(Titolo originale: Lettres d’amour in héritage, Editions du Seuil, 2006)
Trad. Elena Pasini, Ed. Archinto, Milano 2008, pp. 185

“Era trascorso un anno e mezzo dalla morte di mia madre, tre anni e mezzo da quella di mio padre…..Nei miei sogni erano insieme….Ero curiosa di capire come si fosse formata la coppia…Volevo sapere da quale storia fossi nata”.

Quando lo scorso luglio segnalai all’amico Giuliano Berti Arnoaldi il romanzo di Lizzie Doron Perché non sei venuta prima della guerra? questi, di rimando, mi consigliò “un bellissimo libretto che ho letto, di Lydia Flem (una psicanalista francese), che si intitola Lettere d’amore in eredità, ed è edito da Archinto. Se ti capita, prendilo, perché secondo me potrebbe anche meritare una tua recensione”.

Giuliano è persona sensibile e attenta, oltre che di solida cultura. Lo ringrazio per la stima che mi riserva.
Ho seguito senza indugio il suo consiglio, incoraggiata dal fatto che vi sono libri/testimonianza che non figurano nelle classifiche stilate dalle rubriche culturali dei quotidiani, meritevoli, a maggior ragione, di interesse da parte di coloro sempre in caccia di “tesori letterari”, tesori che abbondano; basta aver la pazienza di cercarli. Ciò non impedisce, è ovvio, che possano nascondersi capolavori perfino sotto il luccichio del “più venduto in questa settimana”. Gli esempi non mancano.
Il libretto in questione è un’importante testimonianza d’Amore. L’Amore, come si legge nelle pagine di Lydia Flem, “è un oscillare tra tenere distanze e condividere, tra solitudine e presenze, un funambolo che cammina su un filo in un equilibrio da costruire a ogni secondo”.
Amore tra i genitori dell’Autrice, due giovani ebrei che s’incontrano per caso al termine della guerra: Edith Esser, di provenienza renana -il cui nome di nascita, di assonanza germanica, in seguito lascerà a favore del francese Jacqueline “per crearsi un’identità nella Resistenza” [in Francia]- e Boris Flem, russo di origine.
Amore per i genitori da parte di una Figlia la quale, dopo averne svuotato la casa a seguito della loro scomparsa, si trova, tra i diversi oggetti e ricordi, il prezioso patrimonio di tre scatole di cartone, contenenti le lettere d’amore (circa 750, scritte in francese, che non era la lingua materna di nessuno dei due) che essi si erano scambiati nel periodo tra il loro primo incontro, alla fine di settembre 1946, e il matrimonio, l’1 dicembre 1949.
Colpisce prima di tutto il grande rispetto da parte di Lydia nei confronti di quel mondo che, per un verso, non è il suo, ma che, per un altro, le appartiene.
Leggere le loro lettere, scoprire com’erano da giovani, quali tracce aveva lasciato in loro la tragedia della guerra era una sorta di completamento di un’esperienza, un…chiudere il cerchio. Ciò nondimeno l’assillante domanda: “Ho il diritto di intromettermi nella loro vita?” Ella ritiene di averlo, tale diritto: “Non ero nata da quella corrispondenza, da quei doppi scritti?” si domanda.
Coinvolta sempre più in tale esperienza in barba agl’immancabili “silenzi infastiditi di alcuni amici quando li facevo partecipi del mio progetto”, ricopia paziente al computer (parte del) le lettere.
Lo sforzo fisico, ma soprattutto psicologico, è notevole, tanto che dopo diversi mesi di lettura, nascerà nell’Autrice l’esigenza di prendersi una pausa e occuparsi d’altro.
Ma intanto ella ripercorre le tappe della storia e della corrispondenza. Corrispondenza iniziata dopo l’incontro fortuito presso il sanatorio Grand Hôtel di Leysin in Svizzera, dove Jacqueline è ricoverata per curare la TBC contratta a seguito della terribile esperienza vissuta ad Auschwitz (campo di sterminio, seguito dalle tremende marce della morte), di cui ella non parla se non per brevi accenni, ma che ciononostante -anzi proprio per questo- emerge in tutta la sua tragica realtà.
Lettera dopo lettera, davanti agli occhi e al cuore di Lydia, l’amore tra i due diventa adulto, sostenuto da quella indispensabile complicità, senza la quale un legame non è destinato a durare; ma è anche classico Amour/ Passion che si nutre, vive di ostacoli: la malattia di lei, la diffidenza degli altri, gli amici di lui che vorrebbero scoraggiarlo dal legare la sua esistenza a quella di una Tutu (termine scioccamente criptico, che vorrebbe essere scherzoso, per designare un ammalato, o reduce, di tubercolosi).
La Figlia, tra ricopiature e interruzioni, ritrova il carattere di ciascuno dei Genitori. Ella è a suo agio tra quelle lettere, anche perché, da tempo, “scrivere” [e dunque anche leggere] “è diventato il mio terreno di gioco….cerco le parole, provo un ritmo per condividerlo poi con gli altri”.
La Madre, “la francese”. Certo, la sua lingua dell’infanzia era stata il tedesco; ma poi era giunta a Strasburgo, nel 1933, a 12 anni e per lei il francese aveva finito per rappresentare la libertà e, successivamente, come sappiamo, l’impegno nella Resistenza. Dei due era Jacqueline il personaggio più brillante, più…eccessivo. Forte nella sua fragilità, a lungo concentrata su se stessa per guarire, una volta -a prezzo di tante sofferenze- ristabilitasi in qualche modo (ma della sofferenza interiore non ti liberi mai…), non si era impegnata in nulla al di fuori del limitato universo familiare; il suo mondo si era, in qualche modo, ristretto, tanto da entrare in contrasto con la figlia, ansiosa di vivere la propria esperienza fuori dei castranti schemi tradizionali. Jacqueline sognava solo “l’abito bianco” per Lydia, la quale, invece, si era sentita, nel protestare l’affermazione della propria individualità, fedele al passato della madre più della madre stessa.
Il Padre: tenero, segreto, ferito, dolcissimo prima con la figlia, poi con la nipote: l’essere rimasto presto orfano aveva indotto in lui una particolare sensibilità nei confronti dell’altrui sofferenza.
La lingua dell’infanzia per lui era stata il russo; aveva imparato il francese a Charleroi a 15 anni, lontano dai parenti più stretti. Aveva, a sua volta, sopportato dolorose vicissitudini: dalla Russia, alla Germania, all’Olanda, al Belgio….la prigionia per più di tre anni in un campo di lavoro in Baviera …Proprio dal racconto di tali peregrinazioni era nata quell’empatia verso Jacqueline (“Parlo del mio dolore come ha fatto lei nella sua lettera. Ho fatto come lei, come te”).
Attraverso le lettere l’Autrice entra in contatto con la parte russa (paterna) della famiglia, rimasta, fino ad allora, in ombra: ad esempio col Nonno, ucciso nel 1925 quando essi uscirono dall’URSS, personaggio affascinante; era un ingegnere e fine intellettuale.
Scritti in modo minuzioso, ma proprio per questo ricchi di fascino, sono i momenti in cui ella, ritornata bambina, riporta alcuni squarci di vita familiare, che tanti di noi hanno condiviso e ricordano. Ad esempio la magia di osservare, con un misto di stupore e di invidia, mamma e papà che, alla sera, si preparano per uscire: “E poi [mia madre] teneva a lungo le dita separate, soffiandoci sopra affinché lo smalto si asciugasse più rapidamente”….
La scrittrice sente il legame tra le generazioni, valore universale, certo, ma che, nella cultura (e sensibilità) ebraica, è pietra miliare. Un valore che prescinde dalla fede e dalla pratica religiosa, com’è nei protagonisti della nostra storia. Per Lydia Ebraismo significa Gioia, qualcosa “di intimo e misterioso”: “Non è sconvolgente essere legati così, una generazione dopo l’altra, ad una storia unica?” riflette. Torna, a più riprese, questo motivo: “La nostra storia non si scrive su un foglio bianco; fin dal nostro concepimento ci troviamo persi dentro un’altra storia, dei nostri genitori…dei nostri nonni…” Di generazione in generazione. Midor, Ledor.
Il libro, è semplice, essenziale, ma ricco di spunti e contenuti, che ritroviamo in tante opere; fiumi con diverso percorso.
Tra i tanti: il sentimento ambivalente di Jacqueline circa le proprie origini. Ella avrebbe voluto assimilarsi, ma, nello stesso tempo, temeva la perdita delle sue radici. Condivideva la sensibilità dei cosmopoliti ebrei tedeschi, che si sentivano più tedeschi che ebrei e guardavano con una certa incomprensione, mista a disprezzo, i loro correligionari esteuropei, intrisi di cultura religiosa tradizionale: “Non ho niente in comune con quella gente….Una sola e unica cosa mi unisce a loro: la sofferenza; sofferenza dovuta alla comune persecuzione”. Il dolore vissuto, in quanto ebrea, ad Auschwitz, la esortava a desiderare più che mai di fondersi con tutti gli altri esseri umani; una visione opposta a quella di Herzl.
L’aspirazione sionista ad uno Stato per gli Ebrei non faceva parte del suo orizzonte: “L’idea stessa le ripugnava”.
Nel pensare a Jacqueline mi viene in mente David Klausner, zio di Amos Oz, il brillante giovane professore che non se ne andò dall’Europa al momento del pericolo. Restò in prima linea a Vilna, contro la barbarie che avanzava e pagò con la vita la sua coerenza.
Tuttavia……Alla fine della vita Jacqueline aveva messo per iscritto i suoi ricordi d’infanzia nella placida campagna renana, dedicandoli alla nipote. Peraltro Lydia, ad un certo punto, venne a sapere che, nella casa dei nonni, dove l’allora piccola Edith aveva trovato calore ed affetto, tutti i venerdì sera e tutte le feste del calendario ebraico, brillavano le candele tradizionali.
Altri temi che emergono dal prezioso libretto: il lungo Silenzio dei Sopravvissuti: su ciò che era stato il loro patire “impossibile da raccontare, impossibile da credere”. Gli ex deportati volevano essere come gli altri, “senza storia”, ma, come scrive Jacqueline “Non si torna mai da laggiù”.
L’Eredità del trauma della Shoah. Che significa essere figli di Sopravvissuti? Tanti hanno dato risposte, tutte diverse. Emozionante quella di Daniel Vogelmann, fondatore della Casa Editrice Giuntina di Firenze, espressa nel saggio Un editore di memorie ebraiche: nascita di una vocazione, leggibile in Le storie estreme e la storia-I racconti della Shoah, 1999, a cura dell’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea della Provincia di Bologna. Su quanto Daniel ci dice non c’è nulla da aggiungere: alla lettura della sua testimonianza volentieri rimando.
Il trauma ereditato deve spegnersi, perdere la sua forza, ma ciò è possibile? Jacqueline avrebbe voluto scrivere un libro sulla sua esperienza, ma il marito glielo impedì, per evitarle ulteriori sofferenze, e lei desistette.
E’ proprio col padre Boris che Lydia ha una profonda empatia, con quest’uomo entusiasta, fino alla fine, di tutto ciò che di nuovo c’era nella vita, compreso Internet.
Ella aveva deciso di diventare psicanalista per “analizzare, curare” il dolore di lui, che tutta la vita aveva accudito la moglie, la sua Jacky, il suo “tutto”, le era sempre stato vicino, ma che serbava dentro di sé, ben nascosti nel buio dell’anima, emozioni e sentimenti, che “riguardavano storie del passato che mi [alla figlia, cioè] sfuggivano”. Un dolore nascosto, ma lancinante, che mi fa pensare a Fania Mussman (la mamma di Amos Oz) e al suo mondo di solitudine e silenzio. Ma Boris non è solo come Fania perché ha un capolavoro da accudire e da realizzare: l’amore per sua moglie. Un Amore che va oltre il Tempo.
Etichetta: