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(Titolo originale Elle s’appelait Sarah;  Francia, 2010;   Genere: Drammatico)

“Edouard Tézac strinse il volante con tanta forza che le nocche delle mani sbiancarono. Le fissai, ipnotizzata. ‘Sento ancora quell’urlo’ sussurrò. ‘Non lo dimenticherò mai più’ ”
“E non c’è  un’immagine….” “Marc, non sono stati i Tedeschi, ma  i Francesi”
Parigi, 16 luglio 1942, durante l’occupazione tedesca della Francia. Sarah Starzynsky, una bambina ebrea di dieci anni, sta giocando con il fratellino Michel quando, all’improvviso, sente bussare con energia alla porta; lì per lì pensa che sia il padre, salito dal suo nascondiglio in cantina.
I colpi si fanno più decisi e, dall’esterno, giungono voci minacciose: “Polizia! Aprite! Subito!” Fuori è ancora buio. Ripensa con paura alle frasi, cariche di ansia e preoccupazione; scambiate pochi giorni prima tra i genitori a bassa voce, nella lingua del Paese d’origine, convinti che la figlia stia dormendo.
Nonostante le suppliche della madre Rywka e i tentativi operati dalla piccola per depistare gli agenti, entrambe vengono portate -insieme al padre, Wladyslaw, ricomparso poco dopo- in Rue Nélaton al cosiddetto Vélodrome d’Hiver parigino, una sorta di palazzo dello sport adibito a gare di ciclismo.
Si trattò dell’operazione più vergognosa compiuta dalla Francia collaborazionista. Nella Rafle du Vél’d’Hiv, così chiamata oggi in francese, in una sola notte furono catturati e rinchiusi in quel luogo -in condizioni disumane- circa 13.000 Ebrei, per lo più apolidi: 3031 uomini, 5802 donne e 4051 bambini (quasi tutti nati in Francia). Tutto era stato predisposto in modo meticoloso dal prefetto di polizia, René Bosquet, responsabile dei 4500 poliziotti che realizzarono il piano: gli elenchi delle famiglie, gl’indirizzi, le abitudini; nemmeno gli Ebrei ricoverati in ospedale sfuggirono alla caccia, alla Opération vent printanier, Operazione vento di primavera, così denominata dal famigerato Bosquet.
La situazione era spaventosa, con un caldo soffocante, senza cibo, né acqua, senza l’osservanza delle più elementari norme igieniche. Qualcuno (in pochissimi) riuscì a fuggire; diversi si suicidarono. Tutti gli altri restarono in quel luogo circa una settimana, indi furono portati nei campi di Dracy, Pithivier, Beaune la Rolande: le famiglie furono divise usando inaudita violenza contro di loro, le madri separate dai figli, spesso a bastonate. Quei campi erano la penultima tappa prima di Auschwitz.
Fu un Crimine avvenuto sotto gli occhi della popolazione, per lo più indifferente, dunque complice silenziosa, ma spesso attiva collaboratrice.
Tale Orrore, negli anni successivi, fu puramente e semplicemente espunto dalla coscienza della Nazione, nessuno ne parlava. Il Vélodrome d’Hiver fu abbattuto nel 1959 e, al suo posto, sorse un nuovo quartiere (accelerando così il processo di rimozione). Ma nel luglio 1995 (cinquantatreesimo anniversario), il Presidente Jacques Chirac, con un vibrante discorso rivolto ai Francesi (e, idealmente, al mondo), riconobbe le responsabilità del suo Paese in ciò che era stato commesso. In particolare: “ ……..quelle ore sono una ingiuria al nostro passato e alle nostre tradizioni. Sì, la follia criminale dell’occupante è stata assecondata dai Francesi, dallo Stato francese…..La Francia, Patria dei Lumi e dei Diritti dell’Uomo, terra di asilo e di accoglienza, la Francia, quel giorno, compì l’irreparabile. Mancando al suo impegno, ella consegnava coloro che proteggeva ai carnefici”.
Grazie alla Casa distributrice Lucky Red esce in questi giorni nelle sale italiane il film La chiave di Sarah, pellicola del 2010, diretta dal giovane regista francese Gilles Paquet-Brenner, ispirato fedelmente all’omonimo, affascinante romanzo, scritto nel 2006 da Tatiana de Rosnay sulla tragedia del Vel d’Hiv [1], opera divenuta un best seller.
Come il libro, anche il film si svolge su due piani temporali diversi, ma collegati intimamente tra loro.
Siamo nel 2009 (il racconto nella pellicola è posticipato di circa sette anni rispetto al romanzo).
Julia Jarmond è una giornalista, nata a New York, di 45 anni che vive da tempo a Parigi.
Sposata con un talentuoso architetto, Bertrand Tézac, ha un rapporto cordiale con la nonna del marito, per tutti Mamé, un’anziana signora molto perspicace che vive in un confortevole pensionato; mentre il resto della famiglia non ha rinunciato a chiamarla, dopo ben 25 anni, l’américaine, espressione dello snobismo di chi non accetta la presenza di persone ritenute, ad insindacabile giudizio, degli…estranei.
Tuttavia, col passare dei mesi e mentre sarà via via coinvolta in una vicenda incredibile, Julia scoprirà che il suocero Edouard non è affatto il borghese altezzoso e freddo che ella aveva ritenuto fino ad allora.
La coppia ha una figlia undicenne, Zoe, simpatica ed impertinente, nata dopo anni di cure ginecologiche e gravidanze non andate a buon fine. Tuttavia Julia desidera con forza un altro figlio, mentre Bertrand è fermamente contrario: troppi sacrifici, troppa fatica, troppo rischio. Mi ci vedi nel ruolo del padre anziano, alle prese con pannolini e altro? Ma andiamo….E poi….non ti rendi conto, cara, che non hai più l’età? Ma lei non si dà per vinta.
Un giorno Julia viene incaricata dal direttore del suo giornale di scrivere un articolo sulla Rafle du Vél’d’Hiv dopo che una donna, figlia di una deportata, ha vinto la causa contro lo Stato francese, colpevole di aver operato in prima persona quelle deportazioni durante il periodo dell’occupazione tedesca. Ben presto la giornalista scopre che vi sono aspetti della sua vita privata che la legano, in modo sorprendente, a Sarah, tanto da iniziare un viaggio non solo alla ricerca della sorte della piccola ebrea e dei suoi congiunti, ma anche alla scoperta di se stessa.
E quell’appartamento, situato nel Marais, in Rue de Saintonge, abitato dai nonni di Bertrand a far tempo dall’agosto 1942 e che egli sta ora ristrutturando per loro tre, la turba profondamente. E comprenderà la ragione di tale turbamento.
La vita di Sarah emerge pian piano dalle ricerche di Julia. Strappata alla madre -i genitori saranno uccisi non appena arrivati ad Auschwitz-, riesce a fuggire dal campo di raccolta di Beaune la Rolande grazie alla riscoperta umanità di un poliziotto, Jacques; dopo una disperata fuga nei boschi è nascosta da una coppia di maturi agricoltori, Geneviève e Jules Dufaure, i quali l’accolgono dopo un iniziale rifiuto; tant’è che la prima notte di libertà la ragazzina la trascorre nel fienile accanto al cane di casa, la prima creatura che le dimostra affetto.
Sarah diviene la loro figlia adottiva, amata pure dai “fratelli” maggiori, ma non ritrova mai la pace perché è dovuta crescere troppo in fretta ed ha vissuto esperienze sconvolgenti.
E soprattutto, c’è il suo SEGRETO: la CHIAVE, quella chiave, iniziale simbolo di vita e di speranza di normalità, divenuta strumento di morte, la morte orribile di una persona amatissima, di cui ella sente il peso, la piena responsabilità.
Divenuta una bellissima ragazza, Sarah, dopo circa dieci anni, lascia i Dufaure e si reca negli USA -lontana da quell’Europa colpevole dello Sterminio- dove incontrerà e sposerà un giovane, Richard Rainsferd, dal quale avrà un figlio, William. La nuova famiglia nulla saprà del suo passato, perché occultato e schiacciato dal senso di colpa di lei. Un passato sempre lì, come la Chiave dalla quale non può separarsi, che tormenta la sua vita, fino alle estreme conseguenze.
In un taccuino ella scrive: “La vita mi è insopportabile. Guardo la chiave e provo una disperata nostalgia….del passato. Ora so che le mie ferite non guariranno mai. Spero che mio figlio mi perdoni. Lui non saprà mai. Nessuno saprà mai. Zakhor. Al Tichkah. Ricorda. Non dimenticare”.
Il film di Gilles Paquet-Brenner è stupendo. In primo luogo perché racconta una vicenda i cui protagonisti sono sì frutto della fantasia, ma, come sottolinea anche de Rosnay in apertura del romanzo, non lo sono affatto molti degli avvenimenti raccontati, avvenuti nel cuore di una grande città, Parigi, sotto gli occhi di tutti. E racconta senza remore la partecipazione attiva dei collaborazionisti francesi. Sappiamo che la Shoah non sarebbe stata possibile, nelle sue dimensioni, senza la collaborazione con i nazisti di tanti “volonterosi carnefici”; intere classi dirigenti (in primo luogo in Francia, ove pare che il film sia stato aspramente criticato) e  persone comuni, pronte a denunciare un ebreo per un chilo (o anche meno!) di sale. Ciò è valso pure in Italia. Non stupiscono quindi, pur suscitando orrore e sgomento, i commenti antisemiti sul trailer della pellicola -che non riporto per decenza- dei quali dà notizia l’ANSA, come riferito dalla Rivista on line www.informazionecorretta.com; oltre a certe recensioni freddine e di maniera. D’altronde è innegabile che, negli ultimi anni  e pure nel nostro Paese, l’antisemitismo -nelle sue diverse forme, comprese le più incredibili e..fantasiose- abbia (ri) guadagnato terreno, complice, va da sé, la grave crisi economico/finanziaria mondiale. E’ una costante nella Storia; e gli Ebrei ne sono consapevoli. Con l’approssimarsi, poi, della Giornata della Memoria (27 Gennaio) tale nefasto filone si irrobustisce suscitando la motivata preoccupazione di esponenti della Comunità Ebraica locale e nazionale, come, ad esempio, Claudia Debenedetti, Amos Luzzatto, Riccardo Pacifici.
Per tornare alla nostra opera, essa, con notevole capacità espressiva e senza indulgere in scene, per così dire, a effetto -e sì che di materia ce ne sarebbe stata, dato il tema e la vicenda degli Starzynsky!- riporta gli stati d’animo di queste persone innocenti, strappati alla vita quotidiana da un istante all’altro: non si dimentica lo sguardo disperato di mamma Rywka che tuttavia cerca di sorridere tra le lacrime e di confortare la sua Sarah. Le testimonianze dei pochi ragazzi sopravvissuti riportano quei momenti.
La pellicola si avvale di un cast di attori di primordine. Vediamo i principali.
La figura di Sarah bambina è incarnata dalla dodicenne Mélusine Mayance: capelli biondi, grandi occhi azzurri che esprimono tutta la speranza e il dolore del mondo. Coraggio e paura, forza e fragilità.
Sarah adulta, silenziosa e lontana, è la giovane Charlotte Poutrel: nel leggere quegli appunti carichi di dolore non puoi fare a meno di inquadrare il suo volto.
Kristin Scott Thomas è una Julia sensibilissima e forte, decisa ad andare fino in fondo, nella ricerca su Sarah e nella propria scelta di vita, contro il “buon senso” e a costo di rinunciare al marito e alla “rispettabilità” francese. Una scelta controcorrente la sua: rimasta incinta e invitata da Bertrand ad abortire, non rinuncia per nulla al mondo alla sua creatura. La ritroviamo qualche tempo dopo, di nuovo a New York, con Zoe e la bambina nuova in un incontro commosso col figlio di Sarah, William (un intenso Aidan Quinn), il quale finalmente -dopo un doloroso travaglio interiore- conosce tutta la verità sulla Mamma.

La Mamma della quale la piccola di Julia porta il nome, Sarah. La Vita vincitrice sulla Morte.

P.S. Se, nel visionare i trailers,   siete   tentati di ascoltare la videorecensione ad opera di certo Onesto & Spietato, vi ritroverete davanti ad un notevole concentrato di banalità, sciocchezze e falsità; tra l’altro, definisce “articolino” il servizio che Julia scrive con impegno e sacrificio e  ritiene ormai inutile la programmazione di film sulla Shoah: mi domando dove viva questo signore….Dunque   non: Onesto & Spietato, bensì: Disonesto &Falso & Banale. Lasciamolo alla mediocrità dei…cinepanettoni.


[1] De ROSNAY Tatiana, La chiave di Sarah, 2006, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, pp.319.