuti del carcere di Bologna alle prove generali.

Inoltre furono varati due progetti, o meglio programmi, collegati con la stessa Orchestra Mozart: TAMINO, dal 2006, che promuove attività musicali nelle strutture sanitarie (“L’orchestra Mozart pone tra i suoi obiettivi quello di portare la musica a quante più persone possibile. Con il Progetto TAMINO la Mozart è arrivata nelle corsie degli ospedali, realizzando attività di musicoterapia e concerti da camera per i piccoli pazienti“. Sono parole sue) e PAPAGENO, che ha dato vita ad un coro di detenuti all’interno del carcere bolognese (2011). E detto coro ha reso omaggio al Maestro cantando nell’ultimo incontro in S. Stefano.

Purtroppo Bologna -pur con le sue indubbie qualità, luogo, per così dire, di passaggio, che ha sempre avuto, forse per questo motivo, difficoltà ad aprirsi al mondo, a sperimentare, ad osare- non è stata all’altezza di Claudio Abbado, nonostante l’impegno e la professionalità da lui profusi qui, attraverso la sua ultima “creatura”. La città non ha saputo cogliere appieno il valore del personaggio, al di là dell’affetto serbatogli dalla gente comune, con me tanti altri, quando è mancato.

Come mai simile “disattenzione” e conseguente inerzia? Più che nella perdurante crisi economica -e si sa che, in simili frangenti, la prima vittima è la cultura- credo, e mi spiace dirlo, che la causa prima stia in una notevole -tutta locale- grettezza, istituzionale in senso lato, in un’incapacità di pensare -da troppo tempo- in grande. Mi si perdoni poi una  maliziosa considerazione: al di là dell’apparente democrazia e della  finta cordialità (la cordialità autentica è patrimonio esclusivo, per lo più, dei ceti popolari), Bologna è, per tradizione, una città di ottimati autoreferenziali, di happy few, per dirla con un linguaggio colorito. Diversi, tra costoro, li vedi nelle prime file -a sempre loro riservate; ma quasi mai  è  chiaro in base a quali criteri nasca il privilegio -alle iniziative culturali di rilievo (specie se esse hanno un risvolto mondano). Possibile che a questi maggiorenti, i quali  avranno frequentato ritengo pure i concerti della Mozart, non  sia venuto in mente di costituire una cordata, con l’appoggio di forze economiche che qui non mancano, per salvare una realtà tanto importante? Forse perché la sua ” anima” non è  più tra noi di  persona e quindi sarebbe stato necessario un intervento all’insegna della totale gratuità, per solo amore della Musica, e non volto ad ingraziarsi un’illustre figura?

Fa riflettere che, dieci giorni prima della morte di Claudio, l’Orchestra Mozart abbia temporaneamente (….) sospeso le sue esibizioni. Un’altra conseguenza: i nove dipendenti della struttura sono rimasti senza lavoro. Lo avrà saputo? Mi spaventa la risposta, poiché leggo che è rimasto lucido fino alla fine. E quindi, forse….Spero con tutta me stessa: chi gli è stato vicino fino all’ultimo ha avuto la rapidità e la delicatezza di non mostrargli i quotidiani riportanti la notizia. Non ci sono parole per esprimere lo sdegno verso chi non ha voluto nemmeno aspettare  che egli concludesse la sua parabola terrena  per smantellare un lavoro decennale.

I giovani musicisti liberati dagl’impegni.

Un pensiero che cerco invano di scacciare: la sua ultimogenita non meritava di essere abbandonata. E soprattutto, questo, non lo merita lui!

Altra espressione del clima cittadino, collegata a quanto espresso sopra: il 22 gennaio, cioè due giorni dopo la morte di Claudio -coincidenza significativa-, il Comune di Bologna archivia il progetto dell’Auditorium, che avrebbe dovuto essere inaugurato nella primavera 2013. “Troppo costoso e poi gli spazi ci sono già” questa la motivazione non certo all’insegna del coraggio e della larghezza di vedute. E pensare che si trattava di un progetto davvero innovativo, forse troppo elevato per i nostri (ancora) angusti orizzonti: una vasta struttura, associata ad una Scuola di Musica, dentro ad un bellissimo vivaio. “Musica” e “Natura” insieme.

Certo non si può pensare, almeno per chissà quanto tempo, ad avere una figura del livello di Abbado, ma ritengo che non manchino oggi giovani talentuosi in grado di raccogliere il testimone; anzi essi sarebbero lieti ed onorati di farlo. Alcune voci illustri e sensibili -rigorosamente non bolognesi, ahimé- si erano alzate in tal senso, nel gennaio 2014: ad esempio, il 17  (tre giorni avanti la morte di Claudio e ad una settimana dalla “sospensione” dell’attività dell’Orchestra) lo scrittore Roberto Saviano, con un intervento sulla stampa puntuale, accorato; purtroppo pubblicato solo tra le pagine interne de L’Espresso, quando avrebbe meritato le prime  dei principali quotidiani, data l’importanza  del tema, nello specifico e, in generale, in ordine alla Musica quale patrimonio comune, umano, sociale, culturale.

O l’Architetto Renzo Piano, nella commovente commemorazione in Senato. Testimonianze stupende, quest’ultima ricca di ricordi personali: l’intensità nel ripensare al loro sodalizio -giovani ribelli desiderosi di cambiare il mondo- fin dai primi anni Sessanta, l’esigenza di salvare ora la Mozart (paragonata alla tavolozza di un pittore), l’insistere sulla necessità, ribadita tante volte da Claudio, dell’insegnamento musicale nelle scuole fin dai primi anni poiché la Musica è Bellezza e rende migliori ..”Sono sicuro che questo applauso lo sta ascoltando” esclama alla fine Renzo; e chi guarda il filmato ne è, a sua volta, convinto.

Purtroppo però non si è voluto cercarlo ed interpellarlo, il nuovo pittore. E il tempo è trascorso inesorabile.

Mancano, tra le istituzioni cittadine -le prime cui spetterebbe di muoversi, a livello pratico- la volontà, la capacità di guardare oltre. Ci si accontenta del mediocre quotidiano.

“Nel vedere il sole stamattina ci siamo guardati tutti allegri e abbiamo pensato che anche ripartire per un altro mese [in tournée], non sarebbe poi così male!” esclama, ad un certo punto del film sulla Mozart, la violinista Federica Vignoni; ragazza di grande spirito, con  notevole verve, oltre che musicista in gamba. Ogni ritrovarsi, per loro, era una festa. Arrivavano da ogni parte d’Italia e dall’estero: persone a inizio carriera e solisti di chiara fama. Scelti dal Maestro in base alle qualità artistiche ed umane al tempo stesso. Calda comunità, stretta in un rigoroso impegno felice.

E invece: STOOOOPPPPP!!!!!! Basta. Fine del sogno, fine dell’avventura davvero straordinaria -non esito ad usare stavolta un aggettivo cui sono allergica, visto che, da qualche anno, è inflazionato-; fine di tutto. Almeno sul piano musicale -quello più importante-. Indegno di un Paese civile. Una realtà di valore artistico e sociale incalcolabile buttata via; sono sicura che, in un luogo diverso dall’Italia, culla di esasperato masochismo, tutto questo non sarebbe accaduto. Qui invece siamo specialisti a buttar via i tesori preziosi. Forse anche un luogo diverso da Bologna. Mi addolora scriverlo, ma, tra le orchestra da lui plasmate, solo la Mozart è stata spenta. Tra i vari progetti e programmi di spazi per la Musica, che ha animato, solo quello dell’Auditorium bolognese è stato abortito. Ci si gratta perplessi la testa se si pensa che, a parte Ferrara, in un centro poco lontano di qui, Reggio Emilia, agli storici teatri Romolo Valli e Ludovico Ariosto, si è aggiunta una terza sede,  polivalente, ristrutturando un maneggio settecentesco, la Cavallerizza -visto, molto suggestivo-. In questo modo si è potuto dar vita ad interessanti iniziative, concerti, spettacoli, concorsi internazionali, dedicati ai quartetti d’archi (Premio Borciani). Contesti che erano una gioia per Claudio Abbado  e per chiunque ami la Bellezza e l’Arte

Il tradimento di un lavoro di anni. L’ultima pianta, tra le tante coltivate da Claudio, quella più giovane che però riassumeva in sé tutte le altre perché vi era concentrata, in modo più chiaro e preciso, la sua concezione, anche filosofica, della Musica, fatta morire;  quando, invece, DOVEVA essere salvata. La sua ultima creatura, il figlio minore, il Beniamino, colui sul quale, al di là delle qualità intrinseche, tutta l’esperienza del padre è concentrata, forse (forse) più che sugli altri, magari più esperti ed illustri.

Un voltafaccia imperdonabile nei confronti dei ragazzi che vi si sono tanto impegnati, credendoci davvero, e di colui che, con tanto amore e genialità, l’ha fatta nascere, questa realtà, diretta e accresciuta nel tempo. [3].

Ecco alcune immagini emblematiche del “Nostro”, nelle quali è racchiuso il succo di tutto il suo essere. Sono tratte da L’altra voce della Musica; il commento musicale è parte dell’Adagietto della Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler, un brano che egli amava molto  e che fa davvero venire le lacrime.

Siamo in Venezuela, un decennio fa, durante una delle sue “fughe” laggiù. A far musica Insieme e a scoprire nuove strade, con infinita passione.

“La Bellezza è una forma del Genio, anzi è più alta del Genio perché non necessita di spiegazioni. Essa è uno dei grandi fatti del mondo, come la luce solare, la primavera, il riflesso nell’acqua scura di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna” Oscar Wilde

[1] L’approccio serio e rigoroso e, nel contempo, gioioso e libero col mondo della Musica, respirato in famiglia, lo hanno spinto a scrivere in anni più vicini a noi simpatici libri illustrati per avvicinare bambini -e adulti- al magico mondo dei suoni. Un esempio per tutti: La casa dei suoni, composto a Vienna nel 1986, al fine, come scrive Zignani, “..di raccontare ai giovani la musica della vita e come l’abitudine quotidiana all’espressione creativa non sia un’attività esoterica”, afferma ironico il musicologo. Bellissima l’edizione di Vallardi , 1995, pp. 47, con illustrazioni di Emanuele Luzzati. Il libro  ha cadenza di fiaba: attraverso i ricordi d’infanzia dell’A. si ricostruisce il divenire di una vocazione. Protagonista del testo è l’Arte di fare musica. Sono spiegati l’origine e la composizione dell’orchestra, i diversi strumenti, le esigenze della direzione in un’esposizione vivace, dove non vi è nulla di freddamente tecnico. Del resto, anche le memorabili rappresentazioni (nel 1990 a Ferrara e nel 2008 a Bologna) di Pierino e il Lupo di Prokof’ev, con la voce recitante di Roberto Benigni, divenuto caro amico di Abbado -e che ne fatto, al momento del commiato, un ritratto affettuosissimo-, vanno in questa direzione.

[2] V. www.operadifirenze.it

[3] I programmi Tamino e Papageno non sono sospesi. L’Associazione Mozart 14 vuole dare seguito all’eredità culturale, in ambito sociale ed educativo, lasciata da Claudio Abbado. Ora divenuta unica testimonianza della sua presenza a Bologna, essa si impegna a continuare tali programmi e ad elaborarne dei nuovi (gli ultimi, in ordine di tempo: Cherubino e Leporello) sulla stessa linea, nella convinzione che la musica è elemento di riscatto dalla sofferenza e dal disagio e fondamento della civile convivenza tra le persone e i popoli. D’altronde, Alessandra Abbado, Presidente dell’Associazione, confessa: “E’ stato mio padre a chiederci di non spegnere Tamino e Papageno”. Perfino nei giorni della sofferenza il nostro Claudio aveva un pensiero per gli altri. Informazioni : http://www.mozart14.com