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(Titolo originale Lauf junge, lauf, Germania, Francia, Polonia 2013; Genere: Drammatico, Azione)

“Non lo devi mai dimenticare: tu sei EBREO! Hai capito? Tu devi SOPRAVVIVERE!!”

“Ne ha, di coraggio….”

 

Polonia, inverno 1943. Il piccolo ebreo Srulik di otto anni, fugge insieme al padre fornaio dal ghetto di Varsavia, mentre la madre e il resto della famiglia vengono catturati.

Inseguiti dai nazisti, i due trovano momentaneo rifugio sotto un ponte. Compreso che per entrambi non vi è scampo, l’uomo intima al figlio di fuggire subito senza voltarsi, ma prima gli raccomanda di cancellare il proprio nome, di fingersi cristiano, poiché questo è l’unico modo in cui si potrà salvare; ma pure lo prega intensamente di non dimenticare mai, nel suo cuore, di essere ebreo. Indi esce allo scoperto per attirare l’attenzione dei tedeschi, che lo uccidono all’istante.

Il bambino riesce a restare in vita grazie al sacrificio del padre.

Inizia così la lunga fuga di Srulik, che si attribuisce l’identità di Jurek Staniak, orfano cattolico polacco. Dapprima si aggrega ad un gruppetto di altri ragazzini, ebrei e soli al mondo come lui, con i quali compie scorribande nelle fattorie per rubare frutta, ortaggi o galline, poi se ne va da solo.

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Attraversa boschi e foreste, in cerca di una casa dove, in cambio di cibo e magari di un letto per dormire, offre il proprio lavoro. Boschi e foreste: talora rifugio sicuro dal Nemico, talora luoghi oscuri carichi di minacce e pericoli.

Un cammino di quasi tre anni col caldo dell’estate, le interminabili piogge dell’autunno, il freddo e la neve dell’inverno.

Incontra persone e creature amiche; ma anche individui crudeli e vigliacchi che lo tradiscono.

La storia di Srulik / Jurek ricorda, per diversi aspetti, l’esperienza vissuta dal grande scrittore israeliano Aaron Appelfeld, nato nel 1932 in Bucovina, rimasto solo al mondo, anch’egli costretto a nascondersi nella foresta e a mendicare un po’ di aiuto e cibo a fronte di lavoro, spesso duro e non apprezzato.

Magda Janczyk, una contadina, donna sensibile ed intensa, angariata dai tedeschi perché non ne ha soggezione e, per di più, è moglie e madre di partigiani, tratta il ragazzo con grande affetto; lo nasconde per qualche giorno nella sua casa, correndo gravi rischi personali. I nazisti si vendicheranno di lei e dei compaesani “complici”.

Ella gl’insegna le preghiere alla Madonna, un po’ per fede, un po’ perché, fingendosi cattolico, il bambino non susciti sospetti nella gente che gli capiterà d’incrociare sulla sua strada.

Un piccolo cane lupo, al quale Jurek aveva salvato la vita e  chiamato Aser, diviene suo affettuoso compagno di viaggio, ma è ben presto ucciso, nella foresta, da un rude partigiano polacco.

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La signora Hermann, proprietaria di una grande fattoria, ha “buone relazioni tra le SS”, ma lo prende a benvolere: allorché egli si ferisce gravemente al braccio destro mentre lavora intorno ad un cavallo, lei, aiutata da un collaboratore, lo trasporta d’urgenza all’ospedale

Qui un giovane medico dichiara deciso “Io non opero ebrei”  e a nulla valgono le pressioni della signora. Sarà un chirurgo più anziano, ricco di umanità, ad operarlo il giorno successivo: ciò salverà la vita di Jurek, ma non il suo braccio. Un trauma indicibile, ma l’amore per la vita e il coraggio di andare avanti -costi quel che costi- hanno il sopravvento.

Man mano che il tempo passa, il nostro protagonista sembra essersi spossessato della sua identità ebraica: recita le preghiere cattoliche, partecipa alla Messa, riceve perfino la Prima Comunione, insieme ad altri coetanei, dopo che è stato accolto con affetto da una famiglia di agricoltori, i Kowalsky.

Mentre si trova presso di loro le truppe sovietiche giungono in Polonia costringendo i tedeschi al ritiro.

La guerra finisce poco tempo dopo.

Quale futuro attende Jurek?

In occasione della Giornata della Memoria è uscito nelle nostre sale Corri ragazzo, corri: stupendo film che il regista tedesco Pepe Danquart ha tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore israeliano di origine polacca Uri Orlev (pubblicato in Italia da Salani nel 2002).

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Anche Orlev, nato a Varsavia nel 1931 come Jerzy Henryk Orlowski, è stato rinchiuso insieme al fratello minore nel ghetto della capitale polacca, dove è morta la loro madre, poi nel campo di concentramento di Bergen Belsen e infine, terminata la guerra, si è trasferito nella Palestina mandataria. Ha dedicato gran parte della propria produzione letteraria ai libri per l’infanzia: storie in grado di trasmettere amore per la vita, piene di quella forza che permette di superare difficoltà all’apparenza invalicabili.

Come accade al nostro giovanissimo eroe, incontrato in carne e ossa dall’A. circa un quindicennio fa.

Il suo vero nome è Yoram Friedmann, ha circa 80 anni e vive con la famiglia in Israele dall’inizio degli anni ‘60.

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                Orlev ne ha narrato l’epopea in un’opera tradotta in diversi Paesi del mondo e giustamente premiata. A sua volta, Pepe Danquart si è ispirato al libro di Orlev per questa pellicola, piena di forza e sentimento, girata nella drammatica Polonia del periodo bellico e interpretata, nel ruolo del giovanissimo protagonista, dai gemelli tredicenni Andrzej e Kamil Tkacz -scelti tra alcune centinaia di coetanei-, supportati dalla suggestiva attrice polacca Elisabeth Duda, nella parte di Magda.

Un messaggio profondo scaturisce dal film, valido specie in occasione del 27 Gennaio, troppo spesso -non sempre, d’accordo!-  celebrato in modo ritualistico, vuoto, addirittura menzognero e fuorviante, in un’epoca, l’attuale, di inequivocabile, preoccupante aumento dell’antisemitismo in quell’Europa macchiatasi della Shoah solo 70 anni or sono e ancora oggi incapace di comprendere sul serio quanto, per sua responsabilità, è accaduto.
Come mai, oggi, ci si addolora (o si fa le mostre di addolorarsi, più comodo) per gli Ebrei morti, ma vi è, verso gli Ebrei vivi, allorquando sono colpiti, scarsa solidarietà, spesso condita con distinguo degni di un fantasioso contorsionista ? Facili i giochi di parole con tale vocabolo….
In occasione di quest’ultima Giornata della Memoria un acuto commentatore consigliava: se qualcuno vi parla di Auschwitz, chiedetegli come la pensa su Israele. Non su questo o quel governo, beninteso, ma sullo Stato di Israele, in sé, indipendentemente dai governi di differente cifra politica e valore che si sono avvicendati nei suoi 66 anni di vita. Su Israele e sul suo Popolo. Solo dopo questo utile chiarimento si potrà nominare -o no- la Shoah. Per quanto concerne la mia modesta esperienza, ne ho viste, sentite e soprattutto lette delle belle (si fa per dire….). Il guaio, poi, è che sovente queste “perle” vengono diffuse -ad opera di pessimi maestri/e, dall’aria compunta e la maschera squallida di…. belle persone-  tra i giovani, nelle scuole o presso varie istituzioni,  accolte dagli applausi di teste vuote, per lo più in concomitanza col 27 Gennaio, creando guasti difficilmente riparabili tra chi, per  inesperienza, non ha sviluppato ancora gli anticorpi della capacità critica. Non c’è affatto bisogno di tirare subito  in ballo l’Islam radicale per spiegare l’antisemitismo che prospera in Europa come non mai. Si cominci a vedere il male che è annidato dentro di noi, nelle nostre società occidentali che amano definirsi democratiche; ma che non lo sono, poiché la loro cifra è l’ipocrisia.  Dopo un serio esame di coscienza, si guardi magari all’Islam radicale, di cui tali maestri/e sono utili  alleati/e; utili e soprattutto stupidi, nonostante la loro superbia, ostentata senza pudore.

Jurek non ha dimenticato Srulik, non ha dimenticato di essere ebreo.

E’ certo legato ai Kowalsky e, in particolare, alla ragazzina bionda divenuta sua compagna di giochi. Ma, quando incontra il membro di un’organizzazione sionista incaricato di trovare gli orfani per condurli in Terra d’Israele dove si sta costruendo lo Stato degli Ebrei, dopo qualche dolorosa incertezza e una commossa visita al villaggio dov’è nato e in cui è vissuto felice nei primi anni con la famiglia, i suoi dubbi si sciolgono.

La sua vera Patria, la sua salvezza si chiama Eretz Yisrael. Lontano dall’odio.

Il regista sottolinea questo importante passaggio chiamando come voce in conclusione il vero Yoram Friedman: ora un anziano signore inquadrato sereno sulla spiaggia di Tel Aviv, accanto alla moglie Sonia -“L’ho amata  fin dal primo istante” afferma sicuro- e ad una vasta compagnia di figli e nipoti.

La Vita vince sulla Morte.

               Il nostro Continente sarà in grado di recuperare, almeno in parte, la perduta dignità?

 Ecco il trailer