Organizzato dal Comune – Assessorato alla Cultura, con l’assistenza di Stefano Levi Della Torre e Anna Foa, si è svolto a Bologna, dal 17 al 19 febbraio, il Convegno Internazionale GLI EBREI E ISRAELE. IDENTITÀ, CONFLITTI, GLOBALIZZAZIONE.

Scopo dell’iniziativa è stata la riflessione a largo raggio sul popolo ebraico e su Israele, ad opera degli stessi ebrei, ma anche da coloro che ebrei non sono, come cristiani e mussulmani.
Il Convegno si è proposto di delineare le realtà e le prospettive del mondo ebraico e i rapporti tra Ebrei e Stato di Israele alla prova del conflitto arabo/israeliano/palestinese e delle guerre in atto nel Medio Oriente, dei nazionalismi e dei fondamentalismi, della globalizzazione economica e delle migrazioni di massa, che rimettono in discussione identità sedimentate e compromessi raggiunti nel passato con fatica tra etnie, culture e religioni. E’ indubbio come la fondazione dello Stato di Israele (meglio sarebbe definirla ri-fondazione) ha ripristinato un centro di responsabilità politica che rappresenta una novità e un cambiamento nel modo di essere ebrei nell’arco degli ultimi duemila anni.
Ci si confronta con le tendenze in atto: il terrorismo internazionale di matrice islamista, forti tendenze antisemite presenti non solo nel Vicino Oriente, ma nell’Occidente sedicente democratico, pur sotto la veste, in apparenza tranquillizzante, di critica più che legittima alla politica dei diversi governi israeliani.
Il Meeting ha inteso misurarsi con le semplificazioni ideologiche, che fanno delle identità collettive e delle civiltà un tutto omogeneo, semplificazioni che rischiano di degenerare in pregiudizi; ha voluto studiare la c.d. “differenza ebraica” in sé, oltre che le differenze tra gli ebrei, tra Israele e Diaspora -notevoli, per quanto concerne quest’ultima, le relazioni della scrittrice e storica Diana Pinto e del Prof. Daniele Fiorentino, su Gli Ebrei in Europa e negli U.S.A: situazioni a confronto-, i differenti modi di essere e di sentirsi ebrei, tra laicità (o addirittura laicismo) e intransigente ortodossia, tra particolarismo e universalismo (dialettica svolta, nell’ultima tavola rotonda, da Amos Luzzatto, con la consueta maestria, ricca di umanità e di saporose storielle yiddish), tra desiderio di separatezza e la reciproca influenza verso (e dal) mondo non ebraico: dinamiche presenti, si può dire, fin dai tempi biblici.
Una scelta impegnativa, così l’ha definita il Sindaco Sergio Cofferati nella serata di apertura, che ha inteso promuovere confronti e discussioni, sotto forma di dibattito tra posizioni assai differenziate e polarizzate, al fine di promuovere la conoscenza su tematiche che bene si inseriscono in un contesto, come l’attuale, di instabilità e conflittualità, che generano preoccupazioni ed incertezze, specie tra le giovani generazioni.
L’incontro è stato preceduto da forti polemiche, dovute a cause diverse.
Anzitutto la presenza, ad una tavola rotonda tenutasi l’ultima giornata, di Adriano Sofri; la cui partecipazione è stata stigmatizzata da Forza Italia, Lega Nord e AN, con argomentazioni che nulla, per la verità, avevano a che vedere con l’incontro (ciò a prescindere dalla posizione che ciascuno può legittimamente avere sulla tragica vicenda che vede protagonista l’ex leader di L.C.).
Altri motivi di contestazione sono derivati dal taglio dato al Convegno stesso dagli organizzatori.
Anzitutto la locale Comunità Ebraica, pur portando in apertura il proprio saluto nella persona del Presidente Dr. Guido Ottolenghi, aveva fatto notare, in altra sede, come il Comune avesse deciso di dar vita all’evento da solo, senza coinvolgerla e “sottoponendo[le] un programma già deciso”.
Puntuale la replica del Sindaco, che, da padrone di casa, ha teso la mano alla Comunità, esprimendo la gratitudine di tutta la città nei suoi confronti:“…se ci sono state tensioni, sappiate che sono state solo fisiologiche. Bologna, tiene molto a voi!” Egli ha poi liquidato come “rozze e prive di ragioni” altre contestazioni, avanzate, a quanto pare, dalla locale Associazione di Amicizia Italia/Israele (nemmeno essa coinvolta!). Detto gruppo, tramite un laconico comunicato apparso sui quotidiani locali, aveva espresso, in via preventiva -come, del resto, è adusa fare, con il solito tempismo- “riserve”e “giustificato allarme” poiché “troppe volte iniziative simili a Bologna si sono trasformate in attacchi all’esistenza dello Stato di Israele”. Motivo delle “riserve”e del “giustificato allarme” erano non solo le persone degli organizzatori, appartenenti al campo della “sinistra” italiana, ma anche alcuni dei relatori invitati.
Pare, poi, che gli organi direttivi dell’attiva ed influente Associazione, oltre che consigliare ai propri adepti di andarsene, lo scorso fine settimana, sui campi di sci, anziché confluire a ranghi serrati nella sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio -sede del Congresso-, siano riusciti a persuadere, presumo con serie argomentazioni, che sarebbe interessante conoscere in modo esauriente, il Ministro Consigliere rappresentante culturale dell’Ambasciata di Israele in Italia, Dr. Elazar Cohen, il quale aveva già aderito e che avrebbe dovuto portare ai presenti il saluto del proprio Paese, a restarsene a Roma. Motivo di imbarazzo, che né le parole distensive di Sergio Cofferati, né, men che mai, l’anodino messaggio (di scuse per il dietrofront? Impossibilità dovuta a improvvisa febbre influenzale? Non era ben chiaro) inviato dal Dr. Cohen, e letto al pubblico, sono riusciti a sciogliere.
Il Ministro Consigliere non è un privato cittadino: ha il diritto/dovere di presenziare, specie se invitato da tempo, ad un’iniziativa in cui si tratta del proprio Paese, specie se c’è il sospetto, o almeno il timore, che quest’ultimo sia messo in cattiva luce. E’ sbagliato, per un’istituzione, cedere alle pressioni, disinteressate (per carità!), di un gruppo di amici solerti, ancorché ben introdotti nelle segrete stanze dell’Ambasciata.
Il Sig. Ministro Consigliere, ahilui!, ha perduto una buona occasione.
Il Convegno non ha riguardato, si ribadisce, lo Stato di Israele in quanto tale, bensì il mondo ebraico nel suo insieme, visto nella filigrana dei concetti di identità, conflitti e globalizzazione. Israele non esaurisce il mondo ebraico, pur rappresentando la rinascita fisica e morale degli Ebrei -come ha sottolineato, nel suo indirizzo di saluto, il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Avv. Renzo Gattegna- e il mondo ebraico non si esaurisce con Israele; e nemmeno con la Shoah.
Importanti sono state le lacune, su cui intratterrò più avanti. Qualora esse fossero state corrette, il prestigio dell’iniziativa ne avrebbe guadagnato; ma ciò non giustifica l’assenza di chi rappresenta uno Stato di primo piano, come Israele.
Chi scrive non può nemmeno pensare che questa assise internazionale sia stata un elegante pretesto per demonizzare lo Stato di Israele: una succosa mela rossa dalla polpa avvelenata, sotto forma di dialoghi culturali e di discussioni su brani del Talmud. Tuttavia, pure nella malaugurata ipotesi che ciò corrispondesse a verità, beh, la mela, pur con qualche “semino” di troppo, che rende meno agevole la digestione, di sicuro non era avvelenata.
Affermo questo perché l’impressione della sottoscritta, che ha assistito a quasi tutte le sessioni del Convegno, è che le voci degli amici forti e sinceri di Israele fossero assai più autorevoli di coloro che, ad esempio, sulla scia dei cosiddetti “Nuovi storici israeliani” rispolverano i luoghi comuni della “politica razzista” e di “espropriazione”, attuata nei decenni dai diversi governi, a danno di un ipotetico “popolo palestinese”, della cui esistenza politica nulla peraltro si sapeva, almeno fino al 1967. Concetti, questi ultimi, espressi in piena libertà, decontestualizzati anche nelle citazioni di opinioni di leaders (come Ben Gurion) che avrebbero sostenuto -a detta di Raya Cohen (Tel Aviv University e Università Federico II, Napoli) nel suo confronto (scontro, nella sostanza) con Benny Morris (Ben Gurion University of the Negev Beer Sheva)-: “Noi ebrei siamo gli aggressori”.
Interessante l’excursus storico di Morris -già aderente al filone degli storici “revisionisti”, come alcuni suoi colleghi di Università- sulle vicende che portarono alla fondazione dello Stato e la drammatica dinamica del conflitto arabo/israelo/palestinese, compreso l’attuale stallo, che egli teme si protrarrà per chissà quanto tempo, conseguenza della vittoria di Hamas alle lezioni parlamentari palestinesi del gennaio 2006 e della intrinseca debolezza del Presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
Lo studioso ha insistito sulla diversa percezione delle ragioni dell’altro presso Arabi ed Ebrei, dimostrando come questi ultimi, almeno fin dal 1947, abbiano accolto il principio di spartizione della Palestina -o, per l’esattezza, della parte di essa, detratto il regno hashemita di (Trans)Giordania-. Accettazione che si esprime, a livello di pubblica opinione, pur differenziata, nelle diverse formazioni politiche (escluse frange estremiste, che tuttavia non hanno un peso tanto rilevante nel Paese). Egli ha ricordato che la piattaforma del nuovo partito, fondato da Ariel Sharon, Kadima, avesse, tra i suoi punti di forza, il ritiro di Israele da gran parte dei Territori conquistati nella guerra di difesa del 1967; e come Ehud Olmert abbia vinto le elezioni nel marzo scorso proprio sulla base di questo ritiro (progetto poi interrotto anche a causa del rapimento, in territorio israeliano, prima del miltare Gilad Shalit da parte di membri di Hamas, a giugno, indi dei commilitoni Ehud Goldwasser ed Eldad Regev ad opera delle milizie Hetzbollah, a luglio).
Gli Arabi non hanno mai accettato l’esistenza di uno Stato Ebraico in quella che essi considerano terra mussulmana, non passibile di negoziazioni serie e definitive, bensì solo di tregue, stracciabili in ogni momento a seconda della convenienza. La linea in buona sostanza non è mai cambiata nel corso dei decenni.
Una puntuale relazione dei rapporti tra i diversi movimenti e gruppi estremistici e terroristici presenti nel mondo, a partire dalla seconda metà del Novecento e, in particolare, in un contesto, per così dire, globalizzato, le relazioni tra le organizzazioni palestinesi (unite nel fine-la distruzione dello Stato ebraico-, pur diversificate nei mezzi e nei tempi con cui attuarlo) e le altre compagini terroristiche sparse in primis in Occidente -comprese le nostre Brigate Rosse, “vecchie” o “nuove” che siano- è stata svolta da uno dei massimi esperti mondiali di terrorismo, Ely Karmon, dell’Institute for Policy and Strategy, Interdisciplinary Center, di Herzliya.
Con linguaggio senza sbavature e in un italiano fluente, il politologo ha svolto un’analisi a tutto campo, in un teatro animato da svariati personaggi: oltre ai protagonisti (israeliani e palestinesi), anche tutti gli Stati Arabi (nelle loro diverse posizioni), gli U.S.A., l’Europa, l’U.R.S.S. (poi gli Stati nati dalla sua dissoluzione nel 1991, in primis la Russia), la Cina, il Giappone, l’America Latina e, infine, l’Iran che, a seguito della c.d. Rivoluzione del 1979, ha posto la distruzione di Israele come obiettivo prioritario della propria politica.
Karmon ha, tra l’altro, messo in guardia dai facili ottimismi di chi ritiene gli obiettivi del “nazionalismo” palestinese modificabili nel tempo: dal progetto di distruzione dello Stato ebraico alla creazione di uno Stato palestinese democratico (o tendenzialmente tale) che viva e prosperi accanto a Israele. Il movimento palestinese non è mai cambiato: Arafat ha accettato, ha sottolineato il relatore, di andare a Oslo, cioè di (fingere di) riconoscere Israele per poter uscire dal cono d’ombra, cui non era abituato, per rimettersi in gioco -e far convergere cospicui finanziamenti alle proprie casse- agli occhi occidentali, soprattutto statunitensi, dopo l’isolamento in cui era piombato a seguito dell’improvvido schierarsi con Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo. La Costituzione dell’OLP, che prevede lo sradicamento del sionismo e la distruzione di Israele, non è stata davvero mai abrogata; l’aspetto religioso del conflitto, sempre presente anche se in certi periodi era sottotraccia come una sorta di fiume carsico, è riemerso in tutta la sua rilevanza ad opera del gruppo armato di Fatah, chiamato (nomen omen) Brigate al Aqsa, dal nome del terzo luogo santo della tradizione islamica; come Intifadah al Aqsa si chiama la guerra terroristica scatenata nel settembre 2000 contro Israele da Arafat, cui Karmon imputa la responsabilità storica di aver distrutto ogni speranza di vita democratica per i palestinesi; così come Abu Mazen non è stato in grado di invertire la rotta, dopo la morte di lui, nell’autunno di due anni fa. L’aspetto religioso è dominante oggi, a maggior ragione, con il rafforzarsi progressivo dell’islamismo genocidario globalizzato e, nella fattispecie, con il gruppo Hamas che ha imposto, da ultimo, la propria tabella di marcia per la formazione di un governo palestinese di unità nazionale, dopo i violenti scontri interfazioni delle scorse settimane.
Hamas può cambiare? Si domanda il relatore. No, purtroppo: è un movimento religioso, non un partito politico; il suo stesso carattere glielo impedisce, pena l’autodistruzione. Può, come detto, attuare una hudna, magari anche di anni, a seconda delle proprie convenienze e strategie; tregua, peraltro, violabile in qualunque momento.
“Chi lo dice che Hamas non può cambiare? Tutti possono cambiare! Anche Sharon è cambiato” Con queste parole e con un accostamento, a dir poco, improprio (atteso, a tacer d’altro, che non si può accostare un movimento religioso ad un uomo politico), è intervenuto nel dibattito Yossi Beilin, già Ministro della Giustizia nel Governo israeliano e, soprattutto, uno degli artefici degli accordi di Oslo nonché autore, qualche anno fa, insieme ad un gruppo di personalità israeliane e palestinesi, alcune prestigiose dal punto di vista culturale, del c.d. Documento di Ginevra, un proposta di risoluzione del conflitto, che, al di là delle buone intenzioni, ha in sé non pochi punti oscuri (circa la sicurezza e l’avvenire di Israele) ma che, poi, per sua stessa caratteristica, non è (stato) in grado di influire sul contesto politico dell’una e dell’altra parte.
Ritengo non sia stata, per così dire, efficace la scelta di Beilin come relatore al Convegno, proprio perché si tratta di una personalità il cui messaggio, tutto all’insegna del ritiro e della rinuncia, senza nulla avere in cambio, ha fatto il suo tempo: anche la ricerca di strade nuove, di tentativi di confronto e di ricerca di spazi comuni, la scelta, per intenderci, pacifista (con il carico di equivocità che tale termine trascina con sé) deve individuare personalità nuove, che non abbiano lo sguardo rivolto ad un passato già definito perché fallito.
Altro aspetto, niente affatto condivisibile, il…..semino davvero indigesto è stato l’invito, come voce mussulmana, del Dr. Soheib Bencheik, dell’Institut Supérieur des Sciences Islamiques di Marsiglia. Nato in Arabia Saudita, studi in Algeria, uomo giovane, affascinante, nel suo francese, ricco di sfumature, perfettamente comprensibile da chi in passato ha avuto una certa dimestichezza con quella lingua, ha svolto un intervento improntato al dialogo, alla ricerca delle comuni radici monoteiste. Anzi, egli ha affermato, l’Islam senza l’Ebraismo e il Cristianesimo diventa un non senso, una religione illegittima. Guai a tagliare le preziose radici dell’Islam! Il messaggio dell’Islam si riallaccia direttamente al profetismo ebraico.
Nel ricordare l’origine africana di alcuni Padri della Chiesa, ha poi criticato l’insistenza con cui la Chiesa cattolica, a cominciare dal Pontefice, parla delle radici cristiane dell’Europa. “Le radici del cristianesimo non sono in Europa, ma in tutto il mondo!”
E’ stupefacente scoprire, da parte di chi riteneva -del tutto a torto, è chiaro- di aver un minimo di rudimenti di storia del Cristianesimo, che i primi autorevoli seguaci di Gesù Cristo avessero svolto la loro missione, anziché a Roma, allora centro del mondo, in plaghe molto remote, forse su qualche isolotto solforoso del Pacifico; e che il movimento monastico, sorto d’accordo in Egitto, ma diffusosi nel nostro continente ben presto, sia stato una pia allucinazione. Aveva bevuto un goccetto di troppo quel buontempone di J. W. Goethe quando affermava che l’Europa è nata in pellegrinaggio e che la sua lingua materna è il Cristianesimo? E’ evidente che aveva alzato il gomito. Capita anche ai geni un momento di umana debolezza.
O piuttosto, battute amare a parte, c’è il reiterato tentativo, niente affatto celato, da parte di esponenti mussulmani, come il suadente Dr. Soheib Bencheik, di insegnare ai cristiani com’essere cristiani Islamically correct, vale a dire dhimmi senza dignità? Occhio ad Eurabia di sempre attuale memoria!
Tuttavia gli Ebrei, i figli del comune padre Abramo, non ricevono un trattamento migliore.
Dopo averne esaltato le qualità e posto l’accento sull’importanza della loro presenza nei Paesi islamici (si riferisce al passato, al presente o al futuro? In ogni caso, come la mettiamo con le persecuzioni antiebrache che, da sempre, hanno caratterizzato le terre mussulmane?) egli ha soavemente invitato i fratelli (sic) Ebrei ad abbandonare ogni “nazionalizzazione del loro patrimonio” Non perdete questa occasione, ha insistito.
I presenti in sala, magari un po’ provati da questa “tre giorni” culturale, forse non avrebbero colto il messaggio, se Ely Karmon non avesse con prontezza ribattuto che solo agli Ebrei viene chiesto di rinunciare al loro “essere nazione”.
Sarebbe stato di basilare importanza invitare un mussulmano democratico; l’occasione è stata buttata al vento. Ci sono personalità mussulmane in Europa (in Italia e pure fuori del nostro Paese) che rispettano le fede e la cultura degli altri, che credono nella laicità, nella democrazia e nel rispetto della vita, propria ed altrui.
Peccato. Com’è stato un peccato non aver rivolto nemmeno un pensiero ai tanti intellettuali musulmani, incarcerati nei loro Paesi d’origine o emarginati in Occidente. Magari perfino costretti a emigrare al di là dell’Atlantico.
Un intervento, per così dire, a braccio è stato svolto da Adriano Sofri in chiusura. Era giunto il giorno precedente, in sordina, e si era seduto nell’ultima fila, quasi infastidito dalla sovraesposizione mediatica cui era sottoposto. Contrasto tra i flash dei fotografi e lui che lasciava fare, incurante della loro presenza. Un uomo dall’aspetto sofferto, quasi duro, che nulla fa per ingraziarsi la simpatia del pubblico, ma che ha dipanato concetti importanti; come quando, tra l’altro, ha espresso la preoccupazione per il ruolo svolto oggi, sul piano planetario, dell’inversione dei ruoli carnefici / vittime. Gli Ebrei, le vittime per antonomasia, organizzatisi in Stato, sono diventati ben presto i carnefici, i nuovi nazisti. Gioco pericoloso, cui purtroppo si presta, secondo lo scrittore, anche un certo numero di ebrei di sinistra per mantenersi a galla. Paranoia che riemerge, come quando si diffuse la menzogna che l’orrore dell’11 settembre era opera del Mossad; come quando si insiste, per quanto concerne la Diaspora, sullo pseudo-problema della “doppia fedeltà” ebraica. Ma oggi tutti noi abbiamo una doppia, o tripla, fedeltà; proprio la forza dell’esperienza ebraica può essere una lezione per il nostro mondo globalizzato.
Su tutto grava l’ombra sinistra dell’Iran dei mullah in corsa per la Bomba, ha concluso, un’ombra che copre, anzi soffoca, un grande Paese, pieno di risorse umane, di energie, ansioso di vita.
 
Non è facile tirare le somme di questo Convegno, inportante e degno di attenzione, con luci, molte, e ombre, alcune (pur gravi).
Forse non è stato individuato a sufficienza un filo conduttore, gli argomenti hanno patito una certa dispersione, ma, tutto sommato, è stata un’occasione di grande interesse, da meditare e da rileggere nelle sue espressioni, non appena, mi auguro tra pochi mesi, usciranno gli atti.

 

 

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