(Titolo originale Hitganvut yehidim, Am Oved, Tel Aviv, 1986)

 
Traduzione di Shulim Vogelmann e Rosanella Volponi, Ed. Giuntina, collana Israeliana, Novembre 2013, pp. 766, €.19,00
“…ma invece del fragore del sangue che s’infrange contro una parete vuota, che lotta per aprirsi un varco, udii una voce sottile di silenzio, nella quale forse sbocciano lentamente fiori rossi, tiepidi, umidi che si aprono lentamente nelle oscure profondità del cuore. Mi voltai e vidi Nachum, il ragazzo religioso, in piedi, di fronte a me, col suo perenne sorriso di felicità e di meraviglia che gl’illuminava il volto”         “La vita non è un kibbutz
Un microcosmo inconsueto ci presenta il grande Autore israeliano, Yehoshua Kenaz [1]con Non temere e non sperare, solido romanzo uscito in Patria nell’ormai lontano 1986, pubblicato da noi a novembre 2013 grazie a Giuntina, collana Israeliana, e al meritorio impegno dei traduttori Shulim Vogelmann e Rosanella Volponi.
Ambientato nel 1955 -sette anni dopo la (ri)costituzione dello Stato di Israele- l’opera ci racconta le vicende di un gruppo particolare di giovani militari durante il periodo di addestramento: particolare perché si tratta di ragazzi affetti da lievi problemi, per lo più fisici, non destinati perciò a diventare combattenti effettivi.
Meno noto al pubblico italiano rispetto ad altri Autori per il carattere schivo ed ironico tipico di chi non si prende troppo sul serio, Kenaz ci accompagna nel lungo cammino di crescita dei suoi protagonisti.
Inquadrati in una sorta di battaglione speciale, situato alla “Base di Addestramento 4”, essi, pur sottoposti ad esercitazioni meno impegnative rispetto alle comuni reclute, debbono tuttavia cimentarsi con le fatiche, i disagi, le umiliazioni imposte dalla vita militare, per divenire, a loro volta, uomini; attraverso l’acquisizione del bagaglio di cinismo e disillusione che ciò comporta.
Il piccolo / immenso universo kenaziano è, ancora una volta, rappresentato da un variegatissimo mosaico di personaggi, ciascuno con la propria storia.
Ci sono i Sabra, cioè coloro che sono nati in Terra d’Israele, e gl’immigrati di fresca data a Tel Aviv o Gerusalemme; i Sefarditi di umili origini squadrati dall’alto in basso dagli Ashkenaziti, convinti di aver in monopolio il titolo di Padri Fondatori; i sopravvissuti alla Shoah, osservati con una certa diffidenza: siamo diversi anni prima del processo Eichmann, il drammatico momento in cui i sopravvissuti all’Indicibile e gli Ebrei nati e cresciuti in Eretz Yisrael, forti e abbronzati, si guardarono, forse per la prima volta davvero, negli occhi.
Gl’istruiti e gl’ignoranti; tutti inseriti in quel formidabile amalgama rappresentato, fin dalla nascita dello Stato, dalle Forze Armate.
Ognuno di loro è riluttante a diventare un tutt’uno con gli altri; ma, nello stesso tempo, forte è il desiderio di esserlo.
Vediamone alcuni.
Melabbes. Sabra, ashkenazita solitario, trae il suo nome dal villaggio arabo accanto al quale sorse, nel 1878 ad opera di un gruppo di pionieri religiosi, Petah Tiqwa (“Soglia verso la Speranza”), città natale di Kenaz. È una delle voci narranti del romanzo e alter ego dell’Autore.
Stringe amicizia con Avner, sefardita, proveniente da un’umile famiglia. Avner ha una ferrea logica tutta personale che gli consente di andare avanti ed affrontare le difficoltà quotidiane.
E’ il grande seduttore, quello “disponibile ad ogni piacere che la vita può offrirmi, e anche a quelle cose che bisogna prendere con la forza”. Delle conseguenze sugli altri del suo agire pare non importargli nulla.
Miller è un sopravvissuto alla Shoah, tenuto a distanza dagli altri, che parla un ebraico stentato ed è soggetto a crisi epilettiche. Rappresenta il mondo misterioso di coloro che “vengono dai campi”.
Rachamin è il marocchino sempre fuori posto, accusato dai compagni, neppure troppo velatamente, di essere omosessuale; mentre Zero Zero è il rumeno dai mille guai, il quale diventerà padre di un bambino che vorrà crescere come un autentico sabra, combattivo e sicuro di sé.
C’è poi Yossi l’artista, il quale non vuole essere come gli altri, perché non intende omologarsi a nessuno. “Non so se io valgo molto come musicista, ma anche se non potrò essere un famoso esecutore…allora sarò almeno un pianista in un caffè. Non cederò. Fino a quando non avrò successo”.
Micki Spector era un calciatore professionista di una certa fama, che ha dovuto interrompere la sua carriera da quando i medici gli hanno riscontrato un “soffio al cuore”. E’ un immaturo, incapace di affrontare l’esistenza e..le donne. Interminabili sono le discussioni che intavola col collega Alon; i due sono agli antipodi, quanto a carattere e concezione di vita.
Alon: generoso e convinto assertore dei valori sionisti, a mio avviso è la figura più affascinante del romanzo. Figlio di un combattente caduto nella Guerra del 1948, è il ragazzo del kibbutz -dove ha lasciato una ragazza, Dafna, alla quale è legato da sempre-, con un profondo amore per la propria terra, appassionato di archeologia, perché essa testimonia il rapporto inscindibile tra Ebrei e Terra di Israele. Alla base della sua vita c’è un alto ideale, parla ai compagni con toni profetici: “Cosa è stato creato qui finora non è lo Stato. E’ solo l’inizio. E ci saranno altre guerre…Forse ci vorranno un centinaio di anni, non so quanto” e insiste “Qui si sta creando qualcosa di più grande ed importante di quanto possiate immaginare”.
Non tutti lo capiscono, anzi. Ad esempio Porcospino (chiamato così per via del taglio dei capelli) vagheggia, in modo più prosaico, uno Stato “normale”. Un po’ come Arik, il disincantato, in generale, ma soprattutto riguardo all’etica militare.
Essi sognano scenari di guerra, immaginano scontri tra intrepidi e risoluti soldati israeliani, da una parte, e fedayn arabi i quali, passando furtivi tra gli aranceti, si infiltrano nei paesi allo scopo di scagliare granate contro gli autobus o assassinare persone, magari dirette a un matrimonio (nihil sub sole novi…), dall’altra. E non mancano vivaci scambi di vedute, tipici di un contesto in formazione, specie a proposito delle battaglie del 1948 -come quella, celebre, di Latrun-, dove ragazzi, spesso freschi immigrati dall’Europa, sopravvissuti ai campi di sterminio, cadevano per una Patria che non facevano in tempo a conoscere e della quale non erano riusciti ad imparare la lingua. “Li hanno tirati fuori dalla nave e li hanno spediti subito in quella terribile battaglia. La maggior parte di loro non erano israeliani secondo i nostri criteri”, osserva Alon durante una discussione con gli altri.
Dai superiori è spesso loro ricordato che essi sono una sorta di “colonia estiva”, non certo dei veri soldati. Questi ultimi sono addestrati in un modo che “..voi nemmeno vi sognate”, “vengono inviati in missione e versano il sangue per il Paese”. Come ben diverse dalla loro piccola oasi protetta sono le ma’abarot, cioè i campi di transito, in quegli anni ancora presenti, con i disagi e le sofferenze che essi comportavano per famiglie, vecchi, bambini…persone che già avevano tanto sofferto.
Ma pure i nostri soldati debbono imparare l’uguaglianza di trattamento e il valore dell’essere comunità, anche a costo di punizioni e duri sacrifici.
“Siamo soldati, dopo tutto, soldati, malgrado tutto”, afferma Melabbes.
Significativo il titolo scelto per la versione italiana del romanzo: Non temere [vendette] e non sperare [in favoritismi] è ciò che rammenta un superiore ad una recluta da lui conosciuta anni prima in una diversa circostanza. Scelta felice, questa di Giuntina, rispetto ad una traduzione alla lettera dell’originale ebraico: Hitganvut yehidim significa infatti Infiltrazione individuale (o dei singoli) -deriva dal nome di una delle quattro parti formanti l’opera- e sarebbe apparso stravagante al pubblico, ignaro dei contenuti del racconto.
L’A., pur rappresentando i cambiamenti che intervengono nella personalità dei protagonisti in chiave di costruzione dell’identità nazionale, tuttavia, nel suo linguaggio lieve e pieno e di condivisione, lascia da parte il racconto “ideologico” per privilegiare l’io più profondo di ciascuno, dove talvolta emergono quadri familiari d’intensa poesia o ricordi lontani dei tempi di scuola, venati di rimpianto.
Non temere e non sperare non è un romanzo facile -conoscete, d’altronde, romanzi seri che siano “facili” e privi di problemi?- . Dev’essere affrontato con calma, prendendosi tutto il tempo necessario, non va “letto d’un fiato” , anche se talvolta se ne può essere tentati, in barba alla rispettabile…. mole. Saprà, alla distanza, ripagare l’impegno del lettore per le raffinate analisi psicologiche, le sfumature, la spontaneità dei personaggi resa da Kenaz in modo impareggiabile. E’ uno spaccato, sia pure da un punto di vista singolare, sulla crescita di una Nazione.
Incantevoli sono i sogni della natura, autentico stato d’animo: “….E dopo…sarebbero arrivate le clementine e le arance nuove, e allora da ogni graffio sulla loro buccia ancora verde sarebbero stillate gocce di un alcol bruciante e inebriante, come nuovi inizi e nuove promesse”.
Di forte drammaticità le pagine dedicate all’universo lontano, spesso incomprensibile, di coloro che “vengono dai campi”, silenziosi sulla loro esperienza, talora adusi a mostrare un volto normale in grado di nascondere una realtà tragica ben diversa. Come il racconto di Alon riguardo ad una donna che stava nel suo kibbutz, sopravvissuta alla Shoah:un ritratto di una tale drammatica intensità da lasciarti col cuore in tumulto. Lo leggi, lo rileggi e ti accorgi che sai ben poco di “loro”.
Indimenticabile.


[1] Sulla figura e le tematiche di Yehoshua Kenaz v. i miei commenti a: Paesaggio con tre alberi (Ed. Nottetempo, Febbraio 2009); Ripristinando antichi amori (Ed. Giuntina, Febbraio 2010); Appartamento con ingresso nel cortile e altre storie (Ed. Giuntina, Settembre 2011), su questo sito: rispettivamente a Maggio 2009; Marzo 2010; Ottobre 2011.