(Titolo originale Ha-Davar Hayah Kakhah, 2009)
Trad. Elena Loewenthal, Giangiacomo Feltrinelli Editore (collana I Narratori), Milano, 2010,
pp. 230 €.16
“In parole povere…è piuttosto una storia di quelle che ci si racconta quando si è di buonumore, che ci si passa dalle prime generazioni a quelle che non hanno conosciuto nonno Aronne e nemmeno lo sweeper che il fratello di questi mandò a nonna Tonia, e ovviamente nemmeno lei”…..
“Per mia mamma, la famosa pianta circolare di Nahalal non era meno importante di tutti i luoghi santi di Gerusalemme”.
Una Nonna divisa tra le faccende domestiche e il lavoro nei campi, ossessionata dalla pulizia e un Aspirapolvere che – un giorno lontano nel tempo, ma vicino nel cuore- il cognato le ha spedito in omaggio da Los Angeles, dove è emigrato, al villaggio agricolo posto nella Valle (di Yizre’el) in cui ella risiede…..Una Nonna e un Aspirapolvere danno l’occasione a Meir Shalev, scrittore israeliano tra i più amati ed apprezzati da pubblico e critica, per donarci una storia ricca di tenerezza ed ironia, dopo Il Ragazzo e la Colomba (2006/2008), epica vicenda ambientata tra la Guerra di Indipendenza del 1948 e l’Israele di oggi.
Il racconto prende l’avvio da un esilarante episodio occorso all’Autore nella sua località natale, Nahalal, il primo moshav (villaggio agricolo cooperativo) sorto in Terra d’Israele nel 1921, del quale i suoi familiari sono stati tra i fondatori.
Il titolo del romanzo (E’ andata così) è tratto da una frase che sua Nonna Tonia, tale per parte di madre, ripeteva spesso; anzi l’espressione era, ed è, un intercalare asseverativo tipico di casa, riferito a questo o quell’evento sul quale, tra parenti, si sta discutendo.
“E’ andata così”, parte la prima raffica, cui si contrappone, l’altrui immediata, ferma risposta: “No! Non è affatto andata così”.
Lo scrittore ci racconta la storia della sua famiglia, salita dall’Impero russo in Terra Promessa alla fine del 1800, a seguito della cosiddetta Seconda Aliyah. A partire dal diciannovenne (futuro) Nonno Aronne Ben Barak, originario di Makarov in Ucraina, giunto nella Terra dei Padri nel 1899, dapprima marito di Susanna Pekker (dalla quale avrà due figli, Ittamar e Beniamino), indi, morta lei di malaria nel 1920, di Tonia, sua sorella unilaterale, dal matrimonio con la quale nasceranno cinque rampolli, alle vicissitudini di questi ultimi, dei loro coniugi e discendenti, compreso lo scrittore, nipote amatissimo dalla Nonna perché è il primo nipote ”vero”, figlio della secondogenita, la prediletta Batya.
Il personaggio chiave è Tonia, piccola di statura, ma dalla grande personalità; fanatica della pulizia, sì da suscitare i sogghigni dei compaesani, che la definiscono un tipo bislacco.
Colpisce in lei il radicamento di abitudini per così dire borghesi e cittadine, inimmaginabili, a prima vista, nell’ambiente campestre e pionieristico nel quale vive. Ad esempio quel tenere chiuse e disabitate alcune stanze della casa, in sé piccola e modesta (e i mobili coperti da “regolamentari” vecchi teli); per non parlare dell’obbligo, imposto all’eventuale ospite, di entrare nell’abitazione secondo un determinato percorso (dal retro della casa, mai dal davanti!); nonché il mancato utilizzo di certi servizi da tavola, troppo preziosi per vedere la luce, o il triste ingiallirsi, perché mai usata, della biancheria “buona” da casa o da letto. Quei vezzi, che non stento a definire autentiche manie, oggi pressoché tramontati, sono tuttavia ricordi (meglio definirli…incubi) ben presenti per chi è nell’età matura, come la sottoscritta.
E qual’era l’idea-forza alla base di simili comportamenti, all’apparenza assurdi? Il terrore di sporcare la casa, la paura di farvi entrare anche un solo granello di polvere. Dunque stanze, compreso un certo bagno, mobili, arredi e ambienti vari sotto chiave, in galera.
Tonia è un tipo deciso, diffidente oltre ogni dire -la micidiale domanda: “Porli [cioè Parli] a me?”, rivolta con accento russo ed aria torva di sfida al malcapitato interlocutore di turno, preannuncia solo guai-, con un marcato senso della proprietà -“Non mi erediterete da viva!” è un adagio, ripetuto di frequente, tutto un programma!-, pronta a mettere in secondo piano lo studio delle figlie, le quali, anzitutto, debbono aiutarla nelle pulizie domestiche, anche a costo di sacrificare le ore di scuola. E guai a disobbedire: “Ti faccio a pezzi!” è la minaccia che incombe su chi tenta di sottrarsi.
Tuttavia è capace di slanci di tenerezza, dimostra una certa condiscendenza nei confronti del marito, negato per il pesante lavoro dei campi e più propenso ad attività speculative, e sa mostrare doti che immaginavi nascoste: come la preparazione di una certa torta alle prugne (e squisita marmellata) o del suo impareggiabile formaggio, assai apprezzato pure dai militari britannici durante il periodo mandatario.
Ella esprime talora una certa spregiudicatezza nell’abbigliamento, come la consuetudine d’indossare d’estate, per lavorare nei campi, la canottiera grigia del marito! E una sorprendente larghezza di vedute sia in merito ai cibi -alcuni dei quali, come i gelati, oggetto di critiche da parte degli altri familiari, quali simbolo di mollezza borghese-, sia per quanto concerne i rapporti tra i due sessi, come lo stesso nipote narrante potrà, divenuto giovane uomo, attestare con vivo compiacimento!
Che dire poi della sua capacità, degna di un antropologo culturale, di analizzare la differenza tra kibbutz e moshav, con conseguente, esaustiva spiegazione di quanto sia preferibile, a suo giudizio, vivere nel secondo, in quanto centrato sulla famiglia, sulla libertà e la riservatezza, anziché nel primo?
Punto cruciale della nostra storia è il rapporto di Amore / Odio tra Tonia e l’Aspirapolvere, donatole dal fratello maggiore del marito Aronne, Isaia. Questi, al fine di farsi perdonare di aver lasciato, a inizio ‘900, la natia Ucraina per i capitalistici USA, anziché impegnarsi a realizzare il difficile sogno sionista in Terra di Israele (doppio tradimento, dunque, secondo Aronne, aggravato da un terzo imperdonabile affronto: venir meno alle proprie radici, assumendo il nuovo nome di Sam!), aveva regalato alla cognata questo strumento, massiccio e robusto, marca G.E., mai visto in tutta la valle di Yizre’el e nell’intera Palestina, dotato di un serbatoio cromato luccicante, di silenziosissime ruote di gomma e di un tubo grosso, ma flessibile. O forse quell’improvviso dono rappresentava una sorta di…schiaffo morale del ricco uomo d’affari (Isaia, poi Sam) -arricchitosi nel mondo americano, definito dai pionieri materialista e frivolo- al fratello socialista/sionista (Aronne)?
Quale che potesse essere la risposta, di tale strumento tutti favoleggiavano, in famiglia; poiché nessuno, a quanto pare, lo aveva mai visto, o forse sì, alcuni (tra i quali la madre di Meir) una volta, ma nulla di preciso vi era su questo punto, perché….
Perché  l’infelice Aspirapolvere (cioè lo Sweeper, come lo chiamava Tonia, la quale pronunciava questa parola alla russa con un erre rotonda e una i lunghissima), dopo un’iniziale perfetta intesa con la sua padrona, un giorno maledetto era incappato in una disavventura che lo aveva condannato ad una sorta di “ergastolo domestico”. Che cosa mai era successo?
Cercate di scoprirlo, leggendo il libro; ma briciole di mistero restano, qua e là.
Perché non sempre è possibile, come scrive Shalev, “[separare] la panna delle storie dal latte magro dei fatti”.
“La Storia con la maiuscola della mia grande famiglia la scriverò forse in un altro libro” preannuncia l’Autore, la storia delle fatiche fisiche, degli ergastoli sentimentali, intingendo la penna “nei conflitti per il controllo dei pozzi della memoria”.
Forse un giorno lo farò, aggiunge “quando sarò più indulgente”. Ciò significa che certi nodi psicologici non sono ancora stati sciolti; o non del tutto, chissà.
Al momento egli ci consegna questo piccolo tesoro di misteri ed equivoci familiari, un romanzo sorprendente, ricco di colpi di scena e di particolari imprevedibili, tenuto insieme dal magico filo della delicatezza e dell’ironia. E della commozione, come quando, al termine, sono rievocate le esequie di Nonna Tonia, il vero perno di tutto il gruppo familiare.
Tra lei, ossessionata dalla pulizia o, meglio, terrorizzata dalla polvere, e Nonna Shlomit, nata Levin, di Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz, la ”gran signora” che emette, appena sbarcata in Terra d’Israele, la sentenza inappellabile: “Il Levante è pieno di microbi!”, vi è ben poco in comune. Nella seconda, dalla voce “color noce” quando cantava, è presente quell’aura di dramma che caratterizza tutta la parabola esistenziale dei Klausner / Mussman; la prima invece pare muoversi in un contesto di commedia, lieve e quasi scherzoso, pur in mezzo a gravi difficoltà economiche (affrontate sempre con grande orgoglio e dignità), dove perfino gli animali, a cominciare dal bianco cavallo Whitey, sembrano essere provvisti di un certo senso dell’umorismo!
Non mancano significativi spaccati di storia di Israele, come, ad esempio, le pagine dedicate ai difficili anni del razionamento e dell’austerità, l’epoca eroica della costruzione del Paese appena costituito in Stato sovrano, ben colti, tra l’altro, nella passeggiata compiuta, al freddo di una notte prossima a lasciare il posto alle prime luci dell’alba, da mamma Batya col piccolo Meir di cinque anni, dalla loro casa di Kiryat Moshe a Gerusalemme verso la Centrale del latte, posta nel quartiere di Geula. Una sorta di “iniziazione” per il bambino: egli infatti, giunto all’appuntamento, sale sul camion, adibito al trasporto del latte, che fa la spola tra Nahalal e Gerusalemme per recarsi, non accompagnato dai genitori, a casa dei nonni. Con la sola compagnia di Motke Habinsky, l’autista del camion del latte (“..e aveva proprio l’aspetto che si confà a un camionista ebreo della Valle di Yizre’el: sano e robusto, camicione blu, larghi pantaloni corti sempre blu, sandali…biblici, come si diceva da quelle parti, o forse si dice anche oggi…”), che lo tratta da pari a pari, con sua grande soddisfazione.
O l’amicizia tra i genitori Shalev, Batya e Itzhak (il poeta), e il celebre scrittore David Shahar (1926/1997), il quale, tra l’altro, regala a Meir questa indimenticabile immagine della stessa Batya, ricordando quand’ella era giunta da Nahalal a Gerusalemme, fresca sposa: “Pareva un grande fiore rosso, sopra le pietre di questa mesta città”. Evidentemente la Gerusalemme di allora non era quella attuale!
E i colloqui tra lo scrittore, da poco assurto ai ranghi della celebrità, e il più illustre Shahar a proposito dei rispettivi metodi di scrittura. Shahar: “….cesello una sola pagina al giorno, ma non torno più indietro” Shalev, al contrario, rivede il testo a più riprese:“…devo tornare indietro svariate volte ..e controllare bene sotto la luce che tutto sia in ordine”
Un po’ come Nonna Tonia, quando lucidava i pavimenti: egli è pur sempre suo nipote!
Lo stile del racconto è scherzoso, il linguaggio affettuosamente indulgente e ironico, specie quando si sofferma sugl’infiniti vezzi del “mondo antico”, durissimi a morire.
Profonda tenerezza lega lo scrittore ai genitori, specie quando egli rievoca la magia del loro primo incontro o ricorda la gioia di Batya all’uscita del primo romanzo del figlio (Roman Rusi, titolo emblematico, pubblicato nel 1990, poco prima della sua precoce morte, avvenuta l’anno dopo), gioia tanto intensa proprio perché esso è incentrato sul mondo campestre da lei tanto rimpianto. Le inevitabili tensioni, punzecchiature e battute…all’acido solforico tra il padre dell’A, definito “di destra”, e la famiglia di origine della moglie (laburista e sionista); cioè tra Gerusalemme, della quale Itzhak è originario, e Nahalal. Mille particolari, anche autobiografici, da frugare e che non anticipo, per non guastare la sorpresa nel lettore.
Incanto nella descrizione della vita al villaggio, dove Meir trascorse da bambino circa un paio d’anni e dove a lungo ritornava per le vacanze scolastiche: i ritmi della campagna, gli odori, i sapori…Come stupende sono le immagini dedicate al paesaggio israeliano, quando egli scrive del peregrinare dei genitori con lui piccolo, dopo aver lasciato Nahalal: ”A Ghinossar siamo rimasti quattro anni…Abitavamo in una baracca sulla riva del lago di Tiberiade….Ricordo il vento che soffiava forte da est e batteva sui teli…io seduto su un’asse di legno, che galleggio e dondolo sulle acque del lago…”
Ogni scrittore degno di questo nome ha l’umiltà -e la grandezza- di comunicare quali Autori hanno influito sulla sua formazione. Nel romanzo il Nostro ci parla dei racconti che la Nonna gli faceva sul suo paese natìo, Rokitno, in Ucraina: “Se la nonna diceva ‘Quand’ero ragazza’ io sapevo che stavano per arrivare neve e ghiaccio, lupi, slitte…” Ve lo immaginate lo stupore curioso di un ragazzo cresciuto in Terra d’Israele? “Raccontava…di quando andava al ginnasio, cosa di cui era molto fiera…dei lunghi viaggi in treno…degli ufficiali russi, che erano…..belli e alti ‘e mi facevano l’occhiolino’, delle riunioni di famiglia attorno al samovar….”.
Quando poi i libri di Meir furono tradotti in russo ed egli fu invitato a Mosca, ricevette un grande complimento e cioè: “[mi dissero che]…anche se non scrivo in russo, sono uno scrittore russo….la cosa non mi stupiva, dato che mi sento…influenzato da….Nikolaj Gogol’, Vladimir Nabokov; Michail Bulgakov e…nonna Tonia…Anche lei raccontava….come Gogol’ storie meravigliose ed era nata e cresciuta in Ucraina…lui in un paesino di nome Sorochyntsi, mentre lei in un altro che si chiama Rokitno, che suonava così piccolo e bello, nel suo accento”.