[Segue 26 Aprile]
Usciamo dal lato nord della Spianata, l’unico non circondato da valli.
Passiamo davanti ad alcune scuole coraniche  dove ragazzini sono intenti a giocare tra una lezione e l’altra.
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Sempre all’interno del Quartiere musulmano, giungiamo in breve ad una zona di forte interesse storico/archeologico e rilevante per la tradizione cristiana, già visitata nel 2009. La Piscina probatica (dal greco probatiké, delle pecore, dall’omonima porta che si apriva nelle mura della Città Vecchia) di Bethesda (dall’aramaico: Bet-hesdà, Casa della Misericordia) era il risultato dell’unione di due bacini affiancati di forma trapezoidale, le cui acque giungevano da nord per rifluire nell’area del Tempio, dov’erano utilizzate a scopi rituali. Questa grande cisterna doppia (m. 120X60 con una massima profondità di m. 20), impiegata probabilmente per lavare gli animali destinati ai sacrifici, subì diverse trasformazioni -come del resto, lo sappiamo, tutta la città- ad opera di Erode, il quale, tra l’altro, tanto per restare in campo idraulico, costruì un acquedotto che da Hevron giungeva a Gerusalemme.
Ricordiamo, per render l’idea, che la città distrutta nel 70 e.v. da Tito era il doppio della Gerusalemme di epoca turca.
L’Imperatore Adriano fece erigere qui un tempio a Esculapio, dio della medicina (sono ancora visibili, nelle grotte scavate intorno alla piscina, tracce di pitture e mosaici); in epoca cristiana al posto del tempio sorse una grande basilica dedicata alla Madonna. Poiché sono state rinvenute croci che ne ornavano il pavimento, la costruzione di detta basilica è senz’altro databile a prima del 427, anno in cui l’Imperatore Teodosio, con la sua riforma, per evitare che le croci poste sui pavimenti delle chiese fossero giocoforza calpestate, ne proibì la raffigurazione.
L’edificio fu distrutto dai Persiani nel settimo secolo, poi ricostruito, in dimensioni ridotte, dai Crociati; anche di tale fase sono visibili i resti.
La vista della piscina ci induce a rileggere l’episodio narrato dal Vangelo di Giovanni al capitolo 5: la guarigione, da parte di Gesù, dell’uomo paralitico da trentotto anni, avvenuta, peraltro, nel giorno di sabato; il che suscitò, contro lo stesso Gesù, l’ostilità dei rigidi custodi dell’ortodossia ebraica.
Qui accanto, stando al Protovangelo di Giacomo, sorgeva la casa dei genitori di Maria, Anna e Gioacchino, ed è proprio in onore di S. Anna che i Crociati edificarono nel 1140 una chiesa che è ritenuta, e con ragione, la più bella di Gerusalemme. L’esterno ha forme imponenti: la facciata si caratterizza per un interessante portale che riutilizza un arco romano istoriato; sul timpano un’iscrizione araba ricorda la sua trasformazione in scuola coranica (madrasa) ai tempi di Saladino (1192). Per secoli la Chiesa fu soggetta ad un’inarrestabile -e purtroppo prevedibile- decadenza, tanto da essere a lungo piena di immondizie (….); finché i Turchi la regalarono alla Francia in segno di gratitudine per l’aiuto avuto da questa in occasione della Guerra di Crimea (1856). S. Anna fu affidata all’ordine dei Padri Bianchi ed pian piano è ritornata agli antichi splendori.
L’interno, pur maestoso, ha un che di intimo e raccolto.
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Se osserviamo la finestra centrale nella cupola vediamo che essa non è ..”in asse”, poiché rappresenta la testa reclinata di Cristo.
La Chiesa S. Anna è famosa per l’ottima acustica, tanto da invitare i numerosi pellegrini -come quelli che anche noi incontriamo oggi- ad intonare i loro canti.
La cripta, non visitabile se non a richiesta, è costituita da antiche grotte, nelle quali una tradizione crociata ritiene vi fosse la casa di Anna e Gioacchino.
Una breve pausa nello stupendo giardino che circonda la Chiesa.                                                                           DSC01600

Due simpaticissime compagne di viaggio sono la giovane Anastasia, studentessa universitaria piena di entusiasmo, e la zia, Nelly. Quest’ultima mi ricorda l’adolescenza perché ha una spiccata somiglianza con una cantante di moda in quegli anni, Betty Curtis.
Betty, pardon Nelly, cerca di frenare la raffica di domande che, sui più svariati argomenti di carattere “accademico”, Anastasia rivolge a Mauro, dopo che ha saputo che è un…Professore.
Io la tranquillizzo, ma lei rimprovera la ragazza un po’ sul serio un po’ per scherzo, trattandola quasi come una bambina: “Lascia in pace …il Professore!” Mi metto a ridere ogni volta.
A proposito di…anni giovanili….
Siamo in un luogo emblematico: la Porta dei Leoni!
Entrata est alla Città Vecchia, in forte pendenza.
Ecco la targa commemorativa.
Da qui, il 7 giugno 1967, entrarono i paracadutisti israeliani, guidati dal leggendario Mordechai (Mota) Gur, incontrando resistenza da parte della legione Giordana, pur non irresistibile.                                                                                      GUR MORDECHAI

Il comandante Gur comunica ai superiori via radio, con una certa emozione: “Siamo molto vicini….Saremo i primi a entrare, quello che per generazioni il popolo ebraico ha sognato sta per avvenire…”  La quasi bimillenaria dispersione, la cacciata degli abitanti dal quartiere ebraico nel 1948, la proibizione per gli Ebrei di recarsi al Kotel a pregare durante gli anni (19) dell’occupazione giordana, il rimpianto per la Capitale perduta, tutto ciò stava per finire perché, ecco l’urlo:
HAR HABAIT BEIADENUH!” (Il Monte del Tempio è nelle nostre mani!).
Un urlo udito da tutte le radio di tutti i mezzi corazzati, di tutti i veicoli. Un boato.
Ricordo benissimo la profonda emozione di quel momento (non è necessario essere ebrei per provare certi sentimenti), contrastante con l’indifferenza psicologica -studiata-, mista a preoccupazione un tantino…ipocritella, di certi miei amici e compagni d’università, progressisti e amanti della libertà “a comando”. Credo proprio che, come ho detto e scritto tante volte, il mio grande amore per Israele sia stato suggellato da quel grido di gioia e di libertà: Har Habait beiadenuh.
Intensa commozione nell’immagine dei tre militari in primo piano, i quali, davanti alle pietre della loro storia, guardano verso il cielo: la foto arcinota, ma che mi scuote nel profondo ogni volta che l’ho davanti agli occhi.
Quello bruno coi baffi, alla destra di chi guarda, appoggia il braccio attorno alle spalle del biondino estasiato in mezzo, mentre il terzo guarda in avanti quasi a trattenere l’emozione e sembra non crederci.
Dietro, altri fanno da corona….[1] . La fotografia fu scattata da David Rubinger pochi minuti dopo la riconquista. Rubinger (Vienna, 1924, emigrato in Palestina nel 1939) avrebbe fotografato tutte le guerre combattute da Israele nel XX secolo. A proposito di quell’immagine, egli confessa che lo scatto fu del tutto casuale; il reporter proveniva dal Sinai e, appena vide i tre, si sdraiò a terra alla ricerca di un’insolita prospettiva. Quella foto è divenuta un simbolo e il suo autore ne va tuttora molto fiero.
 PARATROOPERS
Arriva ben presto Ben Gurion, ritratto con uno strano berretto a mo’ di kippah e gli occhi all’insù.
C’è il Gran Rabbino di Tzahal, Shlomo Goren: riecheggia il suono dello shofar.
Finalmente, dopo circa 2000 anni, Gerusalemme era interamente nelle mani degli Ebrei, riunita capitale, pronta a rinascere a vita nuova, pur in mezzo a innumerevoli sacrifici e dolori. Gerusalemme è l’anima di Israele.
Ecco quanto scrive un illustre testimone: “Giorno indimenticabile. La guerra continuava nel Sinai e non era ancora iniziata nel Golan, ma la liberazione di Gerusalemme appassionò e accese gli animi….Si misero a piangere soldati e ufficiali. Si piangeva ovunque in Terrasanta….gli Ebrei, a migliaia, correvano verso la città vecchia….Rabbini e mercanti, studenti talmudisti e agricoltori….tutti lasciarono il lavoro e si misero a correre..ognuno…voleva trovarsi davanti al Muro, baciarne le pietre, urlargli preghiere e richieste dimenticate o vive…..Allora ho corso anch’io…..Quel giorno…ho potuto cogliere il vero significato di Ahavat Israel [Amore per Israele]”. E prosegue: “Un vecchio, che sembrava uscito da un romanzo che non avevo ancora scritto, mormorava tra sé: ‘Sai come siamo riusciti a battere il nemico? Sei milioni di anime ebree hanno pregato per noi’. Gli toccai il braccio: ‘Chi sei?’ Posò su di me uno sguardo rassicurante: ‘Sono colui che prega’ “[2] .
Tra i tanti accorsi al Kotel, c’è un padre di famiglia col suo bambino. Il piccolo, sette anni, è talmente colpito dall’accaduto e, in primo luogo, da quegli uomini in uniforme, forti e commossi, da decidere senza esitazione: “Da grande farò il paracadutista!” Giunto all’età buona, manterrà la promessa; nella vita civile, poi, diventerà un abile imprenditore nel settore informatico dei software antivirus.
Il suo nome è Nir Barkat, attuale dinamico Sindaco di Gerusalemme, legatissimo alla sua città.
Una vittoria schiacciante -sin da subito criticata (o peggio) dai maldipancisti ostili di varia risma- che comportò per Israele, oltre al recupero della propria capitale (trasformata negli anni successivi in una metropoli moderna, in grado di valorizzare i tesori in essa contenuti, aperta a tutte le genti), anche -sia pure in linea di principio- una certa posizione di forza da cui discutere la pace con i Paesi e i popoli vicini.
Grazie anche a tale vittoria, ottenuta tra l’altro in una guerra di difesa per la vita e per la morte, la popolazione israeliana (ebraica e non) è cresciuta dai circa 2 milioni e mezzo di abitanti del 1967, a circa 8 milioni di oggi; mentre il prodotto nazionale lordo si è incrementato del 630%.
Altrettanto non può dirsi dei Palestinesi i quali, a causa dell’estremismo della loro leadership, volto sempre al rifiuto -estremismo che vanta radici assai lontane e non è certo dovuto alla c.d. “occupazione” dei “Territori”-, non hanno saputo e voluto approfittare dell’opportunità data dalla vittoria israeliana: se in quelle terre fosse continuata l’occupazione egiziana e giordana, non si sarebbe nemmeno potuto pensarlo, uno Stato Palestinese!
Purtroppo tale estremismo ha costituito, e costituisce, la causa principale della mancata soluzione del problema (e ciò senza negare errori commessi da Israele, come qualunque altro Stato al mondo), unitamente alla posizione dell’Europa, la quale, a tacer d’altro, con la Dichiarazione di Venezia dell’estate 1980, conferì legittimità internazionale all’OLP di Yasser Arafat, la quale non ha mai cancellato dal suo Statuto il programma di eliminare Israele, “liberando” così la Palestina dalla presenza ebraica.
Da tale situazione difficile derivano i problemi gravi sotto gli occhi di tutti; problemi complessi, è chiaro, ma per i quali si continuano a divisare, come afferma lo stesso Barkat in una intervista apparsa tempo fa, mutuando, com’egli fa spesso, le sue immagini dal mondo dell’elettronica, “soluzioni semplici sbagliate”.
Ma torniamo al 7 giugno 1967.
Poco dopo l’arrivo dei paracadutisti al Kotel, giungono nella Città, sempre attraverso la porta dei Leoni: il Ministro della Difesa d’Israele Moshe Dayan, il Capo di Stato Maggiore Itzhak Rabin e il generale Uzi Narkiss.
Dayan aveva uno spiccato gusto per lo spettacolo, contrariamente al riservato Rabin: chiamò prontamente fotografi e giornalisti e i tre fecero il trionfale ingresso in Gerusalemme. Fu così immortalata la (ri)presa di possesso, sotto lo sguardo, ancora stupefatto, del mondo.
 I 3 alla PORTA DEI LEONI
 Mauro ed io non resistiamo alla tentazione di farci immortalare dalla cara Daniela, anche se ovviamente nella direzione opposta -in uscita, anziché in entrata- poiché il pullman ci sta aspettando lungo le Mura.
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Rientriamo da Tzion Gate, dove Angela ricorda che, nel 1967, anche qui ci furono combattimenti (era impegnata la Brigata Gerusalemme).
Ecco, alla nostra sinistra, il Quartiere armeno; poi entriamo in quello ebraico…
-scusate, un breve saluto alla Sinagoga Hurva; anzi, basta con questo soprannome che puzza di morte e abbandono: si chiama Sinagoga Rabbi Yehuda HeChassid
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e, già che ci siamo, confrontiamo questa immagine con quella del 1948-
Quartiere ebraico Brucia HURVA in macerie
…..…per visitare il cosiddetto Quartiere Erodiano, un vero e proprio Parco archeologico (Wohl Museum of Archeology) sotto le case, organizzato all’inizio degli anni ’70, dopo che la zona fu bonificata dotandola, tra l’altro, di fognature di cui, fino ad allora, era priva.

Il quartiere comprende sei case costruite su un pendio prospiciente il Monte del Tempio, numerosi siti archeologici, resti di affreschi alle pareti, pavimenti a mosaico e una rilevante esposizione (ornamenti mobili e oggetti diversi). Il Museo ci mostra il lussuoso stile di vita condotto nel quartiere da sacerdoti, politici e funzionari durante il regno di Erode.
Ci colpisce pure la vista di parti di travi bruciate di edifici che, con il sistema del Carbonio 14, possono essere fatte risalire all’epoca di Tito.
Il pullman ci accompagna ora in una zona nel cui perimetro (allargando un po’ lo sguardo) ci sono istituzioni e luoghi uno più evocativo dell’altro: Il Giardino dell’Indipendenza (Gan Ha’atzmaut) -il locale Central Park, ma non è l’unico, sia chiaro-, Rehov Hillel con il Museo d’arte Ebraica Italiana U. Nahon e la Comunità d’origine italiana; spostandosi più a nord, la deliziosa Ticho House, già abitazione del famoso, omonimo oculista, con Museo, ristorante e caffè, dove il grande Aharon Appelfeld siede a scrivere i suoi capolavori.
Appuntamenti da rispettare in una visita, spero prossima; più “prossima che si può”, mi verrebbe da dire. Più a nord ancora, deviando un po’ a ovest, ecco il variopinto mercatodi Mahane Yehuda. Siamo in compagnia di Paola e Giancarlo, i coniugi di Mestre.
L’atteggiamento solare e positivo di Giancarlo -gli brillano gli occhi quando parla della figlia, residente, se ben ricordo, a Bologna e prossima alle nozze- e il caldo accento veneziano, talora venato di un retrogusto trepidante, di Paola. Tutti e quattro passeggiamo tranquilli, alla ricerca di un negozio di articoli per fotografie, tra queste strade e botteghe, teatro di tanti micidiali attacchi terroristici, negli anni scorsi. Provo una strana sensazione. No, non di paura o di angoscia. Osservo i volti, i gesti, le merci e mi pare impossibile che, in un attimo, intere vite siano state polverizzate o sfregiate per sempre, mentre a poche ore di aereo da qua c’era subito -a morti ancor caldi!- chi si chiedeva, in ottemperanza ad un ebete automatismo, quale mai sarebbe stata la reazione di..Sharon dopo la strage.
Ecco risaliamo sul bus.
Oggi consumiamo un pasto veloce nel centro di Mamilla, dal quale passiamo spesso, anche per recarci in Città Vecchia partendo dall’albergo [3] .
Il sole splende alto. Silvia, che spicca nel gruppo per il grande cappello di paglia a tesa larga, espone gambe e braccia al sole, viso al riparo e aria soddisfatta; mentre Piero, instancabile, corre su e giù per scale e scalette a scattar foto degli angoli meno banali: immagino metterà insieme un “servizio” originale. Non intende essere da meno di lui Chicca, la quale si dà da fare e “colpisce” senza sosta: le immagini più belle le ritroveremo sul suo blog nei mesi prossimi.
Il luogo del nostro spuntino è nientemeno che Casa Stern. Essa fu fatta costruire nel 1877 da Yehuda Stern, un facoltoso industriale immigrato dalla Germania, su un terreno acquistato dalla Chiesa ortodossa greca. Nel 1898 vi fu ospitato Theodor Herzl in occasione della sua visita a Gerusalemme per incontrare il Kaiser Guglielmo II; anzi il leader sionista fu accolto nella casa proprio perché la stanza dell’albergo che aveva prenotato era stata prontamente requisita dall’entourage dell’Imperatore.
A seguito del restauro totale del quartiere, negli anni scorsi, operato secondo il progetto di Moshe Safdie, l’edificio ha rischiato di scomparire. Dopo lunghe discussioni hanno prevalso il buonsenso e l’affetto per la propria storia. Per adattarla al nuovo paesaggio, la casa è stata demolita, indi, una volta dato alla zona il nuovo assetto, ricostruita secondo le forme originarie: a ciascuna pietra è stato attribuito un numero per facilitare detta operazione di “demolizione e fedele ricostruzione”.
Faccio un giretto all’interno, per vedere sia il piccolo Museo dedicato alla permanenza di Herzl in città, con significative fotografie ed oggetti, allestito nei locali in cui egli alloggiò per quattro giorni, sia l’esposizione della maggiore catena libraria israeliana Steimatzky (fondata nel 1925 daYechezkel Steimatzky, un immigrato dalla Germania di origine russa), che ha qui un importante punto vendita.
A proposito di Herzl rammento che a Vienna egli abitava in Berggasse n. 6, mentre al n. 19 aveva studio e casa il Prof. Sigmund Freud. Freud conosceva bene le tesi sioniste; anzi le appoggiava, come risulta da una lettera che inviò, nel settembre 1902, a Herzl (incaricato della rubrica letteraria della Neue Freie Presse) insieme al suo libro “L’interpretazione dei sogni”.
Suggestivo immaginare un incontro, magari lungo la tranquilla Berggasse, tra i due personaggi, con uno (Herzl) che confida all’altro (Freud): “Ho fatto un sogno…”, cioè lo Stato ebraico ricostituito.
Freud fu sempre a contatto con organizzazioni sioniste, così come i suoi figli, Martin ed Ernst. Quest’ultimo, architetto, si recò nel 1927 nella Palestina mandataria per costruirvi la casa di Haim Weizman. Ben presto la psicanalisi si affermò nel costruendo Stato di Israele: nel 1924 un primo psicanalista, Moshe Har-Even, si stabilì a Tel Aviv, mentre nel 1933 nacque la prima società psicanalitica della Palestina, con Max Eitingon, intimo del Maestro.
D’altra parte, quale persona meglio di Freud avrebbe potuto comprendere Herzl nelle sue “visioni”? Il Professore, infatti, una volta aveva dichiarato: “…mi convinsi ben presto che dovevo solo alla mia natura di ebreo le due qualità che mi erano diventate indispensabili nel corso della mia vita difficile. Essendo ebreo mi trovavo libero da molti di quei pregiudizi che limitano gli altri uomini nell’uso del proprio intelletto e, in quanto ebreo, mi trovavo pronto a passare all’opposizione e a rinunciare ad un accordo con la ‘maggioranza silenziosa’ “.


[1] Pagine dense di partecipazione si possono trovare in THE JERUSALEM REPORT, SHALOM, AMICO! La vita e l’eredità di Yitzhak Rabin, a cura di David Phillip Horovitz, Giuntina, Firenze, 1997, pp. 297; è una biografia del leader israeliano assassinato documentata e per nulla agiografica, e, in specie riguardo a quei momenti, vedi le pp. 59 e ss.
Il forte piglio dello storico è evidente in Michael OREN, La guerra dei Sei Giorni (originale Six Days War, 2002), Mondadori, Milano, Collana Oscar Storia, 2004, pp. 552.
[2] Elie WIESEL, Tutti i fiumi vanno al mare – Memorie, Bompiani, Milano, 1996, pp. 492 (titolo originale Tous les fleuves vont à la mer, Ed. du Seuil, 1994), cit. a p. 462. Nello stesso volume si può vedere (p. 230) una significativa foto dell’Autore, ritratto al Kotel insieme all’amico Dov (v. supra, alla Settima Puntata, nel testo).
[3] Nel Diario 2009 faccio un breve accenno sia a Mamilla che a Casa Stern.